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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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COMMENTI...FUORI DAL CORO...I (fino a giugno 2016) di Roberto Rapaccini











BREXIT (27-6-2016)

Sicuramente l'Unione Europea attraversa un momento di crisi. È succube delle  discutibili scelte economiche della Germania. In termini estremamente esemplificati il governo tedesco, per favorire la propria economia, promuove una politica di austerità e di rigore, che impone agli Stati membri meno solidi come il nostro pesanti  manovre fiscali e  riduzioni della spesa pubblica, che si traducono in una pericolosa spinta deflazionistica. Questa spirale ha come corollario la riduzione della circolazione del denaro e una contrazione dei consumi, presupposti di una recessione economica e di un generale impoverimento.  L'Unione Europea inoltre ha intrapreso  negli scorsi anni, forse con troppa disinvoltura, un allargamento verso est, inglobando alcuni  Stati dell'Europa orientale e passando in pochi anni da 15 a 28 Paesi membri. In molte occasioni queste nazioni neoammesse hanno evidenziato un'assenza della cultura della solidarietà europea, rivelando divisioni e contrasti con Stati limitrofi, snaturando i tratti comuni di mutuo ausilio, componente indissolubile dello spirito comunitario. Molte aspettative che i trattati europei avevano alimentato sono rimaste deluse. Con il Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore nel 1993) l'Europa da realtà economica avrebbe dovuto fare un salto qualitativo diventando un'unione politica. Questo processo di fatto non si è realizzato: lo prova l'assenza di una politica estera comune. Nonostante questo, l'Unione Europea resta un'importante e irrinunciabile opportunità, che richiede però un incisivo processo di revisione che evidenzi i presupposti  dell'attuale fallimento. È opportuno insistere sulla via europea, non dimenticando tuttavia che l'Unione Europea necessita di  radicali riforme, che innanzitutto attuino una reale uguaglianza fra gli Stati membri evitando la sudditanza del sud Europa rispetto al nord Europa, e promuovano il ripristino del ruolo propositivo della Commissione Europea, che da organo principale del potere esecutivo si è ridotta in questi ultimi anni ad uno sterile e burocratico gendarme che controlla (e nemmeno con tanta obiettività) la condotta degli Stati membri. A questo va aggiunto che l'uscita dall'Unione Europea non è auspicabile anche perché espone a terremoti finanziari dagli effetti al momento imprevedibili. Analogamente l'introduzione dell'euro come moneta unica, non preceduta dalla creazione delle sovrastrutture necessarie, ha indubbiamente penalizzato l'economia italiana. Tuttavia il ritorno alla lira comporterebbe, come unanimemente viene riconosciuto, un immediato impoverimento, anche se alcuni economisti sostengono che i dissesti finanziari sarebbero seguiti da una progressiva normalizzazione. In altri termini l'ingresso nell'Unione Europea (come anche nell'euro) ha avviato dei processi irreversibili che non consentono un  indolore ritorno al passato. Com'è noto, i risultati del referendum britannico non sono stati omogenei: il 'remain' ha vinto in Scozia (62%) e in Irlanda del Nord (56%), il 'leave' ha ottenuto la maggioranza in Inghilterra (53%) e nel Galles (52%); complessivamente il 52% della popolazione si è espresso per il 'leave', mentre il 48% per il 'remain'. L'equilibrio fra i due fronti e la diversa ripartizione geografica sta aprendo delle gravi lacerazioni interne. Alcuni politici hanno prospettato la possibilità di promuovere un nuovo referendum in Scozia finalizzato alla sua separazione dal Regno Unito e alla sua permanenza nell'Unione Europea. Poiché il referendum sulla 'Brexit' ha avuto natura consultiva e quindi  richiederà concreti provvedimenti attuativi, Scozia e Irlanda forse potrebbero negoziare attraverso il Regno Unito e senza un referendum la loro permanenza nell'Unione Europea come comunità regionali. Si tratta di ipotesi più o meno ardite e del tutto nuove. Si aprono infatti scenari completamente imprevedibili e inesplorati, perché mai in passato si è verificata l'uscita di un Paese membro. Poiché il governo britannico dovrà presentare istanza formale di uscita dall'Unione Europea e da quel momento ci vorranno almeno due anni prima che si perfezioni la procedura di uscita, ci sono tante situazioni transitorie da regolamentare, come ad esempio lo 'status' degli europarlamentari britannici che non solo non rappresentano più uno Stato membro, ma potrebbero anche trovarsi in una posizione di conflitto di interessi con l'Unione Europea visto che ora il Regno Unito si avvia ad essere uno Stato esterno. C'è anche la possibilità che si avvii un processo di disgregazione dell'Unione Europea, preceduto da analoghi referendum in altri Stati.  Il sentimento antieuropeo è molto forte in alcuni Paesi nord europei, in Danimarca ad esempio, e lì sono possibili simili iniziative. In Italia il referendum sui trattati internazionali è vietato dalla Costituzione (art. 75). Quindi un'eventuale  analoga istanza referendaria dovrebbe essere preceduto da una modifica costituzionale. In questi giorni si sentono molte banalità e inesattezze da parte di politici e celebrati personaggi televisivi sull'argomento della Brexit. Sembra anche che molti non abbiano le idee chiare nemmeno sulla differenza fra Inghilterra e Regno Unito. A sentire molti 'opinion maker' si percepisce la sensazione che con la Brexit siano venuti meno tutti i trattati bilaterali e plurilaterali del Regno Unito con i Paesi europei. Questo naturalmente non è vero. Anzi aggiungerei che probabilmente - ma è un'ipotesi da esplorare caso per caso - dovrebbero rivivere i trattati del Regno Unito con i Paesi Europei vigenti prima del suo ingresso nell'Unione Europea e implicitamente abrogati per il principio della normale successione degli accordi nel tempo a seguito del loro assorbimento nell'Acquis comunitario che ha integrato l'ingresso britannico nell'Unione Europea (l'Acquis comunitario, com'è noto, corrisponde alla piattaforma comune di diritti ed obblighi che vincolano l'insieme degli Stati membri nel contesto dell'Unione Europea). Ovviamente tutti i trattati vigenti possono essere rinegoziati secondo le norme generali del diritto internazionale; peraltro la ragione di una ritrattazione potrebbe essere il cambiamento della posizione del Regno Unito, che ora è diventato a seguito del referendum (che si ricorda ha carattere consultivo) un partner esterno dell'Unione Europea. Qualche sera fa nel corso di una trasmissione televisiva un noto giornalista ha detto una significativa inesattezza. Il giornalista ha manifestato preoccupazioni per il prossimo ritiro di operatori di polizia inglesi da Calais e di quelli francesi da Dover. Detti funzionari sono impegnati in una attività che può essere definita tecnicamente 'un controllo avanzato sulla frontiera franco britannica per il contrasto dell'immigrazione clandestina'. Questa modalità operativa è frutto di un'intesa bilaterale (l'Accordo di Le Touquet); infatti il Regno Unito, non avendo aderito alla Convenzione di Schengen, è fuori dalla cooperazione transfrontaliera prevista dal Trattato UE e quindi su questo parte di frontiera interna comunitaria non trovano applicazione i dispositivi di gestione integrata delle frontiere previsti dagli accordi di Schengen. Pertanto questa cooperazione bilaterale fra il Regno Unito e la Francia, nonostante la Brexit, resterà pienamente vigente in quanto prevista da una specifica convenzione fra i due Stati. Ovviamente, considerata la mutata posizione del Regno Unito rispetto alla Francia (ora non si tratta più di un accordo fra due Stati dell'Unione Europea, ma fra uno interno e uno esterno) potrebbe essere opportuno rinegoziare l'intesa, come ha suggerito il sindaco di Calais. RR 

Brevi riflessioni finali a margine dell'attentato di Orlando (22-6-2016) 
Questo commento fa seguito ai precedenti relativi alla strage di Orlando. La consumazione di questo atto terroristico si presta a tante possibili letture. Resta sullo sfondo la facilità con la quale chiunque, anche uno squilibrato, negli Stati Uniti possa entrare in possesso di armi e stroncare vite umane. Anche la professionalità dell'apparato di prevenzione è stata destinataria di critiche perché avrebbe dimostrato dei limiti nell'attività di intelligence: l'attentatore infatti era conosciuto agli operatori di polizia ai quali tuttavia sfuggirono le sue potenzialità criminali, che poi si sono concretizzate nel tragico eccidio. La matrice jihadista e quella omofoba sono state oggetto di facili e faziose strumentalizzazioni. È tipico dei nostri tempi che le manifestazioni di devianze, come le gesta di un balordo inconsapevole, possano essere enfatizzate e collocate all'interno di una strategia superiore, assumendo un'improbabile dignità seppur  negativa. Compito difficile della prevenzione è individuare gli elementi prognostici di una personalità potenzialmente omicida, per sottoporla a una sorveglianza o a provvedimenti preventivi necessari e consentiti. Accade spesso infatti che, nel ricostruire la pregressa esistenza di soggetti pluriomicidi, siano individuati elementi che, se presi in considerazione in precedenza, potevano costituire un  preavviso della successiva grave manifestazione violenta. Naturalmente i criteri prognostici di una personalità gravemente incline a delinquere devono essere altamente selettivi, in quanto l'intelligence di nessun Paese in momenti di grave emergenza  terroristica ha mezzi e uomini per adottare  misure di prevenzione nei riguardi di tutti i soggetti potenzialmente pericolosi per la pubblica incolumità. L'attività di vigilanza si concreta sempre in una delicata, difficile e complessa sfida, anche perché qualsiasi guerra si basa sull'inganno, come si legge nel celebre e sempre attuale libro del generale Sun Tzu[1].





[1] Si tratta del  noto breve trattato di strategia militare L'Arte della Guerra (VI-V secolo a.C.).


ISLAM E OMOSESSUALITA' (20-6-2016)
Poiché la strage di Orlando, in Florida, compiuta nella notte tra sabato 11/6 e domenica 12/6 è stata consumata all'interno di un locale per gay ed ha avuto frequentatori omosessuali come principali vittime, è stata ipotizzata a giustificazione del folle gesto anche la matrice omofoba. In proposito sono emersi pregressi rapporti ambigui e controversi fra l'autore dell'eccidio e alcuni membri della comunità omosessuale. A prescindere dagli esiti delle indagini degli inquirenti, considerata la possibile relazione fra la fede islamica dello squilibrato e un'eventuale matrice omofoba dell'atto criminale, il fatto suggerisce un approfondimento circa i rapporti fra Islam e  omosessualità. Com'è noto, la religione islamica censura l'omosessualità. In proposito, non è oggetto di particolare approfondimento il concetto di identità sessuale, in quanto si ritengono esistenti solo quella maschile e quella femminile. Sono invece presi in considerazione i comportamenti omosessuali (che coincidono con la sodomia) che sono condannati in quanto sono ritenuti deviazioni rispetto all'ordine naturale.  Come corollario di questa premessa, secondo l'Islam i fattori genetici e ormonali non sarebbero in grado di per sé di determinare lo sviluppo dell'omosessualità, ma sarebbero solo fattori predisponenti. Pertanto, il fedele avrebbe il dovere di contrastare questa tendenza. Questo concetto si può sintetizzare dicendo che l'Islam non prende in considerazione l'omosessualità (in quanto esisterebbe solo l'identità femminile e quella maschile), ma attribuisce significato ai comportamenti omosessuali, censurandoli in quanto sarebbero un modo attraverso il quale 'colpevolmente' vengono assecondate tendenze 'contro natura'. Conseguentemente, secondo la dottrina islamica un omosessuale può diventare musulmano purché abbandoni di praticare rapporti sessuali con persone dello stesso sesso: Allah non trascurerà la sua creatura, ma la aiuterà a contrastare il suo istinto. La proibizione dei rapporti omosessuali troverebbe fondamento in alcune sure del Corano.  Nonostante fra le diverse correnti interpretative della religione musulmana ci sia unanime consenso circa l'illiceità dei rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso, tuttavia ci sono differenze di opinione fra gli studiosi soprattutto per quanto riguarda le punizioni e le prove richieste prima che la pena fisica abbia luogo. I rapporti omosessuali sono generalmente puniti negli Stati musulmani: la minaccia delle sanzioni  sarebbe necessaria per preservare la virtù e la moralità islamica. I comportamenti omosessuali possono essere puniti con sanzioni fino alla pena di morte in alcuni Paesi, ovvero in Arabia Saudita, in Iran, in Nigeria, in Mauritania, in Pakistan, in Sudan, in Somalia e nello Yemen. Lo Stato che ha il più alto numero di esecuzioni capitali di omosessuali è l'Iran. La pena capitale era applicata anche in Afghanistan quando erano al potere i Talebani.  Nei menzionati  Paesi spesso sono applicate tuttavie  pene minori, come multe o ammende, carcere, frustate. In altri Paesi musulmani come il Bahrain, il  Qatar e l'Algeria, l'omosessualità è punita con il carcere, con pene pecuniarie, o corporali. In alcuni Stati a maggioranza musulmana, come la Turchia, la Giordania, l'Egitto, o il Mali, rapporti omosessuali non sono specificatamente proibiti dalla legge.  RR  

LA MATRICE DELLA STRAGE DI ORLANDO (18-6-2016) 
Com'è noto, nella notte tra sabato e domenica scorsi (11/12 giugno) a Orlando, in Florida, un uomo è entrato in un locale gay e ha ucciso 49 persone, ferendone altre 53. A quasi una settimana da questi tragici fatti si continua a discutere della matrice del folle gesto. Per quanto riguarda l'eventuale movente terroristico, sembra che l'autore di questo eccidio sia un cosiddetto lupo solitario; pertanto non può ritenersi attendibile la sua dichiarazione di appartenenza organica alla militanza jihadista. Tuttavia, l'esclusione di un diretto coinvolgimento dello Stato Islamico nell'eccidio di Orlando non può essere considerato un elemento tranquillizzante, in quanto prova che la propaganda fondamentalista - che privilegia come strumento la Rete - è sufficiente a suggestionare un balordo e ad attivarlo negativamente, al punto da indurlo a commettere gravissimi delitti. In altri termini, se in passato era fondato ritenere che un attentato terroristico potesse essere compiuto solo da membri di un'organizzazione eversiva, ora sappiamo invece che un grave crimine di ispirazione fondamentalista può essere il prodotto esclusivamente della fascinazione che subisce una mente debole. Pertanto, scartare che la strage di Orlando sia stata pianificata dallo Stato Islamico  - nonostante il responsabile abbia dichiarato in diretta telefonando al numero di emergenza della polizia 911 la sua 'fedeltà' e la sua affiliazione all'Isis - non ridimensiona il nostro allarme sociale, ma al contrario lo accresce. A questo quadro va aggiunto che il dark web, ovvero la parte sommersa della Rete, fornisce a questi squilibrati il necessario supporto operativo, dando indicazioni su come procurarsi o predisporre  armi ed esplosivi, e su come pianificare attentati. Simili considerazioni possono essere svolte per la tragica uccisione della deputata britannica Jo Cox: la propaganda dell'estremismo violento di stampo neonazista, mistificato dall'apparenza antieuropea, ha drammaticamente armato la mano di un folle, avvelenando tra l'altro il libero dibattito propedeutico al referendum per la permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea.  C'è quindi un nuovo preoccupante fenomeno che minaccia la società occidentale, ovvero la diffusione mediatica, principalmente in Rete, di incitamenti alla violenza, che provengono da frange che vanno dal fondamentalismo islamico al radicalismo politico, che sono in grado di plagiare individui psicolabili o che vivono ai margini della società.  Successivamente ai fatti di Orlando - come in altre occasioni  tristemente analoghe, come l'omicidio a Magnanville, alla periferia di Parigi, di una coppia di funzionari di polizia compiuto da un uomo al grido di Allahu Akbar - è giunta la puntuale rivendicazione dell'agenzia Amaq, che ha definito l'autore della strage un martire del jihad e un militante dello Stato Islamico.  Questa dichiarazione  non è al momento considerata attendibile dagli inquirenti; peraltro, lo Stato Islamico è solito appropriarsi di tutte le iniziative di pseudo militanti islamisti che decidano di proprio impulso di colpire obiettivi occidentali. Paradossalmente, sarebbe tranquillizzante attribuire veridicità a queste rivendicazioni, perché, se fosse vera l'appartenenza organica a Daesh di questi balordi, sarebbe indirettamente provato che essi sono elementi estranei alla nostra società, avvalorando la nostra illusione che essi siano appendici di un nemico  esterno.  Al contrario, purtroppo, questi individui sono il prodotto delle incertezze, delle contraddizioni e del malessere della nostra civiltà, ovvero di patologie che sono sempre più fisiologiche. Considerando le vittime del folle gesto di Orlando è stata anche prospettata la matrice omofoba. In proposito gli operatori dell'FBI stanno approfondendo i tratti della complessa personalità dell'attentatore e i suoi controversi pregressi rapporti con la comunità gay. Questo aspetto solleva un altro interessante aspetto, cioè quello relativo ai rapporti fra Islam e omosessualità, dal momento che spesso nei Paesi musulmani i rapporti omosessuali vengono sanzionatati, parificati all'adulterio e considerati contrari alla Sharia. Si tratta di una questione molto articolata che richiede uno specifico approfondimento a parte. RR  

ALTRO CAPITOLO DEL CASO 'REGENI' (12-6-2016) 
Il caso 'Regeni' si è arricchito in questi giorni di un ulteriore doloroso capitolo: l'Università inglese di Cambridge, presso la quale il ricercatore italiano svolgeva i suoi studi, ha manifestato  l'intenzione di non collaborare con gli inquirenti italiani e in particolare di non fornire indicazioni sulla  corrispondenza tra lo studioso ucciso al Cairo e  i docenti inglesi suoi referenti. Dal carteggio intercorso con l'ateneo inglese sarebbero potuti emergere elementi utili per comprendere i moventi dell'oscuro delitto. Giulio Regeni era in contatto con la professoressa Anne Alexander, che aveva a lungo studiato i sindacati egiziani e il movimento islamista dei Fratelli Musulmani, che, come noto, è attualmente fuori legge in Egitto. La Alexander è un'attivista particolarmente impegnata nella contestazione del Presidente Al Sisi. Dopo la tragica fine del ricercatore italiano la professoressa Alexander ha subito precisato di non conoscere i dettagli del lavoro che Giulio stava svolgendo all'estero, difendendo inoltre la professionalità dei 'supervisori' che dovevano seguire la sua ricerca e proteggerlo dalla sua giovanile ed esuberante curiosità intellettuale in un contesto come quello del Cairo, cioè in una città piena di insidie, nella quale è pericoloso anche parlare con i passanti dal momento che le strade sono piene di spie e di informatori. Non è difficile dare significato alla condotta dell'università di Canbridge. Probabilmente l'Ateneo inglese con il suo silenzio ha cercato di evitare che gli venissero attribuite responsabilità morali per la morte del ricercatore, ovvero che in concreto gli venisse imputata la colpa di non aver intuito e di aver sottovalutato i rischi a cui si stava esponendo lo studioso italiano con le sue iniziative accademiche. Il silenzio dell'università - che di fatto ha rifiutato la collaborazione ad un magistrato di un Paese amico - è in palese contraddizione con l'appello che venne inoltrato dall'Ateneo stesso al governo britannico all'indomani della drammatica morte di Regeni. Con quel documento si chiedeva che fossero svolte indagini accurate e indipendenti affinché si facesse piena luce sull'omicidio. Sarebbe particolarmente squallido se il  censurabile atteggiamento dell'università inglese fosse strumentale ad evitare di fornire elementi che potrebbero essere utilizzati per una richiesta di risarcimento da parte dei familiari di Regeni per averlo esposto a fatali pericoli; il altri termini la censurabile condotta potrebbe essere dettata dall'intento  di sottrarsi all'eventualità che la responsabilità da morale si trasformi in responsabilità giuridica. Se così fosse si tratterebbe di una decisione eticamente inaccettabile, perché equivarrebbe a rinunciare alla possibilità  che si faccia piena  luce su una tragica palese violazione di  diritti fondamentali, che riguarda un proprio collaboratore, per tutelare i propri beni patrimoniali dal rischio di un'aggressione radicata su una pronuncia giudiziaria sfavorevole. Ci si chiede, se quest'ultima ipotesi fosse fondata, con quale autorità morale potrebbe in futuro atteggiarsi un ateneo che compia una scelta di questo genere? RR 

CHILDREN OF PARADISE: THE STRUGGLE FOR THE SOUL OF IRAN DI LAURA SECOR (7-6-2016) 
A febbraio di quest'anno (2016) è uscito un saggio sull'Iran molto interessante per chi segue le vicende di quello Stato: Children of paradise: the struggle for the soul in Iran, della giornalista ricercatrice, esperta della realtà iraniana, Laura Secor. Il titolo, Children of Paradise, richiama alla memoria un noto film francese del 1945, Les enfant du Paradis (Children of Paradise, in inglese), tradotto malamente in italiano con Amanti Perduti, un titolo che ha trasformato una magnifico affresco sulla Parigi della prima metà dell'Ottocento in un romanzo d'amore.  Les Enfants du paradis, che letteralmente significa i ragazzi del paradiso, è un'espressione  gergale che significa quelli del loggione. Il loggione è la parte più alta del teatro e più lontana dal palcoscenico, dove  perciò sono ubicati i posti più economici; il pubblico del loggione quindi normalmente è di estrazione popolare. La seconda parte del titolo the struggle for the soul in Iran ha il chiaro significato di la lotta per l'anima dell'Iran. Il saggio descrive una Repubblica Islamica dell'Iran nella quale i cittadini comuni, quelli del loggione, sono molto attivi, lottano per un cambiamento, e, pur non rinunciando al carattere confessionale del loro orientamento spirituale che è una connotazione essenziale e irrinunciabile della comunità a cui appartengono, rivendicano un ruolo che li renda artefici del proprio destino e titolari di diritti di libertà e di una piena ed effettiva potestà di elettorato attivo. Nel saggio l'Iran pertanto non viene  descritto come una realtà statica e monolitica, ma come una nazione animata da fermenti ideologici e politici. Questi atteggiamenti fattivi e partecipativi differenziano i cittadini iraniani della repubblica sciita, capaci di esprimere dissenso e spinti alla contestazione da uno spirito critico e riformista, dai sudditi sunniti delle monarchie saudite e dei Paesi arabi in generale, che sono del tutto passivi.  In questo modo il regime teocratico al potere in Iran potrebbe collocarsi in futuro all'interno di una prospettiva moderatamente liberale pur mantenendo il suo carattere confessionale; la gestione del potere sembra infatti potersi atteggiare all'interno di una tradizione di tipo quasi illuministico. Naturalmente non ci può essere compatibilità piena della teocrazia con i valori dell'Illuminismo, che ha sostituito l'autorità divina con la sovranità popolare, i doveri religiosi con i diritti naturali. Nella sostanza nel saggio paradossalmente si ipotizza, con un'espressione che sembra un ossimoro, la possibilità di una via laica all'Islam. Peraltro quest'aspetto binario, ovvero questa duplice natura confessionale e laica dell'Iran, è una potenzialità già contenuta nei caratteri  della diarchia attualmente al potere, integrata da un vertice civile, il presidente Rouhani, e da un capo religioso, l'ayatollah Khamenei. La scelta confessionale dello Stato iraniano acquista piena legittimità in quanto in questa aggiornata prospettiva i valori fondamentali dell'Islam diventano garanti di diritti inalienabili, che si esprimono innanzitutto nella partecipazione popolare alla vita dello Stato. Naturalmente influiscono su questa interpretazione che enfatizza l'esistenza di un potere popolare reattivo e partecipe delle vicende dello Stato il sostrato di valori occidentali presenti nella cultura iraniana, frutto  dei trascorsi  storici anteriori alla Rivoluzione islamica, e che possono farsi risalire soprattutto ai periodi in cui regnava la famiglia Pahlavi, che, con tutte le patologie e le degenerazioni del caso, aveva introdotto canoni occidentali nella realtà persiana. Nel saggio la storia dell'Iran si intreccia con la narrazione delle relazioni dialettiche e conflittuali fra giornalisti, politici, personalità varie del dissenso da un lato e il regime al potere, dai tempi dello Scià a quelli della Rivoluzione del '79, dall'altro.  In questa prospettiva l'Iran contemporaneo, la prima teocrazia rivoluzionaria che ha le potenzialità di una democrazia confessionale,  appare più vicina all'Europa di quanto lo sia geograficamente. 


IL DEEP WEB E I FERMENTI NEL MONDO ARABO (29-5-2016) 
Quando si dice che, nel corso delle turbative collegate alla Primavera araba, per comunicare ci si è serviti di Internet, si afferma una cosa parzialmente inesatta. Infatti, allora si fece ampio ricorso al Deep Web - che consente una navigazione anonima - che è cosa diversa dall'Internet ordinario. In proposito, è abbastanza diffuso l'erroneo convincimento che attraverso i motori di ricerca, come Google o Yahoo, siano potenzialmente accessibili tutte le risorse della Rete. Non è così. Il cosiddetto clear Internet, cioè quella parte del Web raggiungibile con le normali interrogazioni, riguarda solo il 2/4% della Rete; tecnicamente si esprime questo concetto dicendo che solo questa scarsa percentuale della Rete è costituita da siti indicizzati, cioè inseriti nei database dei motori di ricerca attraverso degli indici di riferimento. Il restante 96/98% costituisce il cosiddetto Deep Web, cioè un Internet sommerso, navigabile in forma anonima o con falsa identità, non raggiungibile attraverso i normali motori di ricerca, esplorabile solo mediante specifiche procedure tecniche non particolarmente complesse e alla portata di qualsiasi cybernauta con un minimo di esperienza. Questa parte del Web è un pericoloso territorio completamente libero da regole; l'anonimato consente infatti di intraprendere qualsiasi iniziativa senza che le norme giuridiche, ovvero la minaccia di una sanzione, possa avere una funzione preventiva e di deterrenza da comportamenti illeciti. Cosi, nell'ambito del Deep Web si trova di tutto. Pagando con bitcoin, una moneta virtuale che non necessita l'intermediazione di Istituti di credito, è possibile acquistare, armi, droga, materiale pornografico, o imbattersi in siti di sette sataniche, o subire la vista di immagini e di video raccapriccianti. Questi sono gli aspetti negativi della libertà che degenera in licenza. Da un punto di vista positivo l'anonimato della navigazione ha consentito ai giovani arabi di postare informazioni su quanto stava avvenendo nei loro Paesi non correndo il rischio di essere identificati; in questo modo in occidente è stato possibile conoscere il reale svolgimento degli eventi. Inoltre i manifestanti hanno potuto comunicare reciprocamente e coordinarsi. Per questo motivo il Deep Web può essere una preziosa fonte di informazioni, anche riservate. Ovviamente nel Deep Web è massiccia la presenza delle Forze dell'Ordine e di agenzie di intelligence, comprese FBI e CIA, che monitorano quanto avviene, e che, mediante tracce sfuggite alla navigazione anonima, riescono a compiere in qualche occasione brillanti operazioni di Polizia identificando i responsabili di fatti criminosi. Di per sé non è vietato navigare nel Deep Web; solo eventuali specifici comportamenti possono integrare reati. Tuttavia anche la sola esplorazione di questa porzione di Internet non è consigliabile. Come si può facilmente immaginare questa parte del Web è frequentata soprattutto da individui pericolosi: conseguentemente la navigazione può esporre a rischi, ed è necessaria molta prudenza ed alcune accortezze per minimizzare il rischio di esporre il proprio pc a virus o a malware, o per evitare di subire il furto di dati sensibili. Il problema dell'anonimato nei nuovi mezzi di comunicazione è molto attuale. Sicuramente la difficoltà ad identificare i responsabili di condotte illecite costituisce per le forze di polizia un intralcio e uno strumento che può favorire l'impunità. Tuttavia, come le vicende della Primavera araba hanno dimostrato, l'anonimato può essere un importante mezzo per superare le limitazioni imposte alla libertà di comunicazione da regimi totalitari e liberticidi. 

LA VICENDA RELATIVA ALLA NOMINA DI FIAMMA NIRENSTEIN COME NUOVO AMBASCIATORE DI ISRAELE A ROMA (13-5-2016)  
La vicenda relativa alla nomina di Fiamma Nirenstein a nuova ambasciatrice di Israele a Roma, e alla sua successiva rinuncia dopo più di cinque mesi dall'indicazione da parte dello stesso Netanyahu, provano che le opzioni politiche di Israele stanno attraversando un momento nel quale si confrontano posizioni discordanti. Fiamma Nirenstein è una nota giornalista, pubblicista e scrittrice di origine ebraica con cittadinanza italiana, ora israeliana, molto attiva anche come blogger. Fiamma Nirenstein, eletta come candidata nelle liste del Popolo delle Libertà, è stata parlamentare dal 2008 al 2013, ricoprendo importanti incarichi nel corso della legislatura. Nel 2013 Fiamma Nirenstein si è trasferita in Israele; nell'agosto dello scorso anno (2015) è stata designata ambasciatrice di Israele a Roma direttamente dal primo ministro Benjamin Netanyahu, del quale la giornalista israeliana ha in più occasioni manifestato di condividerne pienamente le linee politiche. Da più parti sono state manifestate perplessità nei confronti di questa designazione. Il popolare quotidiano indipendente di Tel Aviv, Haaretz, vicino alla sinistra israeliana e spesso critico nei confronti del governo, ha apertamente assunto una posizione contraria alla nomina. L'autorevole giornale ha rivelato che il presidente del consiglio italiano Renzi, riservatamente e attraverso canali informali, avrebbe espresso riserve su questa decisione del governo israeliano, invitandolo ad un ripensamento. L'inopportunità della designazione scaturirebbe da un potenziale conflitto di interessi in cui potrebbe trovarsi la neo diplomatica in relazione ai pregressi trascorsi istituzionali e politici in Italia. Le riserve del governo italiano sono state smentite da fonti di Palazzo Chigi. Probabilmente anche l'orientamento politico della neo designata ha inciso sulle posizioni contrarie al mandato. Si è anche precisato che il figlio della ex parlamentare presta servizio nell'intelligence italiana, e anche questo elemento, considerato il carattere delicato dell'incarico investigativo, non verrebbe visto con favore in quanto esigenze di prudenza e riservatezza prescrivono in linea di massima l'inopportunità di legami significativi del personale dei servizi di sicurezza con dipendenti e funzionari diplomatici di altri Paesi. La testata giornalistica israeliana ha anche ricordato che Fiamma Nirenstein alcuni anni fa avrebbe espresso valutazioni negative su Sarah Netanyahu, la moglie del Premier. La circostanza non sembra aver tuttavia influito sui rapporti fra il leader israeliano e la sig.ra Nirenstein. Anche esponenti della comunità ebraica italiana, conferendo particolare rilievo al possibile potenziale conflitto di interessi di cui si è detto in precedenza, relativo ai trascorsi istituzionali italiani, hanno evidenziato che queste passate esperienze potrebbero incidere sulla lealtà del neo diplomatico nello svolgimento del delicato incarico. In proposito, Fiamma Nirenstein, per evitare questa confusione di ruoli, dopo la nomina ad ambasciatore ha prontamente rinunciato alla cittadinanza italiana. In ogni caso qualche giorno fa, ponendo termine alle polemiche, Fiamma Nirenstein ha annunciato di voler rifiutare la designazione, pur ribadendo il suo impegno a concorrere nel miglior modo possibile al bene dello Stato di Israele. Anche la nomina, sempre da parte di Netanyahu, del nuovo ambasciatore in Brasile, Dani Dayan, l'ex leader del movimento dei coloni, al momento sta incontrando difficoltà, in quanto non è stato ancora espresso il richiesto gradimento del governo brasiliano. Queste vicende sembrano il riflesso di un momento di non particolare popolarità di Netanyahu. Per quanto riguarda la politica interna l'ultima sua elezione, da quanto emerse dai sondaggi che hanno preceduto le consultazioni, sembra essere stata motivata più dalla paura di cambiamenti nel contesto di una congiuntura così delicata, che da una reale convinzione degli elettori. Nella società israeliana sono sempre più numerosi i segnali che auspicano una composizione della questione palestinese, presupposto per un futuro di pace. Sembra esserci pertanto una frattura fra la gente comune, stanca delle rigidità e delle posizioni preconcette governative che costringono ad una vita in trincea e sotto assedio, e l'attuale leadership politica. Anche a livello internazionale probabilmente i tempi sono maturi per dei cambiamenti strategici che consentano a Israele di uscire da una condizione che di fatto lo allontana da numerosi partner. In proposito, Israele potrebbe sfruttare sia i dissidi all'interno del mondo sunnita che stanno indebolendo i suoi tradizionali rivali arabi, sia l'attuale congiuntura internazionale caratterizzata dalla contrapposizione dei Paesi occidentali al fronte islamico fondamentalista, per ritagliarsi un ruolo politico più attivo nell'ambito della comunità internazionale. Il premier Netanyahu continua a mantenere una ferma chiusura nei confronti dell'Iran, che  sembrarebbe preconcetta, e non tiene presente che un avvicinamento alla Repubblica Islamica destabilizzerebbe i consolidati equilibri mediorientali, che creano una cortina di isolamento intorno ad Israele. Al riguardo, l'Iran - nonostante un ufficiale atteggiamento anti israeliano che sembra dettato soprattutto dalla necessità di rassicurare la base popolare circa la fedeltà agli ideali della rivoluzione - ha cessato di finanziare il movimento terroristico Hamas, principale nemico di Israele, ora probabilmente supportato dalle monarchie saudite. Questa nuova politica della Repubblica Islamica è un aspetto da non trascurare. Al contrario l'attuale leadership israeliana non sembra aver colto o dato importanza a questi segnali di cambiamento che potrebbero suggerire di intraprendere, con un pò di coraggio, nuove linee strategiche. Tuttavia si deve tener presente che sulla prudenza della politica estera israeliana, fedele ai rigidi consolidati stereotipi, forse influisce anche l'ambiguità dell'attuale politica estera americana, che non rassicura come in passato, l'alleato israeliano. RR

SADIQ KHAN, NEOSINDACO DI LONDRA (10-5-2016) 
Si discute molte in questi giorni dell'elezione del laburista  Sadiq Khan come sindaco di Londra. I media, con opposte valutazioni, si sono soffermati sulle sue origini pakistane e soprattutto sulla sua dichiarata confessione religiosa di islamico praticante. Indubbiamente, anche se questo non deve essere di per sé fonte di pregiudizi, non si può negare che un sindaco musulmano in una capitale europea susciti curiosità ed esuli dalla normalità; diversamente il quotidiano britannico The Guardian, forse per eccesso di laicità, nel dare la notizia, ha messo in secondo piano la fede islamica.  In effetti, in un momento come questo  in cui vi è un aperto scontro fra occidente e fondamentalismo musulmano, che si concreta in tanti fatti inquietanti, come gli eventi bellici negli scenari mediorientali e in Libia, o la recrudescenza del terrorismo di matrice islamica, o i farneticanti proclami dello Stato Islamico circa una prossima conquista delle capitali europee, e in ultimo, nella nota, controversa e provocatoria profezia contenuta nel famoso libro 'Sottomissione' di  Michel Houellebecq circa una progressiva e silente islamizzazione dell'Occidente, l'opzione dei londinesi può evocare prospettive suggestive. Tuttavia, esaminando i fatti con meno emotività, l'elezione di un islamico pachistano a sindaco di Londra - e in particolare di Sadiq Khan, - sembra nella sostanza un fatto abbastanza   prevedibile. Innanzitutto, il Regno Unito è l'unico Paese europeo, o uno dei pochi, nel quale, a differenza degli esempi negativi di Francia e Belgio, le politiche di integrazione di comunità di etnia extraeuropea hanno avuto successo. Probabilmente, grazie alla creazione del Commonwealth come area geopolitica comune di Stati ex appartenenti all'impero britannico, che ha consentito ai Paesi che ne fanno parte di mantenere collegamenti politici e culturali e di interagire in maniera privilegiata con il Regno Unito, si è realizzato nel tempo il progressivo inserimento di elementi provenienti da regioni esotiche in maniera fisiologica e normale nel tessuto sociale inglese.  Fin dai mie primi brevi soggiorni da ragazzo a Londra, o in altre città inglesi, ricordo che era molto frequente imbattermi nei rapporti quotidiani, negli uffici, nei pubblici servizi in persone di origine extraeuropea. Forse fra i tanti controllori provenienti dal subcontinente indiano che prestavano servizio sui bus inglesi, i famosi double-decker rossi, avrò incontrato un antenato del sig. Khan. In quei tempi in Europa non si vedevano facilmente asiatici o africani, o, se si incontravano, avevano completamente abbandonato - se non rinnegato - la cultura di provenienza, mimetizzandosi fra gli europei. Dal punto di vista dell'integrazione l'Inghilterra sembrava un'isola felice, anche se successivamente, a causa di discriminazioni sociali, in quartieri periferici di Londra o in altre città ci sono state  tensioni che hanno coinvolto comunità extraeuropee e che sono sfociate in gravi scontri con le forze di polizia. Queste turbative, considerata la complessità dei sistemi e dei grandi aggregati urbani e i momenti di grave crisi economica che stiamo vivendo in questi anni, possono tuttavia essere considerate 'fisiologiche'. Tornando all'elezione di Sadiq Khan, va tenuto presente che la comunità musulmana a Londra è   tra le più numerose in Europa (corrisponde al 40% degli islamici che vivono in Inghilterra e nel Galles). Mezzo milione dei musulmani inglesi sono di origine pakistana ed il 40% di loro risiede nella capitale inglese, dove pertanto anche la comunità pakistana è una presenza molto significativa. Quindi da questo punto di vista l'affermazione del sig. Khan non può essere considerata una sorpresa. Tuttavia  il neosindaco in passato ha vissuto momenti di tensione con i suoi correligionari estremisti: per le sue posizioni a favore dei matrimoni omosessuali ha ricevuto una fatwa e minacce di morte. Per il neo sindaco il radicalismo e le manifestazioni fondamentaliste in Gran Bretagna sono la conseguenza della disoccupazione, dei servizi inefficienti, delle ingiustizie sociali, della mancanza di volontà di formulare soluzioni a queste carenze;  in passato ha dichiarato che "per troppo tempo i governi che si sono succeduti in Gran Bretagna hanno tollerato la segregazione" (da "l'Occidentale" del 7 maggio us). Anche se un po' generiche, poco chiare, e caratterizzate da una demagogia poco rassicurante, queste affermazioni presuppongono la volontà di un intervenire per rimuovere le affermate discriminazioni, e sono in linea con la l'ottica socialdemocratica laburista. In proposito, i laburisti, nonostante il predecessore di Khan fosse stato eletto nelle fila dei  conservatori, sono a Londra molto strutturati e solidi.  Nel corso della campagna elettorale, quando secondo i sondaggi i consensi nei  confronti di Khan erano in  sensibile ascesa, ambienti conservatori lo hanno apertamente accusato di essere legato all'estremismo islamico per aver avuto incontri con personaggi legati al radicalismo inglese, come l’imam Suliman Gani, presunto simpatizzante dell'Isis. Questa accusa si  è poi rivelata un boomerang, e forse ha inciso sulla sconfitta del suo antagonista conservatore, il sig. Zac Goldsmith, che peraltro non era una personalità di particolare spessore politico. Agli elementi di cui si è detto va aggiunto il brillante curriculum politico e professionale del candidato pakistano, che è  un noto avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani, nella tutela delle garanzie dei cittadini, in diritto del lavoro. Come esponente politico ha avuto un incarico ministeriale nel governo di Gordon Brown e, dopo le sue  dimissioni come capo del Partito Laburista,  ha gestito la campagna elettorale di Ed Miliband. Pertanto il sig. Khan ha potuto contare per la sua elezione su un'ampia base elettorale a carattere trasversale. Sicuramente si tratta di un politico scaltro, che dovrà essere giudicato in base a come svolgerà questo importante mandato. Sarà interessante constatare se la sua fede musulmana influirà sul suo operato, considerato il tradizionale carattere spiccatamente laico dell'ambiente londinese. RR 


CURIOSITA' (8-5-2016) 
1.L'espressione 'Allah Akbar' costituisce una delle principali frasi comunemente usate dai musulmani, con la quale si apre il richiamo alla preghiera e che viene, purtroppo, a volte utilizzata anche da chi con la vera fede ha poco a che fare e si macchia di crimini contro l’umanità. Innanzitutto è più corretto dire 'Allah-u akbar' anzichè 'Allah akbar', in quanto i nomi arabi si declinano e 'Allah-u' è la forma nominativa di 'Allah'. 'Akbar' significa grande. Tuttavia la traduzione italiana della frase come 'Dio è grande' non è corretta da un punto di vista grammaticale; sarebbe più corretto tradurre la frase 'Dio è il più grande'. L’errore su cui si cade sta nel grado dell’aggettivo 'akbar', che non è positivo ma comparativo; se fosse positivo dovrebbe dirsi 'Allah kabir'. L'aggettivo al comparativo in arabo non è preceduto dall'articolo ma si ottiene cambiando la forma base dell’aggettivo al grado positivo (nel caso specifico da 'kabir' ad 'akbar'). Quindi la traduzione letterale di Allah akbar non è Dio è grande, bensì Dio è il più grande.   
2. Ho notato che il nuovo sindaco di Londra, di origine pakistana e islamico, si è presentato ai suoi elettori e ha tenuto il suo primo discorso in un abbigliamento 'casual' e soprattutto senza cravatta; questo mi è sembrato in contrasto con lo stile dell'abbigliamento maschile degli inglesi, molto formale e stereotipato nelle occasioni ufficiali, nelle quali è prescritto  generalmente l'uso della cravatta. Poi mi sono ricordato, ma non so se questo sia il caso del sig. Sadikh Khan, che l'Islam non considera con favore l'uso della cravatta (in Iran è decisamente sconsigliata), in quanto il nodo richiamerebbe la croce cristiana ed inoltre la cravatta simboleggerebbe la corruzione del mondo occidentale. Comunque è più probabile che l'abbigliamento informale di Sadiq Khan sia scaturito da esigenze più casuali, o che in ogni caso non abbiano a che fare con la sua professione religiosa, considerato che il neo sindaco sembra animato da uno spirito laico e interreligioso, e che viene da una comunità, quella pakistana, molto integrata nel Regno Unito. In proposito, per chi non lo ha visto, con l'occasione consiglierei di vedere il film, di Damien O'Donnel 'East is East', un film sulle realtà multietniche nelle periferie britanniche con riferimento alla comunità pakistana. Molto piacevole e interessante. RR 

LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 4. LO YEMEN. (4-5-2016) 
Nel 2011, dopo le proteste in Egitto e Tunisia, anche nello Yemen la popolazione a causa della grave crisi economica e della corruzione del regime scese nelle piazze della capitale Sanaa per spingere a dimettersi il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da oltre 30 anni, che attraverso modifiche della Costituzione stava cercando di trasformare il suo mandato in un incarico a vita. Saleh dichiarò che avrebbe rinunciato sia alla rielezione o sia ad abdicare in favore del figlio. Nonostante l'apparente disponibilità al dialogo, iniziò una dura e sanguinosa repressione, che provocò dissensi ed una spaccatura anche all'interno delle forze armate, che in parte solidarizzarono con i manifestanti. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l'organizzazione internazionale regionale  a cui aderiscono sei Stati del Golfo Persico, ovvero il Bahrain, il Kuwait, l'Oman, il Qatar, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, cercò di favorire una composizione della crisi attraverso un processo di transizione verso soluzioni di compromesso.  Nel giugno 2011 Saleh rimase gravemente ferito in un attentato. I nuovi scontri lo costrinsero nel febbraio del 2012 a passare la guida del Paese al suo vice Abdrabuh Mansour Hadi, che formò un governo di unità nazionale. Nel frattempo si sviluppava e si sovrappose alla crisi in atto anche un conflitto secessionista animato dagli Houthi, un gruppo armato sciita zaydita (lo zaydismo è una variante della confessione sciita) che agiva con l'appoggio politico e materiale dell'Iran, che sosteneva questi ribelli non solo per motivi religiosi (cioè la comune professione sciita) ma soprattutto al fine di conseguire, attraverso l'influenza in un'area dello Yemen, una posizione privilegiata che gli consentisse di gestire più direttamente i propri interessi nel continente africano. Contro gli Houthi, e soprattutto contro l'antagonista iraniano, si mobilitarono le monarchie del Golfo ed altri Paesi sunniti (segnatamente l'Egitto, gli Emirati, il Qatar), guidati dall'Arabia Saudita.  Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) approfittò del caos per gestire la propria influenza nella zona. Così, la rivolta degli Houthi superò subito il suo iniziale carattere limitatamente locale. All'inizio del 2015 i gravi disordini costrinsero  il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi a dimissioni, respinte dal Parlamento, e successivamente smentite, che furono solo formali, in quanto  il suo governo dimissionario continuò la resistenza contro i ribelli ed continuò ad essere considerato a livello internazionale la legittima autorità al potere. Nelle stesso tempo la coalizione degli Stati sunniti guidata dall'Arabia Saudita nel marzo 2015 intraprese un massiccio attacco contro gli Houthi e contro obiettivi civili sia mediante incursioni aeree e bombardamenti sia attraverso truppe di terra. Permane una situazione caratterizzata da crimini di guerra commessi da entrambe le fazioni in lotta, i ribelli sciiti (sostenuti dall’Iran e dagli uomini dell’ex presidente Saleh) e il dimissionario resistente governo del presidente Hadi (appoggiato da una coalizione sunnita a guida saudita, dagli indipendentisti del sud e da varie tribù). Frange dello Stato Islamico attaccano moschee sciite causando la morte di molte vittime civili.  Anche in questo Paese la Primavera araba non è approdata ad una democratizzazione delle istituzioni governative. RR 

LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 3. IL BAHRAIN (1-5-2016)
Dopo la Tunisia e l'Egitto di cui si è detto in due precedenti commenti (quelli del 27-4-2016 e del 11-4-2016), il Bahrain è stato un altro Paese arabo interessato dai moti della Primavera araba. Il Bahrain è un arcipelago del Golfo Persico costituito da cinque isole principali e altre più piccole. La sua principale ricchezza è lo sfruttamento di  ingenti giacimenti di petrolio, con il quale  è stata finanziata l'industrializzazione del Paese, recentemente potenziata anche per compensare il futuro probabile esaurimento delle risorse petrolifere. Il Paese ha una particolare importanza strategica per la coalizione occidentale, in quanto una sua isola ospita una base statunitense nella quale è di stanza la quinta flotta americana. Gli Usa conseguentemente seguono con molto interesse gli eventi politici del Bahrain, che considerano un importante alleato 'non Nato' . La base in questione é stata di fondamentale importanza nelle vicende belliche in Afghanistan e  in Iraq. Da lì inoltre è possibile  'seguire' i traffici che transitano per lo stretto di Hormuz, compreso il commercio illecito di armi, ed esercitare con questa presenza una pressione psicologica sull'Iran. L'aspetto problematico del Paese alla base delle tensioni e dei moti che si sono manifestati con rinnovata intensità dopo le rivolte arabe in Tunisia e in Egitto, è la contrapposizione fra sciiti e sunniti. In questa piccola monarchia gli sciiti sono la netta maggioranza, ovvero circa il 70% della popolazione, ma hanno pochissimo potere e sono discriminati socialmente, in quanto governati da una monarchia sunnita, espressione pertanto di una minoranza. L'Iran sciita e l'Arabia Saudita sunnita si fronteggiano indirettamente nel Paese attraverso le divisioni fra le due confessioni religiose: è probabile che l’Iran e gli Hezbollah libanesi sobillino gli sciiti del Bahrain che aspirano all'uguaglianza sociale e politica, spingendoli alla resistenza al fine di imporre la transizione verso una monarchia di tipo costituzionale che attribuisca il giusto potere alla maggioranza; nello stesso tempo il regime saudita sostiene la monarchia al potere. Probabilmente il regime di Teheran solo apparentemente auspica la fine delle divisioni fra sciiti e sunniti, in quanto le tensioni fra le due confessioni religiose sono un elemento di grave instabilità che può influenzare le vicende interne di altri Paesi del Golfo indebolendo di fatto la coalizione sunnita.  Si applica il solito  e collaudato principio di politica estera (e non solo..): 'divìde et impera'. Dopo la rivoluzione iraniana si è sospettato un tentativo dell'Iran, fallito nonostante l'appoggio del Fronte Islamico per la Liberazione del Bahrain, di 'esportare' la rivoluzione islamica in quel Paese per rovesciare la monarchia al potere. Peraltro le autorità iraniane hanno in alcune occasioni affermato di considerare il Bahrain una propria provincia, sia da un punto di vista geografico che demografico, pur precisando di rispettarne la sovranità: queste affermazioni sicuramente incidono e alimentano le conflittualità nell'arcipelago. Il regime degli Al Khalifa, con la complicità della comunità internazionale - che, per non turbare la suscettibilità saudita, non ha mai sollevato problemi sulle dure modalità della repressione, sull'inesistente rispetto dei diritti dell'opposizione, sulle ripetute  violazioni delle libertà di espressione, di religione, di stampa, e sull'elevato numero di prigionieri politici in Bahrain -  è riuscito a contenere le manifestazioni del 2011 e tuttora mantiene il controllo del Paese nonostante le latenti tensioni. La Primavera araba quindi qui non ha prodotto cambiamenti, ma ha incoraggiato l'opposizione a manifestare per i propri diritti, introducendo elementi di instabilità, che si ripercuotono sui fragili equilibri dell'area mediorientale. Da quanto detto emerge che i moti in questo Paese, pur avendo tratto un forte stimolo dai fermenti libertari in altri Paesi arabi, hanno avuto proprie specifiche connotazioni e motivazioni che non si sono ancora esaurite. RR   

LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA. 2. LA TUNISIA (27-4-2016) 
Com'è noto la Primavera araba ebbe inizio in Tunisia con la cosiddetta ‘Rivoluzione del gelsomino’, ovvero con i disordini che seguirono al suicidio di un universitario disoccupato, Mohammed Bouazizi, costretto per sopravvivere a fare il venditore ambulante. Il giovane si diede fuoco in segno di protesta per le condizioni economiche del Paese davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid dopo aver subìto umiliazioni dalla polizia a seguito di un alterco. I tumulti motivati soprattutto dalla disoccupazione, dall'elevato costo dei beni primari, dalla corruzione, dalla disoccupazione e dalle cattive condizioni di vita si estesero a tutto il Paese nonostante la polizia cercasse di soffocare i moti locali con la solita repressione violenta che in pregressi casi era stata sufficiente a ristabilire l’ordine con successo. Le manifestazioni di piazza a gennaio del 2011 costrinsero il Presidente Ben Alì a porre termine anticipatamente al suo mandato con una repentina fuga a Gedda in Arabia Saudita. Questo evento acquisì subito un grande significato: per la prima volta nella storia recente un popolo arabo riusciva a sbarazzarsi di un dittatore. Nell’ottobre del 2011 si svolsero le elezioni per la formazione della prima assemblea costituente; le consultazioni decretarono il successo del movimento islamico Ennahda (il Movimento della Rinascita) che, nonostante le sue pregresse posizioni radicali fondamentaliste, affermava di ispirarsi a un modello di Stato laico di tipo turco. Ennahda nel marzo del 2011 si costituì in partito politico: in questa nuova veste auspicava, rinunciando all'inserimento della Sharia nella Costituzione, l’avvento di una via tunisina all’Islamismo che avrebbe dovuto riconoscere la legittimità di un sistema pluripartitico e ripudiare l’uso di qualsiasi forma di violenza. Le consultazioni elettorali, alle quali si registrò un'affluenza alle urne superiore al 90%, sancirono la vittoria di Ennahda, che ottenne oltre il 40% delle preferenze. L'Assemblea nazionale costituente approvò una Costituzione provvisoria che consentì la designazione di un nuovo governo che resse il Paese fino alle successive elezioni generali e alla promulgazione della Costituzione definitiva. Dopo incerte vicende che tuttavia sancirono il definitivo passaggio del Paese alla democrazia, nel 2014 si svolsero le previste elezioni, che inaspettatamente registrarono l'affermazione del partito laico di ispirazione liberale Nidaa Tounes. Gli islamisti moderati di Ennahda risultarono la seconda forza politica, mentre terza forza fu l'Unione Patriottica Libera, un partito sostenitore del libero mercato e di valori modernisti. Al momento il Paese è retto da un governo di unità nazionale, una condizione difficilmente esperibile nel mondo arabo. Sicuramente la Tunisia è l'unico Paese che a seguito della Primavera araba ha cambiato la sua leadership con elezioni libere. Con la Primavera araba si ripristinò la libertà dei mezzi di comunicazione; i giornali si moltiplicarono e anche il Web tornò ad essere uno strumento di diffusione di opinioni senza restrizioni, a differenza di quello che avvenne durante il regime di Ben Alì. Inoltre fu messa al bando qualsiasi forma di tortura. Tuttavia il Paese ha pagato la recente rifondazione con una fragilità istituzionale e una vulnerabilità che si sono concretizzate nell'esplosione della contestazione sociale a causa della grave crisi economica e in cruenti attacchi terroristici come quello al museo del Bardo e al resort di Sousse rispettivamente nel marzo e nel giugno del 2015. La mancanza di sicurezza ha inoltre determinato una drastica contrazione del turisti e degli investitori stranieri, con gravi ripercussioni negative nell'economia nazionale. In apparente contraddizione con il processo di democratizzazione la Tunisia è il Paese nel quale maggiormente si formano i più radicali jihadisti. Dalla Tunisia sono partiti per la Siria e l'Iraq più di 3000 individui per combattere nelle file dell'Isis; si stima che circa 500 di questi individui, indottrinati da un'ideologia carica di odio e violenza, siano rientrati nel Paese, pronti a compiere azioni terroristiche in Tunisia o all'estero. Secondo alcuni analisti, i jihadisti tunisini costituiscono la fetta più importante tra i combattenti stranieri che si sono affiliati all'Isis sia in Siria che in Libia. In proposito, dalla piccola città di Remada (5000 abitanti) nel sud est tunisino, a soli 50 chilometri dal confine con la Libia, nei mesi scorsi in pochi giorni sono partiti 90 giovani in direzione dei campi di addestramento libici dello Stato Islamico, nonostante le autorità avessero chiuso i confini rafforzandoli con la costruzione di un fossato e di un muro di sabbia. In Tunisia l'Islam radicale ha trovato un fertile terreno soprattutto nelle periferie delle città dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli molto elevati. Questa situazione può causare un'involuzione, ovvero il rischio che le autorità usino la lotta al terrorismo e ai disordini per ripristinare forme di controllo sull'esercizio dei fondamentali diritti di libertà. Ad esempio, nel mese di luglio del 2015 il governo ha approvato misure di lotta all'eversione che consentono l'arresto di persone senza specifiche accuse e prevedono una forte limitazione delle garanzie a difesa dell'accusato. La Tunisia, nonostante le difficoltà economiche e istituzionali, resta tuttavia per il mondo arabo un modello da seguire, un'eccezione da difendere. In proposito, l'attuale presidente tunisino Essebsi ha dichiarato che "la Tunisia racchiude più identità, laiche e religiose, abituate a convivere nel rispetto reciproco....". Per il Presidente Essebsi inoltre "l'islamismo non è un movimento religioso bensì politico il cui unico intento è la conquista del potere. Si tratta di persone violente, di terroristi che non hanno nulla che vedere con i musulmani perché l'Islam è per il rispetto di tutti, nei testi fondamentali dell'Islam non c'è nulla di quanto i terroristi predicano all'unico fine di imporre il loro potere sugli altri". RR   

LA SITUAZIONE A CINQUE ANNI DALLA PRIMAVERA ARABA.    1.      CONSIDERAZIONI GENERALI (26-4-2016)
Sono passati cinque anni dai moti di rivolta della Primavera araba, iniziati in Tunisia e in Egitto rispettivamente alla fine del 2010 e nei primi mesi del 2011, nel corso dei  quali il diffuso malessere per delle società cristallizzate su posizioni antidemocratiche e caratterizzate da inaccettabili diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza aveva spinto migliaia di persone nelle piazze di alcune capitali arabe per richiedere la sostituzione dei regimi autoritari al potere con democrazie laiche. Prima di esaminare la situazione attuale a cinque anni da quegli eventi che animarono forti e diffuse aspettative di giustizia e di libertà, è utile premettere alcune considerazioni generali. La Primavera araba principalmente riguardò sei Stati: la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen, il Bahrain, la Siria e la Libia. Anche in Marocco ci furono dimostrazioni, ma ebbero un carattere prevalentemente pacifico e portarono a cambiamenti costituzionali che introdussero forme di legittimità democratica. Nel corso della Primavera araba  svolsero un ruolo importante i mass media, soprattutto la Rete. Tuttavia, mentre i giornali e le televisioni si mantennero espressione di poteri governativi, solo Internet sfuggì a ogni controllo: il Web fu  l'unico strumento per la diffusione mediatica delle idee di cambiamento e la concreta organizzazione delle manifestazioni, il solo mezzo per assicurare all’interno e all’esterno dei rispettivi confini nazionali un’adeguata libertà di informazione. Il fondamentalismo religioso invece inizialmente non ebbe uno specifico ruolo; al contrario, in alcuni casi assunse una funzione di contenimento e di controllo delle istanze di rinnovamento, guidando morbidamente i sistemi politici verso una restaurazione delle condizioni politiche preesistenti, verso una neoislamizzazione che contribuì ad affermare regimi non particolarmente diversi da quelli precedenti. In questi moti mancarono anche quelle manifestazioni anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) emerse in precedenti rivoluzioni islamiche - come quella iraniana del 1979 - che avevano accreditato l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere in ogni occasione contrapposto all’Occidente. I manifestanti non potevano avere come modello su cui rifondare il nuovo Stato le democrazie occidentali, considerate corrotte e lontane da valori spirituali e religiosi. Le nuove istituzioni potevano ispirarsi solo ad una piena applicazione dei valori dell’Islam, gli unici che, ripristinati nella loro purezza, venivano considerati in grado di assicurare uno Stato perfetto, oltre che giusto. Pertanto la Primavera Araba, pur essendosi originata da movimenti laici, approdò - con l'unica eccezione della Tunisia - ad esiti integralisti, trasformandosi di fatto in una primavera islamica. Nella rifondazione di un nuovo Stato sono prioritari la formazione di un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni. Tuttavia nei Paesi arabi nei quali si svolsero le consultazioni elettorali la democratizzazione rimase intrappolata in un circolo vizioso. Le elezioni infatti non sono il momento iniziale di una democrazia ma il suo punto di arrivo, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico e una ben formata coscienza civica. La Primavera Araba contribuì - purtroppo solo momentaneamente - a ridimensionare il ruolo del  terrorismo nel determinare le vicende locali e nazionali dei singoli Stati. In passato i cambiamenti di regime o le rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di gruppi eversivi in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Paesi; questo aveva consolidato nei popoli arabi la consapevolezza che essi potessero solo tollerare i propri governi, mentre soltanto l’attività terroristica poteva offrire prospettive concrete di cambiamento. La Primavera Araba, alimentando inizialmente forti aspettative, sembrò togliere al terrorismo il monopolio esclusivo nel sovvertire i regimi al potere. Purtroppo gli esiti deludenti della Primavera araba uniti alla nascita dello Stato Islamico e alla trasformazione di Al Qaeda, che, sebbene indebolita dai colpi inferti dalla guerra al terrorismo, si  rigenerò attraverso la filiazione di tanti  agguerriti movimenti regionali hanno ripristinato il triste ruolo centrale del terrorismo. RR   

LA SITUAZIONE TURCA ATTUALE (22-4-2016) 
La Turchia è destinataria di un duplice attacco terroristico, sia da parte del PKK, sia da parte dello Stato Islamico, che si  avvale  anche di azioni suicide. Da un punto di vista internazionale la Turchia è un Paese isolato. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo espressione di un islamismo dai tratti ambigui, palesemente animato solo dalla volontà di prevalere sugli altri. La Turchia infatti sembra avere l'ambizione di tornare ad essere una grande potenza regionale, cercando di acquisire,  in concorrenza con le monarchie saudite, un'incontrastata egemonia nell'area mediorientale nell'ambito dell'Islam sunnita, e aspirando di fatto alla ricostituzione di un'aggiornata versione del grande califfato (il progetto  neocaliffale quindi non è solo dello Stato Islamico). È noto inoltre il dissidio con la Russia dopo l'abbattimento di uno dei suoi aerei al confine con la Siria. Sono freddi i suoi rapporti con gli Usa per le divergenze sulla questione curda; Erdogan rimprovera agli Stati Uniti di appoggiarsi nella lotta all'Isis ai Curdi siriani, che aspirano all'indipendenza dalla Turchia. Incerte sono le relazioni  con l'Unione Europea, motivate solo dalla convenienza reciproca, come è provato  dall'accordo sui migranti, di cui si è ampiamente detto nel commento precedente. Nello stesso tempo cresce il dissenso interno; Erdogan, per mantenere il controllo dello Stato, ha adottato misure che incidono sulla democrazia e sulla sicurezza. Nel Paese si sta affermando in maniera inquietante una linea autoritaria che sta determinando un preoccupante arretramento nella tutela dei diritti di libertà. Con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale e negando pertanto di interferire con la libertà di stampa sono stati sottoposti a misure restrittive della libertà personale numerosi giornalisti. Questa situazione, che ha gravi ricadute sulla vita politica e sociale del Paese, è indicativa di una condizione di crisi del governo che sta lentamente ma progressivamente perdendo  il pieno controllo. Il PKK, che da tre decenni combatte con ogni mezzo per l'autonomia curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni, viene individuato come il primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo. La Turchia è profondamente divisa al suo interno: c'è una borghesia urbana - integrata dalle classi benestanti e dagli studenti impegnati socialmente e politicamente - che, seppur non omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre di più da quale delle due anime a lungo termine prevarrà sull'altra. RR 

L'ACCORDO SUI MIGRANTI FRA UNIONE EUROPEA E TURCHIA (21-4-2016)
Com'è noto nel mese di marzo è stato adottato un accordo fra Turchia ed Unione Europea per fronteggiare quella pressione migratoria diretta in Europa che si è concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica. L'accordo prevede che i migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso la Grecia siano accolti dalla Turchia; per ogni profugo, in possesso dei requisiti per richiedere asilo, che verrà ospitato in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d'asilo, fino a un massimo di 72.000, sarà destinato (dalla Turchia) all'Unione Europea, con priorità per quei migranti che non abbiano tentato di entrare nel territorio in modo irregolare. I profughi destinati ai Paesi dell'Unione Europea  successivamente saranno ridistribuiti in base ad una ripartizione per quote. In pratica l'Europa delega alla Turchia, che dovrà ospitare sul proprio territorio il grosso dei migranti, la gestione di questo problema, compensandola con un finanziamento molto consistente, ovvero con sei miliardi di Euro, e con la ripresa dei negoziati propedeutici all'adesione dello Stato turco all’Unione Europea e la stipula di procedure semplificate per i cittadini turchi che vogliano accedere allo spazio Schengen. Non possono farsi previsioni circa la tenuta dell'accordo: la scarsa esperienza del governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimenta infatti  qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell'intesa. Speriamo che ad un'eventuale difetto di  organizzazione o all'incapacità di fermare i profughi diretti in Europa, non si aggiunga in futuro per i Paesi dell'Unione la necessità di  accogliere anche i profughi turchi e curdi che fuggono dalle conseguenze repressive di una più spinta eventuale deriva autoritaria del governo di Erdogan. L'accordo dovrebbe avere anche l'effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia, che potrà rimandare gli 'irregolari' in Turchia, dove dovranno attendere l’esito della loro eventuale richiesta di asilo da avanzare comunque in Grecia. Per l'Italia potrebbero aprirsi prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco potrebbero spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta mediterranea. È anche possibile che i migranti decidano di entrare in Albania e da lì attraversare il Canale d’Otranto per arrivare in Puglia. L'accordo, definito in termini astratti, non si occupa dei meccanismi pratici di attuazione. L'istanza turca di un rilancio dei negoziati con Bruxelles per il suo ingresso 'in Europa' non sembra avere al momento prospettive di successo, perché la Turchia, soprattutto in relazione all'attuale svolta repressiva del dissenso interno e alla scarsa tutela dei diritti di libertà dei propri cittadini, non soddisfa attualmente i criteri per l’adesione. L'accordo, oltre alle perplessità sul suo funzionamento concreto, ha suscitato molte critiche da un punto di vista etico, soprattutto presso gli ambienti cattolici: l'Unione Europea, infatti, privilegiando la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di una somma economica, si sgrava della gestione delle problematiche connesse alla questione e delle conseguenti implicazioni umanitarie. Si è anche detto che con l'ingente somma erogata alla Turchia l'Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l'emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospetta l'affidamento della problematica al governo di Ankara. RR

IL BELGIO E L'ISLAM 1. L'ISLAMIZZAZIONE JIHADISTA (18-4-2016)
La rilevanza politico sociale della comunità musulmana in Belgio non è una novità. Ne fu un primo segnale significativo la creazione nel 1967 di una grande moschea nel parco del Cinquantenario, nel cuore della capitale belga;  la moschea è tuttora ubicata all'interno del  grande palazzo che era stato costruito per ospitare il padiglione orientale in occasione dell'esposizione universale di Bruxelles del 1880. Successivamente l'edificio rimase per lungo tempo inutilizzato; nel 1967 il re Baldovino cedette la struttura in affitto per 99 anni all’Arabia Saudita durante la visita in Belgio di re Faisal Ben Abdelaziz. Allora l'immigrazione araba cominciava ad essere rilevante e perciò si pensò di destinare un grande spazio chiuso a luogo di culto dell'Islam. In realtà sulla benevolenza belga influirono molto gli accordi commerciali (soprattutto in materia di forniture petrolifere) che vennero conclusi fra i due Paesi nella circostanza. L'istituzione della moschea fu quindi il risultato di un iniziativa saudita. Come conseguenza l'interpretazione wahabita (il Wahhabismo, che è il credo dominante nella Penisola Arabica, com'è noto, propone un'interpretazione del Corano letterale, integralista e ultraconservatrice) ha sempre esercitato molta influenza nelle predicazioni che si sono tenute in quel luogo di culto. La moschea, dopo un lungo restauro, venne inaugurata nel 1978 da re Baldovino e dal nuovo sovrano saudita Khalid. Da allora, sempre con i finanziamenti dell'Arabia Saudita e sotto l'influenza wahabita, sono cominciati a proliferare i centri islamici, spesso guidati da imam che si erano formati a Riad. Fin dagli anni novanta iniziarono nell'ormai famoso comune di Molenbeek, nella regione di Bruxelles, senza che le autorità di polizia belghe  ne percepissero l'incombente pericolo, le predicazioni salafite di Bassam Ayachi; il Salafismo è una forma di radicalismo islamico. Le iniziative dello sceicco siriano costituirono la base ideologica dell'incipiente jihadismo belga e favorirono concretamente la crescita di un fondamentalismo organizzato. Le predicazioni ispirate al radicalismo trovavano un fertile terreno nel fallimento delle politiche di integrazione che acuivano quei sentimenti di discriminazione e di frustrazione sui quali facevano leva i reclutatori di foreign fighters, che promettevano un futuro da eroi a giovani in una condizione di indigenza.  Bassam Ayachi nel 2008 era stato arrestato in Italia per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Emerse dalle indagini che Bassam era  un personaggio influente del fondamentalismo islamico; in relazione a suoi progetti di attentati e all'organizzazione di una cellula terroristica gli furono mosse accuse più gravi, e nel 2011 fu condannato in primo grado a otto anni. La sentenza venne poi annullata in Cassazione, cui seguì nel 2012 l'assoluzione in appello (non risultarono elementi sufficienti), a seguito della quale lo sceicco siriano venne scarcerato. La svolta salafita, di cui si è detto, esercitò la sua influenza anche in altre città del Belgio. Ad Anversa nel 2010 Fouad Belkacem, attualmente detenuto, fondò l’organizzazione Sharia4Belgium, che si proponeva, come chiaramente indica il nome, l'instaurazione della legge islamica. L'organizzazione  creò propri centri anche in alcune città delle Fiandre, come Mechelen e Vilvoorde, dalle quali successivamente sono partiti per la Siria e l'Iraq numerosi foreign fighters. Da un punto di vista strategico, il Belgio ha una particolare importanza per il jihadismo europeo: per la sua collocazione al centro dell'Europa,  nel cuore dello Spazio Schengen, il territorio belga è un facile transito per la Francia, per il Lussemburgo, per i Paesi Bassi e per la Germania; negli aeroporti tedeschi  è inoltre possibile disporre di molti voli a buon mercato per la Turchia e, da qui, si può raggiungere la Siria con mezzi di fortuna e connivenze turche. Ovviamente per gli stessi motivi non è complicato avventurarsi per l'itinerario inverso (ovvero dalla Siria all'Europa). La libera circolazione interna - che resta un'importante conquista dell'Unione Europea - in questo momento offre indubbi vantaggi ai terroristi, che possono spostarsi su un vasto territorio, valersi di connivenze in altri Paesi, occultare più facilmente la  loro presenza, portare a termine quei programmi criminosi che richiedono trasferimenti transnazionali (come è avvenuto per gli spostamenti fra Belgio e Francia in occasione degli attentati di Parigi); questi vantaggi non sono  sufficientemente compensati dal potenziamento dei controlli di sicurezza alle frontiere che hanno messo in atto alcuni Paesi. Le limitazioni interne alla libertà di circolazione dello spazio Schengen - se possono non essere giustificate in relazione all'emergenza 'immigrati' in quanto la soluzione della questione dei flussi di profughi richiede quella solidarietà di tutti i Paesi che è preclusa dalla chiusura delle rispettive frontiere - potrebbero invece trovare temporaneo fondamento nelle esigenze di sicurezza (così come previsto dalla Convenzione di Schengen) connesse al contrasto del terrorismo transnazionale. La solidarietà europea, basata sulla ricerca dell'interesse comune e di cui anche la cooperazione di polizia fra gli Stati membri per il contrasto del terrorismo è un corollario, è sempre più compromessa dal rafforzamento di un'ideologia liberale che privilegia gli interessi nazionali su sacrifici che non sono condivisi perché non solo non sembrano sempre giustificati ed equi, ma anche perché non raramente sembrano trovare fondamento solo nella (ritrovata) volontà  di egemonia di alcuni Paesi (la Germania in particolare). Al contrario, la solidarietà europea ha come presupposto la pari dignità di tutti gli Stati membri e uno spirito europeista che si manifesti non solo nel percepire i benefici dell'Unione, ma anche nel condividerne i sacrifici. RR 

RIFLESSIONI A MARGINE DEL LIBRO 'IL JIHADISTA DELLA PORTA ACCANTO' DI KHALED FOUD ALLAM. (16-4-2016) 
L'intellettuale algerino Khaled Fouad Allam, dopo la strage nella sede della rivista Charlie Hebdo di Parigi, in un recente saggio, 'Il jihadista della porta accanto', compie alcune riflessioni sul significato e la valenza simbolica di questo attentato. Innanzitutto, è significativo che il triste evento sia avvenuto in Francia, la patria della rivoluzione illuminista, il movimento che si è proposto di liberare la mente dell'uomo dall'ignoranza, dalla superstizione, valorizzando l'apporto della ragione e della scienza nella formazione del pensiero. L'Illuminismo è infatti mancato nel mondo arabo, e solo con l'avvento della Primavera araba quei popoli per la prima volta  hanno richiesto sistemi politici che, oltre a governare con giusti­zia, assicurassero libertà e democrazia. Il conflitto con il fondamentalismo islamico, di cui gli attentati a Parigi e a Bruxelles costituiscono la punta esponenziale, non è nuovo ma è completamente cambiato con la nascita del Califfato e la costituzione di un esercito che promuove nuove forme di lotta. L'Isis con i suoi proclami invita a forme individuali di 'guerra santa', coinvolgendo in una nuova missione 'sacra' ragazzi e ragazze nati in Europa e di seconda generazione; una missione che consiste nel compiere crimini che possono manifestarsi in qualsiasi luogo e che possono colpire chiunque,  penalizzando indiscriminatamente tutti i potenziali spazi di relazione fra persone con culture e religioni diverse. Per questo l'autore definisce 'di prossimità' questo terrorismo. Il messaggio del sedicente Califfo sembra essere 'andate e colpite ovunque'. Dice l'autore del saggio che la data del 7 gennaio 2015 suona già come l’11 settembre 2001, una specie di spartiacque, l’entrata in una nuova era, nella quale le nostre democrazie moderne dovranno abituarsi a non sottovalutare questa emergente forma di minaccia, quasi permanente, che può provenire da ogni punto del globo. L'unico modo attraverso il quale l'Occidente può contrastare i raccapriccianti scenari che prospetta la deriva fondamentalista di matrice islamista è una forte  e coesa cooperazione internazionale; l'Occidente - è stato autorevolmente affermato (Wael Farouq) - non deve essere un'entità geografica, ma un insieme di valori. Al contrario l'Occidente manifesta contraddizioni e mancanza di unione culturale, e non integra né  un interlocutore né un modello compatto, facilitando l'obiettivo dell'Isis di cancellare quella zona grigia nella quale si articola il dialogo fra mondo cristiano e mondo musulmano. Lo Stato Islamico, nel rivolgere il suo messaggio di guerra e di violenza a tutti i musulmani, vuole sottomettere l'Islam per creare un mondo diviso fra opposti. La fascinazione che il richiamo dei cattivi maestri del radicalismo esercita sui giovani trova un terreno fertile nella nostra difficoltà di fornire valori solidi, nel fatto che i giovani quando escono dalla realtà virtuale popolata dai discutibili ma chiari richiami dell'Isis, trovano il nulla. E Internet è uno strumento che facilità il terrorismo, perché è uno mezzo passivo, che non si avvale del confronto critico. Poi il termine jihad  ha una forte suggestione perché è molto più forte del termine guerra perché conferisce uno 'status' che è il precipitato di una cultura di riferimento, che si manifesta con  un'identità che prima ancora di essere spirituale è esteriore. La crisi non è politica o religiosa, ma è culturale. Peraltro l'integrazione di etnie extraeuropee non si esaurisce nel fornire documenti di identità, ma necessita la condivisione di una civiltà. L'Occidente ha trascurato questa priorità, osserva acutamente l'intellettuale algerino. La pericolosità dell'Isis che non va sottovalutata né banalizzata - continua Khaled - è facilitata da una leggerezza della politica occidentale che sarebbe subentrata alla caduta del muro di Berlino. Forse la distruzione dei siti archeologici o l'accanimento verso i luoghi d'Arte hanno una loro logica perversa: la bellezza artistica e la cultura sono un formidabile collante che unisce popoli diversi e che va oltre le nazionalità e le visioni spirituali differenti. Al contrario, è necessario non essere involontariamente conniventi con il progetto di scontro dell'Isis e mantenere viva questa zona grigia del dialogo, distinguendo i terroristi e i fondamentalisti dal resto dei musulmani moderati. L'isolamento dei  criminali e del radicalismo è la premessa dell'unica possibile strategia vincente. L'Occidente vive invece nelle contraddizioni, come ad esempio, privilegiando i perversi interessi finanziari e commerciali su ogni altro valore, quella di essere nella lotta all'Isis alleato dell'Arabia Saudita, culla dell'ideologia wahabita, o di continuare a fare affari con lo Stato islamico (che così si procura armi e vende petrolio). Khaled Fouad Allan teme le semplificazioni, e che cioè l'Isis sia considerato solo l'incarnazione del male non valutando adeguatamente le potenzialità del suo messaggio di morte. La pericolosità dello Stato Islamico è anche quella infatti di aver trasformato la contestazione in un'istituzione, creando un modello, uno Stato con un territorio, un'alternativa concreta alle nostre contraddizioni e alla nostra identità divisa. RR 

LA MAPPA DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA: 5. BOKO HARAM (13-4-2016)  
Boko Haram è un movimento terroristico particolarmente sanguinario che  opera a livello locale, segnatamente nella regione nigeriana. Il ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e della Jihad’- questo era il suo nome originario - ufficialmente si costituì nel 2001 come reazione alla corruzione del regime federale nigeriano e al malessere sociale dovuto alla disoccupazione. Sulla sua origine  probabilmente hanno inciso le vicende algerine. Com'è noto, in Algeria nelle elezioni legislative del 1992 il Fronte Islamico per la Salvezza vinse ampiamente il primo turno; con il secondo turno il F.I.S. avrebbe conseguito la vittoria definitiva. Tuttavia, l’esercito volle impedire questa possibilità e intervenne prima del secondo turno per interrompere il naturale esito del processo elettorale. Si originò così quella guerra civile nell’ambito della quale nacque il gruppo armato Gia, che poi evolvendosi diventò nel 1997 il Gspc, ovvero il Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento. Le pressioni dell’apparato di sicurezza  algerino, uno dei più potenti di questa sub regione - i cui appartenenti si avvalevano anche di mezzi 'poco ortodossi' come esecuzioni extragiudiziarie, rapimenti, sparizioni di oppositori - determinarono la fuoriuscita dal Paese di una considerevole parte dei membri di gruppi fondamentalisti ed eversivi. Questi individui si rifugiarono soprattutto nelle zone di frontiera fra Algeria, Mauritania e Niger, evitando di andare verso la Libia,  o altri Stati del  Nord-Africa mediterraneo in quanto questi Paesi erano maggiormente attrezzati per il loro respingimento; diversamente la Mauritania, il Niger e il Mali non avevano le risorse umane e tecnologiche per un adeguato controllo transfrontaliero. Probabilmente in queste regioni si è sviluppato uno dei primi e più importanti nuclei originari di Boko Haram. Boko Haram in lingua Hausa (l’idioma maggiormente diffuso in Nigeria del Nord e in Niger) può essere tradotto 'l'educazione occidentale è sacrilega'. Questo nome evidenzia l’obiettivo della setta fondamentalista, cioè quello di attuare una dura opposizione alla cultura occidentale ritenuta corruttrice della purezza dell’Islam. Per il suo carattere regionale Boko Haram non può essere associato al jihadismo globale dell’Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) o di Al Shabab in Somalia. Anche i rapporti del movimento con il terrorismo internazionale non sono mai stati sufficientemente provati. L’incerta linea gerarchica, la struttura poco chiara, la divisione in fazioni, una catena di comando non univoca, si traducono in un problema di rappresentatività che rende difficili eventuali ‘contatti costruttivi’ e trattative con le istituzioni governative nigeriane. La particolare acredine del movimento nei confronti della cristianità probabilmente è dovuta anche alla fede (cristiana) di Goodluck Ebele Jonathan,  Presidente del Paese dal 2010 al 2015. I membri di Boko Haram per il loro violento integralismo vengono anche definiti da una parte della stampa internazionale i 'talebani nigeriani'. Boko Haram, lo scorso anno ha compiuto un importante salto qualitativo: da gruppo eversivo locale aderendo all'Isis è divenuto parte dell'inquietante progetto dello Stato Islamico di ricostituzione del Califfato. Nel 2012 il governo nigeriano ha proclamato lo stato di emergenza in alcune regioni del Paese, militarizzandole con la presenza di migliaia di soldati; ma questo non ha impedito a Boko Haram di estendere il suo controllo su alcune aree  nord-orientali della Nigeria. Gli attacchi del movimento jihadista sono proseguiti negli anni successivi, anche attraverso assalti kamikaze eseguiti da bambini, avendo come obiettivo interi villaggi - 'privilegiando' massacri in scuole e in chiese - e compiendo rapimenti di massa, come quello di 276 studentesse di Chibok dell’aprile 2014, o quello del marzo 2015 a Damasak di cui furono vittime più di cinquecento persone. Molti analisti, in relazione al numero e alla violenza delle iniziative terroristiche e alla moltitudine delle persone trucidate, considerano il livello di pericolosità del movimento superiore anche a quello dell'Isis. È sempre più inquietante l'impiego, come attentatori suicidi - dopo un mirato addestramento - di bambini e di giovani donne rapite e costrette a convertirsi all'Islam. Un sito specializzato nell'analisi del terrorismo, Long War Journal, ha stimato che nel 2014 almeno 105 elementi fra donne e bambini sono stati 'usati' da Boko Haram per compiere attacchi suicidi (in Nigeria e zone limitrofe).  RR 

L'EGITTO DEL CASO REGENI (11-4-2016) 
Il caso Regeni ha riportato al centro dell'attenzione l'attuale situazione interna dell'Egitto. L'Egitto è un Paese che ha sempre avuto un'importanza strategica particolare negli equilibri mediorientali; negli ultimi anni ha subito dei grandi mutamenti politici che hanno cambiato la sua storia e sovvertito alcuni consolidati equilibri. Lo scenario egiziano è costantemente stato caratterizzato da componenti contrapposte, e, segnatamente, dal potere dei militari, da sempre molto influenti nei momenti cruciali del Paese, dal potere dei  fondamentalisti islamici, dalla mediazione del blocco laico. Nel febbraio del 2011, a seguito delle imponenti manifestazioni a Piazza Tahir, al culmine di quella primavera egiziana che è stata parte di quella  più generale primavera i cui moti di rivolta, di carattere laico, iniziati in Tunisia alla fine del 2010, sono poi proseguiti  con effetto domino in altri Paesi Arabi, veniva deposto il presidente Hosni Mubarak. Archiviato il regime autocratico e corrotto di Mubarak, che aveva afflitto la popolazione con povertà, soprusi e disoccupazione, i militari,  hanno inizialmente mostrato l’aspetto di un potere garante di quelle istanze di democraticità, di progresso, di libertà e di giustizia, che la classe media emergente reclamava nelle manifestazioni di piazza. Furono indette libere elezioni che portarono al potere Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana. Il presidente Morsi intraprese una politica autoritaria reprimendo le proteste e sottoponendo giudizio davanti a tribunali migliaia di oppositori. In concreto,  le parti laiche che avevano animato la rivoluzione, progressivamente sono uscite di scena, cedendo il passo alle istanze autoritarie e fondamentaliste, che hanno consentito a Mohamed  Morsi, primo presidente civile e islamico dell'Egitto democraticamente eletto, l’autoattribuzione di poteri che conferivano una particolare forza alle sue iniziative istituzionali e lo rendevano immune da controlli giurisdizionali. La reazione della componente laica ha contribuito a spingere l’esercito alla destituzione e all'arresto di Morsi: un vero golpe se si considera che - come detto in precedenza -  il Presidente aveva conseguito questa carica a seguito di libere elezioni. È iniziata un'altra fase di transizione che si è conclusa nel maggio del 2014 con l'elezione del generale Al Sisi, esponente delle forze armate. Successivamente, al fine di stroncare l’opposizione fondamentalista islamica, i militari cedettero alla tentazione di mettere al bando il movimento della Fratellanza Musulmana, che lottava per il ritorno di Morsi e che  manteneva il suo ascendente su parte della popolazione e su molte istituzioni sociali. Questa iniziativa si è rivelata un errore perché di fatto  ha cancellato la fragile demarcazione fra fondamentalismo e terrorismo, ed ha spinto le frange estreme della Fratellanza verso una deriva eversiva. Per la sua lotta non solo alla Fratellanza musulmana, ma a tutte le componenti jihadiste l'Egitto di Al Sisi ha assunto rapidamente un'importanza centrale nell'attuale scenario geopolitico. La lotta al terrorismo si svolge su due piani. Innanzitutto si articola su un piano culturale, spingendo l'Università e la moschea di Al Azhar, che hanno sede al Cairo e sono i  principali centri d'insegnamento religioso dell'Islam sunnita, a promuovere un'interpretazione politicamente moderata della religione musulmana. Su un piano militare, il contrasto del terrorismo si realizza mediante iniziative repressive contro i gruppi violenti in Sinai e nel resto del Paese. Si deve anche considerare che l'Egitto è uno dei pochi Paesi arabi che ha rapporti con Israele. Per questi aspetti e per il suo carattere moderato in questo momento la nazione egiziana è un fondamentale interlocutore per l'occidente, un possibile ponte verso il mondo arabo. Tuttavia, nonostante il generale Al Sisi sia un uomo di potere particolarmente solido, non sembra che il Paese e l'apparato di governo siano completamente sotto il suo controllo. Infatti, la forte impronta autoritaria del regime è significativamente indebolita dall'ostilità dei Fratelli Mussulmani, messi frettolosamente al bando per il pericolo che favorissero una forte islamizzazione del Paese. La gestione della collaborazione fra autorità italiane e maestranze egiziane per l'accertamento delle responsabilità per la morte del ricercatore italiano quindi si colloca anche nel contesto di questi delicati equilibri interni. RR 

LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO  - 4. DA AL QAEDA ALL'ISIS  (4-4-2016)  
Prima di analizzare gli altri movimenti di matrice islamista si impone un'ulteriore riflessione sull'evoluzione del terrorismo da Al Qaeda all'Isis. L'Isis non è un'organizzazione terroristica in senso tradizionale, strutturata in un apparato gestito in maniera gerarchica da un vertice di tipo politico-militare,  con adepti che hanno come riferimento un più noto organismo, come potrebbe essere Al Qaeda. L'Isis è qualcosa di più, è uno stato terrorista, con forme elementari di governo sui territori nei quali esercita il suo potere imponendo regole particolarmente rigide; mentre coltiva il sogno di un'espansione nel nome di Allah nel Maghreb, e dalla Spagna all'Estremo Oriente, includendo tutta la Penisola Arabica, conferisce concretezza ad un modello. Al momento lo Stato Islamico si estende su alcune zone della Siria e dell'Iraq, mentre sta progressivamente aumentando la sua sfera di influenza in Libia al punto di voler trasferire la sua capitale da Rakka (in territorio ex siriano) a Sirte. Dispone di un esercito formato da miliziani locali e da oltre 30.000 foreign fighters. Nella conquista dei territori può valersi di un'agile struttura caratterizzata da unità mobili  che nella conquista di nuovi territori stabiliscono un controllo preliminare parziale seguito da un controllo successivo totale, nel quale si radica la sua presenza stabilendo forme elementari di governo. L'Isis articola queste iniziative 'di conquista' in distinte fasi. Valendosi di un'intelligence che si è formata alle dipendenze di Saddam Hussein, individua le tribù e i clan che possano sostenere la sua azione e i gruppi potenzialmente nemici; successivamente infiltra propri uomini nel tessuto sociale locale, prima nei quartieri periferici poi nei grandi agglomerati. Segue un'attività di propaganda e di proselitismo, che si consolida attraverso iniziative di welfare: il neo istaurato Stato Islamico aiuta chi ha perso un lavoro  fornendo un'occupazione e un salario, acquista terre e bestiame da allevatori poveri, ristruttura strade ed edifici, crea enti assistenziali per orfani o persone che necessitano di aiuto, pensa a cibo e a medicine, finanziandosi con l'imposizione di tasse oltre agli altri noti introiti.  In questo modo lo Stato Islamico diviene per la popolazione locale un apparato necessario: da questo momento rivela il suo reale volto di regime rigidissimo interprete di un Islam  fondamentalista. Viene messa al bando qualsiasi attività che possa offendere il Corano: è vietato fumare - anche il tradizionale narghilè -, non è possibile consumare  alcool e qualsiasi tipo di droga; è proibita qualsiasi forma d'Arte per il  rischio che venga violata la più integralista iconoclastia; viene attuato un controllo rigidissimo su cibo e farmaci al fine di evitare che possano essere considerati impuri; è interdetto  qualsiasi prodotto che venga dall'occidente. Il rispetto della Sharia è assicurato dai vigili controlli della Hisba, la polizia religiosa che opera per garantire vigenza al diritto islamico, e si avvale anche di improvvisati pubblici processi che applicano, nel caso di violazioni, 'esemplari' sanzioni che possono consistere nell'uccisione, in gravi mutilazioni, in frustate. Sembra che nell'area siriana e zone limitrofe dalla proclamazione dello Stato Islamico ad oggi siano stati giustiziati più di 2000 civili. Il Web, sottoposto ad un rigido controllo, è un fondamentale strumento di propaganda 'esterna'. Attraverso il Web vengono trasmessi martellanti messaggi di morte; le immagini dell'abbattimento dell'aereo russo, degli attentati di Parigi, dei fatti di Bruxelles sono la macabra pubblicità in Rete della sfida che lo Stato Islamico ha lanciato all'Occidente. Queste azioni hanno il chiaro fine di creare uno stato di insicurezza, di minare la solidità del nostro vivere quotidiano, di costringerci alla costante paura di un attentato e, nello stesso tempo, facilitano il reclutamento di foreign fighters, basato sulla fascinazione dell'immaginario di giovani emarginati, che si sentono privi di futuro e vittime di contesti di crisi e di depressione economica. Questa propaganda virtuale si avvale di una persuasione motivazionale e ideologica, soprattutto attraverso la retorica della guerra all'occidente e dell'eroismo dei Kamikaze, che spinge questi giovani, che percepiscono positivamente questi  messaggi di ferocia e di violenza, ad unirsi ai combattenti jihadisti. In proposito, alla fine dello scorso anno è stato pubblicato dall'analista Charlie Winter un interessante documento, 'Documenting the Virtual Caliphate' (disponibile in Rete - http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/2015/10/FINAL-documenting-the-virtual-caliphate.pdf) che spiega i meccanismi di propaganda 'virtuale' del Califfato. Dalle considerazioni anzidette si evince che la guerra all'Isis, come ha precisato il criminologo Arije Antinori,  non si esaurisce in iniziative belliche ma richiede il contrasto di una 'cultura'. Il proselitismo interno è capillare, non risparmia - opportunamente adattato - nemmeno i bambini, futuri miliziani. Le pratiche di addestramento militare sono durissime. L'arsenale è costituito soprattutto dalle armi sottratte all'esercito siriano e a quello iracheno; probabilmente è alimentato anche dal traffico di armi che transita per Paesi, come la Turchia e l'Arabia Saudita, che hanno un atteggiamento ambiguo nei confronti dell'Isis, non coerente con l'ufficiale condanna. Alle armi tradizionali si aggiunge l'uso di attentatori suicidi, il prodotto del fatto che l'Isis non ha solo  il controllo di territori, ma anche quello di persone che arrivano ad immolarsi per la causa dell'Islam. In proposito, va precisato che il martirio per l'Islam non è un dovere, ma è una testimonianza di fede estrema, per cui chi si sottrae ad esso non è considerato un apostata. A sottolineare la rilevanza di questo fenomeno, si sottolinea che nella settimana dell'attentato a Bruxelles ci sono state 41 operazioni portate avanti da 'kamikaze'. Non solo in Belgio, ma anche in Siria, in Iraq, nel Sinai. RR 

IL RUOLO DI EUROPOL NELLA LOTTA AL TERRORISMO (31-3-2016) 
Le recenti tragiche vicende in Belgio relative agli attentati si matrice jihadista consumati a Bruxelles hanno evidenziato la necessità di un maggiore coordinamento fra le forze di polizia e l'intelligence dei Paesi europei, di un più intenso scambio delle informazioni di cui dispongono, del raggiungimento di un livello di professionalità più elevato. In proposito, l'istituzione di Europol, che è l'agenzia comunitaria che supporta i Paesi membri dell'Unione Europea nel combattere le forme più gravi di criminalità internazionale e il terrorismo, è strumentale a questi scopi. Europol è un organismo di impronta  intergovernativa in quanto non espropria le competenze delle polizie nazionali ma si limita a facilitarne la cooperazione, a gestire database nei quali dovrebbero confluire le specifiche informazioni sensibili di cui dispongono i competenti uffici nazionali, a elaborare 'best practices' che dovrebbero elevare e fissare su un comune livello superiore lo standard professionale delle strutture investigative nazionali. I database sono anche oggetto di attente e mirate attività di analisi. Recentemente le capacità di Europol nel contrasto del terrorismo sono state incrementate con la creazione del Centro Europeo Antiterrorismo (ECTC) che dovrebbe potenziare la condivisione di informazioni e il coordinamento operativo - anche con distacco di esperti presso specifiche realtà nazionali -, con particolare attenzione al fenomeno dei 'foreign fighters', al traffico illecito di armi, al finanziamento delle attività criminali. Europol ha notevoli potenzialità, ha strumenti sofisticati nella raccolta e per l'analisi delle informazioni, ed è già pronto alla futura gestione - quando saranno rimossi gli ostacoli normativi - degli importantissimi 'PNR' (i dati sui passeggeri dei voli internazionali). Tuttavia il limite concreto è rappresentato dal fatto che l'efficacia dell'azione di Europol richiede il supporto degli Stati membri. Ad esempio, l'utilità dei database di cui dispone l'ufficio europeo dipende dalla quantità e dalla qualità dei dati che i competenti uffici nazionali forniscono, come anche le opportunità operative offerte dall'agenzia europea sono attivate liberamente dalle polizie nazionali. Se non fosse così si limiterebbe l'autonomia delle polizie dei Paesi membri, e questo non è possibile in quanto, come detto in un precedente commento, la materia della cooperazione operativa di polizia non è stata oggetto di una comunitarizzazione, ovvero la sua gestione non è stata trasferita alle istituzioni comunitarie. Per questo motivo è del tutto improprio parlare, con enfasi giornalistica, di Europol come di una specie di FBI europea. L'unica vera forza di polizia europea, in quanto dotata di specifici e autonomi poteri di iniziativa nelle indagini, è l'OLAF, che però si occupa esclusivamente della repressione dei reati relativi alle truffe sui fondi comunitari. Eurojust, che dovrebbe coordinare i magistrati incaricati di indagini su crimini che coinvolgono più Paesi europei, al momento ha scarse potenzialità operative, limitandosi ad un coordinamento burocratico; inoltre non vi è un reale collegamento operativo fra Europol, come organo di coordinamento delle attività di polizia e Eurojust, come organo di coordinamento giudiziario. Alle dipendenze dell'Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, opera l'organismo EuIntCen che tuttavia si limita alla raccolta di informazioni classificate. Probabilmente un'esigenza di coordinamento esiste anche fra questi enti comunitari di settore. In conclusione, l'Unione Europea dispone di efficaci strumenti che tuttavia devono essere potenziati; quindi non necessita di nuove strutture. In particolare, è opportuna una ricognizione sulle potenzialità di Europol, perfezionandone gli strumenti di cui dispone o prevedendone altri più mirati, e rendendo più incisivo il collegamento operativo fra questa agenzia europea e gli Stati membri, chiamati ad una più intensa e stretta collaborazione anche qualora questa comporti il sacrificio di parte della propria sovranità. In altri termini, l'Europa è pronta anche se deve implementare gli strumenti di cui dispone. Le polizie degli Stati membri, attraverso un maggiore coordinamento centrale, devono invece migliorare la propria efficienza e devono aprirsi ad una maggiore collaborazione, ritrovando quello spirito che li aveva animati nel comune interesse fin dall'esperienza dell'accordo 'Trevi', e che ha consentito traguardi che allora sembravano irraggiungibili.  RR 

E' POSSIBILE UN MINISTRO DELL'INTERNO EUROPEO? (30-3-2016)
Tra le tante proposte per combattere il terrorismo di matrice islamica  in alcuni 'media' è stata formulata anche quella di istituire 'un unico ministro dell'interno europeo'. Il tema non è nuovo. La questione della creazione di organi centrali europei per la repressione dei reati e dei loro relativi poteri - che generalmente comportano limitazioni delle sovranità nazionali in quanto impongono forme di collaborazione forzata - ha sempre avuto un'importanza centrale. Per verificare la fattibilità e l'opportunità di questa opzione, è necessario ripercorrere le tappe della storia della cooperazione di polizia fra gli Stati europei e considerare quanto prescrivono attualmente le norme del Trattato sull'Unione Europea vigenti in materia, che delineano  normativamente il quadro entro il quale deve essere contenuta ogni nuova iniziativa. Una cooperazione europea di polizia fu avviata da alcuni Stati nel 1976 mediante un accordo denominato 'Trevi', che si avvaleva di una rete di rappresentanti dei ministri della giustizia e degli affari interni. Ancora non esisteva l'Unione Europea e quindi si trattava di una collaborazione strutturata su un accordo intergovernativo, cioè fondata sui reciproci impegni delle parti contraenti. Un'organizzazione intergovernativa - come era quella creata dall'accordo Trevi - non prevede l'istituzione di organi sovranazionali e ogni decisione pertanto viene presa all'unanimità. Si comprende facilmente come in questo ambito sia sempre difficoltosa l'adozione di determinazioni, in quanto è sufficiente il veto di un solo Stato per bloccare una proposta. L'accordo 'Trevi' inizialmente era finalizzato a coordinare l'azione dei governi europei nella lotta al terrorismo, ma successivamente fu esteso a molte altre questioni di polizia, soprattutto quelle di carattere transfrontaliero.  Con la creazione dell'Unione Europea con il Trattato di Maastricht nel 1992 (in vigore dal novembre 1993), le politiche comuni vennero divise in tre aree denominate 'pilastri'. L'Unione Europea è un ente con una personalità giuridica distinta da quella degli Stati membri, i quali, pertanto,  con la firma del Trattato hanno accettato di limitare la loro sovranità. Tecnicamente questo avviene attraverso 'la comunitarizzazione'. Con il metodo comunitario, che costituisce la regola generale,  le decisioni sono adottate attraverso una procedura che prevede l'uso del voto a maggioranza qualificata. Tuttavia con il Trattato di Maastrich si mantenne il metodo intergovernativo per gli aspetti della politica estera e della cooperazione giudiziaria e di polizia, con la conseguenza che le relative delibere in materia dovessero essere adottate ancora all'unanimità, tenendo presente la necessità di rispettare le diverse peculiarità nazionali, che ogni Stato pertanto, con l'eventuale esercizio del veto, poteva tutelare bloccando una decisione. La cooperazione di polizia quindi venne destinata ad uno specifico pilastro, il terzo, sottraendola al processo di 'comunitarizzazione', che avrebbe invece comportato il totale trasferimento della politica del settore alle istituzioni comunitarie, creando un unico sistema per tutti i Paesi. Per agevolare la collaborazione fra 'law enforcement' degli Stati membri, si è sempre perseguita la progressiva riduzione delle differenze nazionali nella struttura degli apparati giudiziari e di polizia e nelle normative penali sostanziali e procedurali. Con il Trattato di Lisbona, per rafforzare l'azione dell'Unione Europea, vennero aboliti i tre pilastri. Tuttavia, sussistendo l'opportunità di garantire l'autonomia dell'azione degli Stati membri nel settore della giustizia e di polizia, il metodo intergovernativo è stato mantenuto per quanto riguarda la cooperazione operativa, in questi termini: "Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, può stabilire misure riguardanti la cooperazione operativa.......Il Consiglio delibera all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo..... " (art 87, Capo V, Titolo V - Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea). Pertanto, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, sebbene sia stata integrata nel regime di diritto comune, continua a valersi dell’applicazione di procedure particolari in cui gli Stati membri conservano poteri importanti. In conclusione allo stato attuale si deve escludere la previsione di un organo centrale che possa assorbire  le competenze degli Stati espropriando le sovranità nazionali. Da un punto di vista formale un vertice cogente (come un ministro europeo) è escluso dalla sopravvivenza del metodo intergovernativo, in quanto un organo centrale con pieni poteri presupporrebbe la completa comunitarizzazione della materia, mentre da un punto di vista sostanziale appare opportuno mantenere, pur nella massima implementazione della cooperazione di polizia (ad esempio rafforzando Europol o prevedendo nuovi mezzi), l'autonomia delle forze nazionali. RR  

Il  ruolo delle joint investigation teams (le squadre investigative comuni) nella lotta al terrorismo in Europa (28-3-2016)  
Come si è detto in  un precedente post, lo scambio di informazioni in materia di terrorismo in ambito comunitario - di cui  si parla molto in questi giorni come punto critico della cooperazione di polizia - seppur previsto e codificato in numerosi documenti, presenta profili molto problematici nella sua attuazione concreta che ne limitano fortemente l'efficacia. Si è detto che i limiti dello scambio di notizie sensibili 'a distanza' fra organi collaterali di 'intelligence' di diversi Paesi può essere superato attraverso esperienze operative comuni, ovvero mediante il coinvolgimento diretto di operatori di polizia in una medesima specifica attività investigativa. Lavorare insieme, infatti, facilita la conoscenza e conseguentemente accresce  quella fiducia reciproca che consente di superare le remore e i timori di una asettica e formale cooperazione 'a distanza'. In proposito, a conferma che la collaborazione fra le forze di polizia dei Paesi europei piuttosto che di nuovi strumenti ha necessità di  una implementazione di quelli già esistenti, in questo ambito è previsto uno strumento che prevede questo tipo di  esperienza operativa. Si tratta delle squadre investigative comuni (joint investigation teams). Le squadre investigative comuni sono state originariamente previste da una decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea  del 2002. L'Atto stabilisce che, al fine di condurre indagini che esigono un'azione coordinata e concertata negli Stati membri in ambiti specifici, due o più Stati possono costituire per una durata limitata, delle squadre investigative, composte da autorità giudiziarie e/o di polizia. Gli Stati membri interessati sono responsabili della composizione, delle finalità e della durata del mandato della squadra investigativa, che può avvalersi della collaborazione di rappresentanti di Europol, di Olaf o di Stati terzi. Le squadre, sebbene ipotizzate per contrastare una lunga serie di reati, sono particolarmente idonee a combattere il terrorismo, il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani.  Nel 2011 il Consiglio dell'Unione Europea ha aggiornato un manuale che ha come obiettivo quello di  informare gli operatori circa le basi giuridiche, i requisiti per la costituzione di questi team, e di dare indicazioni sulle occasioni in cui può essere proficuo avvalersene (Il Manuale può essere consultato a questo indirizzo - http://www.statewatch.org/news/2011/nov/eu-council-jit-manual-15790-rev1-11.pdf). Le squadre investigative comuni apportano un altro valore aggiunto. In precedenza nella repressione transnazionale dei reati è stata riscontrata anche questa difficoltà: la cooperazione internazionale ha sempre coinvolto principalmente le forze di polizia (si pensi in particolare ad Europol e a Interpol).  Conseguentemente queste attività investigative non sempre si sono coordinate con le iniziative degli apparati giudiziari nazionali; questo 'scollamento' generalmente può  produrre da un punto di vista pratico ripercussioni negative nella repressione degli illeciti, in quanto spesso gli apparati giudiziari, destinatari finali delle risultanze investigative, non se ne sono potuti avvalere positivamente. Le squadre investigative invece  possono avere in sé sia la componente più prettamente investigativa ed operativa che quella giudiziaria, cosicché le forze di polizia possono pienamente svolgere il ruolo di 'braccio' operativo di un'attività giudiziaria. Naturalmente anche una maggiore efficienza di Eurojust  e una corretta applicazione del mandato di arresto europeo contribuiscono ad una reciproca integrazione fra le attività investigative (con valenza preventiva e repressiva) e quelle degli organi giudiziari chiamati soprattutto a facilitarne la finalizzazione pratica.  Naturalmente questi strumenti potranno essere migliorati rendendoli maggiormente idonei all'obbiettivo di prevenire e reprimere il terrorismo. Ma l'implementazione degli istituti  per aggiornarli al fine di renderli maggiormente adeguati agli scopi  che si propongono è implicita in ogni decisione comunitaria. RR   

LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 3. LA COMUNE STRATEGIA DEGLI ATTENTATI SUICIDI (26-3-2016)
I recenti gravi fatti di Bruxelles hanno tragicamente reso di nuovo attuale la questione del terrorismo suicida. Com'è noto, l’attività terroristica determina una situazione di guerra definita asimmetrica per sottolineare il suo carattere non convenzionale, in quanto in essa non si contrappongono due eserciti, espressione di realtà nazionali, strutturati in forma rigidamente piramidale, che si avvalgono di armamenti e mezzi bellici tradizionali. I movimenti terroristici infatti diversamente dalle forze armate di uno Stato, sono organizzazioni clandestine, che per i loro fini ricorrono anche a iniziative – come dirottamenti, attentati, omicidi, stragi, rapimenti, sabotaggi – che in genere non si riscontrano comunemente in contingenze belliche ordinarie. Il terrorismo di matrice islamica, oltre ai mezzi appena menzionati, utilizza un’arma che è di grande efficacia nel diffondere terrore in maniera indiscriminata in virtù della sua imprevedibilità e della difficoltà a contrastarne gli effetti: si tratta dell’impiego di individui imbottiti di esplosivo che si fanno detonare presso un obiettivo sensibile  - come la stazione della metro di Maalbeek o l'aeroporto di Zaventem a Bruxelles -  causando gravi danni alla comunità civile. Il fenomeno del terrorismo suicida viene considerato analogo a quello dei kamikaze, i piloti giapponesi (prevalentemente di aerei), che durante la Seconda Guerra Mondiale procuravano ingenti perdite ai nemici attraverso l’esplosione del proprio mezzo. I kamikaze giapponesi erano motivati da un forte sentimento patriottico: l’appartenenza allo Stato nipponico radicava in loro il dovere etico di difendere la comunità dei connazionali con ogni mezzo, anche estremo come il sacrificio della vita. Peraltro questa condotta, oltre ad arrecare onore e prestigio alla propria famiglia, era una via che per l’alto valore morale si riteneva conducesse alla pace eterna. I kamikaze erano parte integrante dell’esercito regolare giapponese e operavano nel contesto di una guerra convenzionale; corollario del carattere segnatamente bellico delle loro iniziative era la volontà di progettare  queste azioni in maniera da evitare che nell’esplosione venissero coinvolti obiettivi civili. Premessi questi aspetti, non sembra che ci siano molti punti di contatto fra il suicidio dei kamikaze e il sacrificio dei terroristi fondamentalisti. Gli atti suicidi con finalità terroristiche sono generalmente considerati monopolio della cultura religiosa, in particolare islamica. Infatti siamo abituati a ritenere che i fedeli islamici siano più versati al martirio e al sacrificio della propria vita rispetto agli appartenenti ad altre religioni o culture. Tuttavia, in epoca moderna gli attentati suicidi per la prima volta sono stati attuati da terroristi di estrazione laica, ovvero le Tigri Tamil operanti in India. È controversa la relazione fra il sacrificio della vita in nome dell’Islam e i conseguenti privilegi che garantirebbe Allah in Paradiso. In proposito il Corano considera la vita sempre sacra e inviolabile e pertanto in linea di massima non giudica lecita nessuna forma di suicidio. Tuttavia il Corano obbliga i fedeli  al cosiddetto 'Jihad difensivo': ogni musulmano ha il dovere di difendere le terre dell’Islam dall’attacco di infedeli o liberarle dalla loro presenza. Uno studioso americano, Robert Pape, analizzando gli attacchi suicidi relativamente a decenni recenti ha rilevato empiricamente che il loro incremento esponenziale non è causato dalla crescita del fondamentalismo religioso o dall’acuirsi di contingenze socio-economiche, ma è correlato alla percezione dei terroristi islamici che il proprio Stato si trovi in una condizione di occupazione o di dipendenza militare o anche soltanto ideologica da parte di una potenza straniera. In proposito, per occupazione non si deve intendere soltanto l’insediamento straniero in un territorio, ma anche la semplice presenza di una potenza occidentale che intende interferire con la cultura locale o imporre la propria. Questa condizione di asservimento è avvertita come una situazione in grado di snaturare la società islamica; per questo genera nel fedele il dovere di attivarsi per contrastare questo pericolo, supposto o reale. Si è anche rilevato che spesso la nazionalità dei terroristi suicidi è quella di un Paese che ospita truppe provenienti da Paesi occidentali come, ad esempio, l’Arabia Saudita. Quindi si è dedotto empiricamente che l’iniziativa suicida sembra essere una reazione (piuttosto che un’azione) strumentale alla difesa della terra dell'Islam; conformemente all'istituto del 'Jihad difensivo' prescritto dal Corano, la consapevolezza dell’occupazione del proprio territorio nazionale richiede al fedeli di attivarsi. Analogamente si è anche riscontrato che, quando l’atto è compiuto dal terrorista al di fuori del territorio di nascita o provenienza, la nazionalità del terrorista è in linea di massima quella di un Paese il cui territorio è oggetto di presenza o di attacco da parte di un Paese occidentale. Si tratta di rilevamenti statistici ed empirici che tuttavia forniscono indicazioni sulle motivazioni consapevoli o inconsapevoli di questi atti.  Allo studioso americano Robert Pape va pertanto il merito di aver inserito l’atto suicida nell’ambito di una logica strategica. Un interessante contributo alla comprensione di questo fenomeno è fornita dal film palestinese 'Paradise Now' di Hany Abu-Assad, nel quale vengono esposte in dettaglio le vicende di due giovani che sono scelti dalla comunità per compiere un attentato suicida. RR 

LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO  - 2. I FINANZIAMENTI DELL'ISIS (25-3-2016) 
Come si è detto nel precedente post, l'Isis gode di grandissime disponibilità economiche, che così approssimativamente sono state stimate:
·     dal commercio del petrolio (molti giacimenti che l'Isis controlla sono in territorio ex-iracheno) provengono 480 milioni di dollari l'anno (429 milioni di euro);
·     dalle tasse imposte in maniera quasi estorsiva sui residenti nei territori occupati (parte della Siria, parte dell'Iraq, ma anche parte della Libia - si tratta di circa 8 milioni di persone) provengono 48 milioni di dollari al mese (42,9 milioni di euro);
·     dalle estorsioni a cui sono sottoposti commercianti, professionisti, camionisti, cittadini, provengono 20 milioni di dollari l'anno (17,8 milioni di euro);
·     dal contrabbando delle opere d'arte, trafugate soprattutto dai siti archeologici siriani, provengono 100 milioni di dollari l'anno (89,3 milioni di euro);
·     da donazioni di soggetti pubblici e privati di carattere religioso sunnita nel biennio 2013 - 2014 sono giunti 40 milioni di dollari (35,7 milioni di euro).
Forse ingenti e imprecisati occulti finanziamenti provengono da alcune monarchie del Golfo, seppur formalmente schierate nella coalizione anti-Isis. Il Califfato ha un vero e proprio Ministero dell'Economia che controlla e gestisce le entrate e le uscite. Inoltre le minoranze etniche e religiose, cristiani compresi, per poter restare in quei territori sono costretti a subire particolari vessazioni, anche economiche, conformemente a quanto prescrive la Sharia con l'istituto della Dhimma. Si comprende facilmente come l'interruzione di questi flussi finanziari, ancor più delle iniziative militari, possa essere un fattore fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico. In proposito il congelamento dei flussi finanziari ha avuto un'importanza decisiva nel ridimensionamento di Al Qaeda. Tuttavia, poiché l'Isis, diversamente da Al Qaeda, ha un territorio e degli abitanti, è presumibile che un taglio alle fonti di finanziamento si tradurrebbe in una catastrofe umanitaria, in  quanto in concreto  il sacrificio economico ricadrebbe drammaticamente sulla popolazione. Non è una novità che la gente comune paghi il prezzo diretto o indiretto delle folli iniziative di pochi sconsiderati. RR 

LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI IN AMBITO EUROPEO NELLA LOTTA AL TERRORISMO DOPO I TRAGICI FATTI DI BRUXELLES (24-3-2016)
Dopo i tragici fatti di Bruxelles, molti opinion maker, soprattutto politici e giornalisti, insistono sulla necessità di un maggiore scambio di informazioni fra i Paesi Membri dell'Unione Europea e sulla creazione di un organismo centrale di intelligence europeo, ovvero di una specifica procura. Sicuramente si tratta di due strade che è necessario percorrere, ma la problematica è molto ampia e antica, e si ha l'impressione che la maggior parte di coloro che ne parlano non ne conosca la reale portata. La cooperazione di polizia in ambito comunitario è sempre stata molto avanzata. In proposito nei  documenti approvati nell'ambito dell'ex terzo Pilastro (quello che era deputato alle problematiche giudiziarie e di polizia) lo scambio di informazioni inerenti le attività di intelligence è sancito in maniera chiara e nei dettagli; tuttavia da un punto di vista pratico la collaborazione produce scarsi risultati, soprattutto per quanto riguarda la lotta al terrorismo. Innanzitutto si deve tener presente che i rapporti fra organismi di polizia di Stati diversi hanno una confidenzialità più formale - ovvero codificata - rispetto a quello che avviene nel contesto nazionale. Conseguentemente  molte  informazioni inerenti la prevenzione dell'eversione, poiché particolarmente sensibili e sfumate, sono scambiate con prudenza finché non siano accertate nella reale portata (e questo comporta una condivisione tardiva). Infatti è rischioso comunicare 'all'esterno' nell'urgenza notizie da verificare, in quanto questo può mettere in moto da parte dei collaterali organismi di Paesi stranieri iniziative di polizia che, se si rivelassero infondate, potrebbero essere fonte di responsabilità anche gravi. Si dice anche che esista una gelosia degli Stati circa le informazioni di polizia di cui dispongono. Questo avviene soprattutto per quelle notizie inerenti indagini in corso che impongono una particolare riservatezza e che potrebbero essere compromesse da una gestione che abbia come conseguenza una qualche forma di  divulgazione. Aggiungo che spesso già all'interno di uno stesso ufficio di polizia nazionale non c'è una generale condivisione di notizie criminis, ovvero non tutti gli appartenenti sono messi al corrente di tutto, non solo per motivi di riservatezza operativa ma anche semplicemente di fiducia personale. Ci sono poi le legislazioni nazionali che possono essere un ostacolo concreto alla cooperazione in questo contesto. Non è di aiuto inoltre la mancanza di una nozione di terrorismo unanimemente condivisa a livello internazionale.  Quindi gli ostacoli a ben vedere, sono 'culturali', non dipendono da una inefficienza  europea, e possono essere superati attraverso una maggiore fiducia reciproca che può essere conseguita solo lavorando insieme. Anche una maggiore omogeneità strutturale e sostanziale fra gli apparati giudiziari e di polizia degli Stati membri sarebbe auspicabile. Ma pure in questo ambito si è fatto molto. Gli stessi problemi vanno superati per l'eventuale costituzione di un organismo centrale di intelligence europeo: è necessario che questo costituendo ente si possa avvalere dei flussi informativi di cui dispongono gli Stati membri, diversamente è destinato a non produrre risultati operativi significativi. Sicuramente Europol è un esempio concreto molto positivo da considerare come modello per meglio strutturare la lotta europea al terrorismo. In conclusione non è sufficiente creare organismi centrali o stabilire obblighi di collaborazione fra gli Stati, ma è necessario un salto culturale, sentirsi poliziotti europei e acquisire quella fiducia reciproca che può nascere solo dal lavoro congiunto (come nei già consolidati 'joint investigation teams') e dalla buona volontà degli Stati membri di superare le divisioni e la  recrudescenza degli egoismi nazionali. Se vogliamo andare avanti sulla strada della cooperazione comunitaria - anche per una valutazione opportunistica conseguente ad una maggiore forza che deriva dall'unione - questa è l'unica via. L'Europa, prima di essere una entità politica, è una realtà culturale. RR 

LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO  - 1. L'ISIS E AL QAEDA (22-3-2016)
Sicuramente lo Stato Islamico, che ha occupato parte dei territori della Siria e dell'Iraq, è un gruppo terroristico che ha grandissime disponibilità economiche grazie alla vendita del petrolio, alla riscossione del pagamento dei sequestri di cittadini occidentali e a un sistema di tassazione interna.  L'appellativo 'Stato islamico' non è pacificamente riconosciuto nel mondo arabo in quanto si contesta che l'Isis sia uno Stato e che sia  riconducibile alla religione musulmana. L'Isis è nato da un gruppo terroristico, Jamat al Tawhid wa-l-Jihad, che autonomamente operava in Iraq e che si affiliò ad Al Qaeda, giurandogli fedeltà e assumendo la denominazione di 'Al Qaeda in Iraq', in applicazione del meccanismo del cosiddetto 'franchising' del terrorismo. Con 'franchising' del terrorismo si  intende il seguente fenomeno: cellule indipendenti, nel porre in essere atti terroristici di matrice integralista, si auto accreditano come emissari di una più grande e affermata organizzazione (nello specifico Al Qaeda). In questo modo i due enti criminali ottengono entrambi un  vantaggio: la cellula terroristica riscuote il prestigio e la visibilità che consegue alla sua affiliazione, mentre l'organizzazione maggiore ha il vantaggio di potersi valere di referenti che gli consentono di operare non solo attraverso la sua struttura centralizzata ma anche mediante pericolose agenzie nelle diverse aree del mondo. Nonostante questa comune origine attualmente i rapporti  dell'Isis con Al Qaeda e con le formazioni che integrano sue filiazioni sono poco chiari e per lo più conflittuali. Infatti, Isis e Al Qaeda, sebbene condividano lo stesso obiettivo ovvero la restaurazione del Califfato islamico che dovrebbe estendersi fino a ricomprendere Paesi africani, europei, mediorientali e asiatici, hanno opposti punti di vista per quanto riguarda le strategie per perseguire questo obiettivo; queste diversità alimentano rivalità che sono degenerate anche in scontri in regioni nelle quali si è sovrapposta la loro sfera di influenza (ad esempio, in Siria). In particolare, Al Qaeda ha sempre ritenuto che dovesse privilegiarsi lo strumento terroristico al fine di ottenere  il progressivo appoggio dei popoli arabi che, oppressi dalla repressione degli Stati occidentali, ribellandosi avrebbero solidarizzato e si sarebbe uniti per la creazione dello Stato Islamico; in altri termini il Califfato avrebbe dovuto essere il punto di approdo di un percorso finalizzato al raggiungimento di un'unità nel mondo islamico. L'Isis (o Stato Islamico, o Is, o Daesh) al contrario valutava prioritaria la creazione di uno Stato - attualmente già costituito - che sarebbe stata seguita da un'espansione territoriale, anche mediante iniziative militari, e da un incremento della popolazione attraverso l'afflusso di fedeli provenienti da altri Stati. Inoltre Al Qaeda ha sempre rivolto le sue attenzioni prioritariamente all'attacco di un nemico esterno, cioè l'occidente, mentre l'Isis ha sempre considerato con particolare ostilità e spietatezza gli altri Paesi Islamici che, con le loro divisioni, minerebbero il progetto di un omologazione dell'universo musulmano secondo i propri dettami: questa differenza è stata uno dei primi motivi di contrasto fra i due gruppi. Oggi Al Qaeda da struttura gerarchizzata si è trasformata in una rete di organizzazioni affiliate. Il cambiamento si è verificato a seguito della morte di Osama Bin Laden, che esercitava un forte potere carismatico sull'intera struttura, e a seguito dei colpi inflitti dalla cosi detta guerra al terrorismo, intrapresa dagli USA e dal Regno Unito insieme ad altri Paesi.  RR 

LA TURCHIA ATTUALE (14-3-2016) 
In questo momento la Turchia è destinataria di un duplice attacco terroristico, sia da parte dello Stato Islamico, sia da parte del PKK, che si  avvale  anche di azioni suicide e che si è concretizzato in una serie di gravissimi e cruenti fatti criminosi. Nello stesso tempo cresce il dissenso interno nei confronti di Erdogan che è dovuto ricorrere a provvedimenti repressivi anche nei confronti della stampa, e che per mantenere il controllo dello Stato ha adottato misure che incidono sulla democrazia e sulla sicurezza. Questa situazione, che ha gravi ricadute sulla vita politica e sociale del Paese, è indicativa di una condizione di crisi del governo che sta lentamente ma progressivamente perdendo  il pieno controllo. Il PKK, che da tre decenni combatte con ogni mezzo per l'autonomia curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile dei fatti criminosi eversivi, che minano - dice il presidente Erdogan - l'integrità, l'unità e la solidarietà del Paese, senza tuttavia incidere sulla sua determinazione nella lotta al terrorismo. Nonostante queste difficoltà interne la Turchia con il suo impegno internazionale nei fronti che si oppongono rispettivamente al governo di Assad in Siria, e allo Stato Islamico, ha l'ambizione di affermarsi come la maggiore potenza regionale nell'area medio orientale, contrastando l'egemonia delle monarchie sunnite. Inoltre il governo di Ankara sta esercitando pressioni sull'Unione Europea sostenendo di essere l'unica barriera che può contrastare i migranti provenienti dal teatro bellico siro-iracheno: oltre alla richiesta di fondi, Ankara sollecita la ripresa dei negoziati sulla sua adesione all’Unione e la stipula di modalità di  soppressione dell’obbligo di visto per accedere allo spazio Schengen. L'istanza turca di rilanciare i negoziati con Bruxelles non sembra avere prospettive positive, perché la Turchia, soprattutto in relazione all'attuale svolta repressiva del dissenso interno e alla scarsa tutela dei diritti di libertà dei propri cittadini, non soddisfa attualmente i criteri per l’adesione. La scarsa esperienza della Turchia in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimenta qualche dubbio sugli eventuali risultati concreti a lungo termine di un accordo fra Unione Europea e Turchia per limitare gli arrivi di migranti attraverso la rotta balcanica: speriamo che ad un'eventuale incapacità della Turchia di fermare i profughi provenienti dalle aree siriana e irachena diretti in Europa, i Paesi dell'Unione non si trovino a dover accogliere anche i profughi turchi e curdi che fuggono dalle conseguenze repressive di una più spinta futura eventuale deriva autoritaria del governo turco. RR 

CONSIDERAZIONI SULLA RELAZIONE ANNUALE DEI SERVIZI DI SICUREZZA (11-2-2016)
Qualche giorno fa è stata presentata in Parlamento la relazione annuale dei Servizi di Sicurezza. Il rapporto, oltre a costituire un resoconto dell'attività svolta nel 2015, consente, in relazione all'analisi degli elementi acquisiti, di formulare lo scenario dell'attuale minaccia nei confronti degli obiettivi sensibili del nostro Paese.  Sicuramente, anche in assenza di specifici riscontri (a parte l'arresto a Campobasso  dell'iman somalo che sembra stesse progettando un evento criminoso a Roma), si sta incrementando il pericolo di attentati analoghi a quelli che hanno già colpito altre capitali europee (Parigi, Londra, Madrid). Oltre all'impegno contro il terrorismo internazionale, alla solida collocazione nel fronte occidentale (sono particolarmente indicative in proposito l'alleanza con gli USA e l'amicizia con Israele), e allo svolgimento del Giubileo (che rafforza l'immagine di Roma come capitale della Cristianità), l'imminente attività dell'Italia in prima linea nella normalizzazione della Libia - ancora da precisare nella sua consistenza e nella sua articolazione operativa - contribuirà  ad un aumento dell'esposizione del nostro Paese, che appare elevata nonostante la professionalità dell'intelligence e il puntuale monitoraggio di possibili centri con presenze jihadiste.  Cresce anche il reclutamento dei foreign fighters, sempre di entità modesta rispetto alla consistenza del fenomeno in altri Stati europei; in Italia i foreign fighters si stimano in poco più di un centinaio di elementi - prevalentemente si tratta di immigrati o di figli di immigrati - mentre quelli presenti in Siria e in Iraq sono oltre 3 mila, metà dei quali provenienti dalla Francia, e poi dal Regno Unito, dalla Germania, dall'Olanda e dal Belgio. Il fenomeno consiste soprattutto  nell'auto reclutamento di giovanissimi e si realizza attraverso un processo di radicalizzazione che si consuma in tempi rapidi e generalmente all'infuori della propria famiglia. La libera circolazione in area Schengen può facilitare il loro eventuale spostamento da un Paese europeo all'altro, o il loro rientro da scenari di guerra in Medio Oriente (si tratta dei così detti 'returnees' o 'commuters'): la collaborazione informativa internazionale fra gli apparati di sicurezza assume in questo ambito un'importanza preventiva decisiva. Pertanto la minaccia terroristica proviene non solo da noti gruppi strutturati come Al Qaeda o l'Isis, ma anche da individui isolati che possono improvvisamente e inaspettatamente attivarsi verso bersagli locali, di più basso profilo e pertanto meno prevedibili, sono i così detti 'soft target'. Anche se il rischio di  infiltrazioni terroristiche nei flussi migratori non ha trovato specifici riscontri, la rotta balcanica, particolarmente affollata dal transito anche bidirezionale di profughi provenienti dall'area siro-irachena, appare un contesto territoriale particolarmente vulnerabile e quindi da monitorare attentamente. La Libia, così divisa e politicamente incerta, è un focolaio nel quale iniziative ostili e traffici illeciti possono essere concepiti e organizzati con facilità. Per questo appare decisiva la presenza sul territorio libico di unità italiane innanzitutto con funzioni informative, non solo nell'ottica di favorire una stabilizzazione regionale, ma soprattutto al fine di prevenire la progettazione o l'attuazione di iniziative criminose nei confronti della nostra sicurezza. Deve essere attentamente valutata nella regione libica la presenza particolarmente attiva non solo dell'Isis, ma anche di Al Qaeda nel Maghreb, e Ansar Al Shariah, che utilizzano quest'area per condurre attività di rifornimento logistico (considerata la larga disponibilità 'in loco' di armi, uomini, mezzi), di addestramento di combattenti, di miglioramento delle proprie capacità operative ed offensive. Purtroppo anche l'analisi dei Servizi di Sicurezza conferma che il terrorismo è la nuova forma di guerra, particolarmente incisiva e inquietante anche per l'assenza di una localizzazione e per il carattere indefinito del nemico. Evidentemente anche i conflitti bellici del nostro tempo sono  riflessi della globalizzazione e della modernità 'liquida' (intesa come assenza di riferimenti oggettivi) applicata alla  nuova geopolitica. RR 

L'INFORMAZIONE TELEVISIVA NEL MONDO ARABO (10-3-2016)
Alla luce delle continue evoluzioni del contesto mediorientale - sempre più il principale fulcro delle vicende geopolitiche - può essere interessante una ricognizione sulle politiche dell'informazione televisiva nel mondo arabo in relazione alle attività di censura che limitano l'espressione del libero pensiero che caratterizzano questi Paesi (e di cui si è già detto a proposito della satira). Già dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’attività giornalistica si sviluppò anche nei Paesi arabi; la mancanza di democrazia e il carattere confessionale della maggior parte di quegli Stati impedì tuttavia l’affermarsi di una piena libertà di stampa. In proposito, nel mondo arabo l'informazione è sempre stata non solo filogovernativa, ovvero controllata dai rispettivi regimi, ma anche panaraba, cioè finalizzata a garantire e a sottolineare una omogeneità di vedute fra le nazioni di cultura araba (un'omogeneità più apparente che reale - si dice che gli arabi siano d'accordo solo nel non essere d'accordo). Le divisioni che hanno sempre caratterizzato i rapporti fra queste nazioni infatti sono sempre rimaste in un secondo piano rispetto all'enfatizzazione dei valori comuni dell'Islam. Fino agli accordi di Camp David (1978) il monopolio radiotelevisivo in Medio Oriente era nelle mani dell'Egitto. L'accordo dell'Egitto con Israele e la conseguente rottura con la Lega Araba posero fine a questa egemonia, che venne subito sostituita da quella dei 'media' dell'emergente potenza saudita, caratterizzati da una modesta professionalità e condizionati dal rigore religioso della visione islamica wahabita; questi 'media' tuttavia godevano della grande disponibilità economica che proveniva dal commercio del petrolio. Con la guerra del Golfo (1990/1991) per la prima volta sui canali satellitari delle televisioni arabe comparve un'informazione globalizzata, ovvero quella garantita dalla CNN e dai 'media' americani ed europei. Questo nuovo modo di fare informazione, sebbene sbilanciato verso una prospettiva occidentale, determinò il tramonto dei canali egiziani e sauditi, dei quali furono evidenti i limiti. Il modo di fare giornalismo delle Reti occidentali ispirò la nascita del canale satellitare del Qatar Al Jazeera, che si auto accreditava come la 'voce libera del mondo arabo', e che aveva l'ambizione di applicare all'informazione araba i canoni occidentali, sia dal punto di vista organizzativo ed editoriale, sia nell’impaginazione e presentazione dei servizi, sia nel coinvolgimento di tutte le parti in causa in una questione al fine di realizzare un libero dibattito. L’emittente televisiva Al Jazeera fu voluta, creata e finanziata dall’Emiro sunnita del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani con l’intento di modernizzare ed elevare il suo Stato, irrilevante da un punto di vista politico, a principale centro culturale della regione del Golfo. L’emittente fu lanciata nel 1996 in lingua araba, mentre dal 2005 trasmette anche in lingua inglese. L’Arabia Saudita, da sempre ostile ad Al Jazeera, - che, stabilendo un contatto con le masse e dando spazio alle voci 'zittite' dalla censura politica, era giudicata dal resto del mondo arabo pericolosa ed estremista - ha cercato di farle concorrenza strutturando Al Arabiya, una televisione di lingua araba, imitando i format e l’impostazione di Al Jazeera senza tuttavia riscuotere particolare successo. Il Qatar attraverso Al Jazeera ha sostenuto (non solo mediaticamente ma anche finanziariamente) tutte le Primavere arabe (si è mostrata tuttavia prudente nei confronti delle controverse vicende del Bahrein sostenendo la 'normalizzazione' saudita - il Bahrein è infatti un Paese a maggioranza sciita governato da una monarchia sunnita). Con la rivoluzione operata da Al Jazeera il sistema mediatico arabo si è liberato dagli stereotipi, dalle convenzioni e dai localismi, cambiando il ruolo dei giornalisti emancipandoli dalle limitazioni del panarabismo. Naturalmente la libertà dell'emittente non giunge fino alla critica della linea politica e delle vicende personali dell'Emiro del Qatar e della sua famiglia. Ma la libertà nei confronti del potere non è piena, nonostante le apparenze, nemmeno in occidente. In fondo, sarcasticamente, si può osservare che anche lì la piena libertà di informazione di fatto è garantita solo a chi possiede i mezzi di informazione. RR 

LE RECENTI ELEZIONI IN IRAN (3-3-2016) 
Recentemente si sono svolte in Iran le elezioni per il rinnovo del Parlamento e dell'Assemblea degli Esperti. Per comprendere il risultato delle elezioni è necessario innanzitutto precisare la rilevanza dei due organi nella complessa architettura 'a doppio binario' della Repubblica Islamica. Ai vertici del regime, come strutturato a seguito della rivoluzione del 1979, c'è una diarchia ad impronta teocratica che comporta una stretta relazione fra Stato e istituzione religiosa. Questo assetto istituzionale ha come corollario una grande influenza dell'organizzazione confessionale sciita sull'apparato amministrativo e di governo. La teocrazia in tutte le sue possibili varianti, oltre ad essere  una forma di governo, è anche un sistema culturale in quanto è caratterizzata dall'influenza della visione etica dell'elemento religioso nel tessuto sociale, condizionandone i linguaggi, le abitudini, le pratiche quotidiane. La Guida Suprema dello Stato iraniano è la massima autorità religiosa;  sovrintende alla designazione delle più alte cariche, oltre ad essere anche il comandante delle forze armate. Il vertice del potere esecutivo è invece il Presidente,  che è una carica 'civile' in quanto è eletto dal popolo (ha un mandato di 4 anni che consecutivamente può essere rinnovato una sola volta): oltre a nominare i Ministri e a presiedere il Governo, decide le leggi e le iniziative da sottoporre all'approvazione del Parlamento. Attualmente la Guida Suprema è l'ayatollah Khamenei, espressione di uno spirito conservatore teocratico e reale freno al progresso, mentre il Presidente è Rouhani, animato da una volontà riformista e di apertura verso l'occidente. L'Islam, che presiede lo Stato islamico attraverso l'applicazione della Sharia - al punto che il costituzionalismo di fatto non esprime, come nella tradizione occidentale, la separazione dei poteri, ma la fedeltà ai principi divini -  introduce un'istanza statica in quanto la legge divina è immutabile e non dipende dalle contingenti vicende umane. Al contrario la politica imprime un carattere dinamico alle vicende della società iraniana, attraverso il potenziale potere di cambiare che esprimono i cittadini mediante le opzioni elettorali. Pertanto il rapporto fra Islam e politica nel sistema iraniano è dialettico, al contrario della coincidenza 'statica' fra i due termini che si riscontra normalmente nei regimi islamici teocratici, generalmente di confessione sunnita. Si realizza così in Iran una difficile sintesi fra modernità e tradizione. L'ex presidente dell'Iran, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, così ha espresso questa realtà: "Quando mai nella storia dell’Islam si è visto un parlamento, un presidente, un ministro e un governo?  In realtà l’80% di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell’Islam". Le recenti elezioni hanno riguardato l'Assemblea degli esperti e il Parlamento. L'Assemblea degli Esperti è composta da 86 giuristi e accademici islamici eletti ogni otto anni con suffragio universale; ha l'importante potere di indicare ed eventualmente esautorare la Guida Suprema. Il Parlamento è composto da 290 deputati ed esercita principalmente il potere legislativo. Le elezioni hanno confermato un brillante successo dei riformatori e dei moderati. Pertanto di fatto è stata premiata la linea riformista che il Presidente Rouhani, non senza difficoltà, ha portato avanti fin dall'inizio, seppur con cautela, con progressiva decisione, e che si è concretizzata in una manifesta volontà di apertura verso l'occidente e nel noto accordo per l'impiego dell'energia nucleare per scopi civili. La conferma delle scelte del leader Rouhani apre prospettive importanti per l'occidente, in quanto l'Iran, con il suo impegno contro il fondamentalismo sunnita - che ha la sua punta avanzata nell'Isis - sempre più appare come quel partner affidabile nel mondo islamico di cui l'occidente ha un bisogno essenziale. L'Iran come passo ulteriore dovrebbe rimuovere la sua inattuale ostilità nei confronti di Israele. Forse arriverà anche a questo, ma sarà un cammino difficile, perché le scelte di opportunità politica del potere centrale dovranno contrapporsi e  superare l'istintivo radicalismo che sulla questione manifesta la base popolare. RR 

LA SATIRA NEL MONDO ARABO (27-2-2016) 
La satira nell'antichità classica era un genere letterario utilizzato per deridere personaggi o vizi pubblici. Mantenendo la natura di strumento per sottolineare con intento critico e ironia particolari aspetti della realtà umana, oggi la satira non utilizza solo la forma letteraria, ma si avvale anche di altri mezzi espressivi, in particolare si utilizzano molto le vignette, i disegni, le opere multimediali. A prima vista potrebbe  sembrare che la satira non sia compatibile con il mondo arabo, considerate le forti limitazioni alla libertà di espressione che lo caratterizzano. In realtà, sebbene entro margini definiti, l'arma del ridicolo è moderatamente utilizzata - o meglio variamente tollerata - anche nei contesti islamici. Naturalmente non incontra problemi la satira che ridicolizza e deride l'infedele occidente. In generale, la religione e il regime al potere nel proprio Paese   restano argomenti su cui è meglio non scherzare; eventuali trasgressioni possono costare la vita. Spesso la satira ha come obiettivo lo Stato Islamico: vengono rappresentati militanti che non sanno usare le armi, combattenti confusi su cosa è concesso fare e cosa no, kamikaze che litigano su chi deve farsi saltare in aria per primo. Alcuni esempi. L'emittente irachena Al Iraqyia trasmette una serie di cartoni animati nei quali sono protagonisti maldestri combattenti dell'Isis; in un episodio si vede un militante dello Stato Islamico che non sa bene come usare un mortaio e, invece di dirigerlo contro un posto di blocco, spara su un piede del suo capo. In una puntata del Ktir Salbe Show, un telefilm comico in onda su un'emittente privata libanese, un jihadista prende un taxi: l'estremista non vuole ascoltare la musica perché secondo lui non sarebbe consentito dalla religione in quanto nell'interpretazione letterale del Corano non è prevista la radio; per lo stesso motivo non tollera l'aria condizionata che il tassista vorrebbe accendere. Successivamente il jihadista critica l'autista perché usa il cellulare; il tassista seccato, dopo avergli chiesto se i taxi ci fossero nell'antichità, caccia il fondamentalista dall'auto e gli dice di aspettare che passi un cammello.  Un'emittente palestinese, Al Falastiniya, mostra invece un sketch con amaro humour: un cristiano si imbatte in due militanti islamici che si mettono a litigare su chi deve ucciderlo al fine di  ottenere 'favori celesti'. Nel frattempo il cristiano muore per un attacco di cuore nella delusione e nello stupore degli islamisti. L'obiettivo di queste forme di satira è quello di delegittimare l'Isis, nel quale verrebbe travisato il vero Islam.  La tolleranza della satira cambia da Paese a Paese. Il Libano è sicuramente il Paese più 'liberale', pur restando la religione un argomento severamente vietato. Le monarchie wahabite del Golfo non sono molto predisposte allo humour, né tolleranti nei confronti della critica. L'ironia praticata da qualche giovane attivista sugli usi del Paese è molto cauta e prudente: un caso è il piacevole video, attualmente visibile su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=aZMbTFNp4wI), realizzato da due sauditi che, scherzando con molto garbo sul divieto delle donne di guidare l'auto, hanno  reinterpretato il classico di Bob Marley 'No Woman, No Cry', modificandone il titolo in 'No Woman, No Drive', stravolgendone il testo e adeguandolo al tema del titolo. Il Pakistan, diversamente da quello che si possa pensare, è un Paese aperto alla satira. Le vignette pubblicate  anche da quotidiani nazionali e alcuni programmi televisivi ridicolizzano personaggi pubblici, anche politici, ma mai i leader religiosi o i vertici delle forze armate. Ovviamente anche qui la blasfemia contro Maometto è punita con la morte e l'umorismo non può riguardare argomenti religiosi. Il regime siriano ha sempre punito duramente le forme di dissenso politico, comprese quelle mediante la satira. Emblematico il caso del famoso vignettista Ali Farzat, costretto oggi all'esilio e in passato catturato e picchiato duramente per aver disegnato vignette che alludevano alla caduta di Bashar Al Assad. Attualmente, l'unica satira tollerata - anzi incoraggiata dal regime - è quella contro lo Stato Islamico.  In Egitto, che ha una lunga e brillante tradizione in materia, la satira politica è praticata, ma gli autori incontrano non di rado difficoltà e problemi, subendo sanzioni e arresti, spesso motivati con la pretestuosa accusa di aver offeso l'Islam (che tuttavia nasconde la paura non dichiarata che queste rappresentazioni attentino alla sicurezza nazionale). Molto divertente è il sito egiziano Al Koshary Today che riporta notizie false ironizzando sulle realtà del mondo arabo, anche quelle politiche, ma mai su quelle religiose; alcuni esempi di notizie - ovviamente false - diffuse dal sito sono quella relativa alla creazione di un'associazione di consumatori egiziani che garantirebbe un risarcimento economico nel caso in cui si scopra che la propria moglie non fosse vergine al momento delle nozze,  o quella che afferma che finalmente l’Arabia Saudita permetterà alle donne di guidare le biciclette. In Turchia, le riviste satirico-umoristiche hanno una lunga tradizione e costituiscono uno strumento per cogliere il clima sociale e politico del Paese. In proposito attualmente dal leader Erdogan è mal tollerato il dissenso; conseguentemente le vignette che lo raffigurano in termini critici spesso sono causa di contenziosi giudiziari e di forme di censura. Nella letteratura persiana classica (ne sono esempi i testi Navader e Resaleh ye Delgosha elaborati rispettivamente nel quarto e nell'ottavo secolo, e le poesie di Hafez e Rumi, del XIV e del XIIV secolo) sono presenti testi che contengono una trattazione satirica di concetti teologici; tuttavia attualmente la satira politica e religiosa è scarsamente tollerata, come dimostrano l'epilogo giudiziario con una  dura condanna della vignettista Atena Farghadani  e il caso della giornalista Elham Foroutan che rischia la pena capitale per un articolo nel quale la rivoluzione islamica è stata paragonata al virus dell'Aids. Lo scorso anno a Teheran è stata organizzata da Irancartoon una rassegna satirica dedicata allo Stato islamico e al terrorismo internazionale. La Rassegna non aveva solo motivazioni politiche, in quanto l'Iran sostiene l'esercito iracheno contro le milizie di Al Baghdadi,  ma anche giustificazioni religiose in quanto la Repubblica Islamica sciita si oppone al Califfato sunnita. Mi viene in mente una paradossale affermazione di Nietsche: Non in un crepuscolo svanirono gli dei...ma morirono a forza di ridere. RR 

IL CASO 'REGENI' DOPO UN MESE (26-2-2016) 
Dopo un mese si continua a discutere sul caso 'Regeni'. Sicuramente sono molto lodevoli le ferme rimostranze e le insistenti pressioni del Ministro Gentiloni nei confronti del Governo egiziano affinché si faccia piena luce sull'omicidio e siano assicurati alla giustizia i responsabili; tuttavia è improbabile che si giunga a qualche risultato apprezzabile. Anche qualora le autorità egiziane avessero  chiarito o stiano chiarendo nel loro ambito interno questa vicenda che probabilmente si è consumata in una sfera di influenza degli apparati di sicurezza egiziani, gli eventuali risultati difficilmente saranno esternati in quanto questo equivarrebbe ad una implicita ammissione di colpa del regime - almeno sotto il profilo oggettivo - e al riconoscimento che gli apparati istituzionali, soprattutto i più delicati, non sono  sotto il controllo dei poteri centrali. Nonostante la forte impronta autoritaria, il regime egiziano è significativamente indebolito dall'ostilità dei Fratelli Mussulmani, che - messi frettolosamente (e inopportunamente) al bando all'indomani della deposizione di  Mohammed Morsi ritenuto colpevole di aver tentato una forte islamizzazione del Paese - rappresentano una componente molto influente che pur nella clandestinità non ha ridotto le proprie  infiltrazioni all'interno di tutte le fasce sociali, il proprio peso nella società civile, la radicata presenza nelle istituzioni pubbliche e private. Oltre alla pericolosità intrinseca dell'oggetto delle sue ricerche, ovvero la raccolta di informazioni sulla realtà dei sindacati egiziani, non si può escludere che Giulio Regeni fosse approdato a conoscenze molto sensibili che lo avrebbero esposto a particolari rischi. Si discute anche di eventuali responsabilità del mondo accademico, che avrebbe spinto Giulio Regeni a rendere particolarmente incisive le sue iniziative. Il contributo in termini di dati e di analisi che, nella conoscenza delle realtà geopolitiche, viene fornito dagli enti accademici e da istituti privati è di grande importanza, ed è purtroppo fisiologico che le ricerche in piena autonomia compiute sul campo - ovvero quelle svolte risiedendo in Stati particolarmente instabili, o nei quali non vi è sufficiente rispetto dei diritti individuali di libertà - possano compromettere la sicurezza dei ricercatori che si dedichino ad esse. Lo stesso avviene per l'attività giornalistica all'estero. A tale riguardo l'unica possibilità per ridurre questi rischi, non del tutto eliminabili, è quella di operare 'sotto l'ombrello protettivo' del proprio Paese. In proposito, gli uffici diplomatici all'estero - Ambasciate e Consolati - hanno strutture complesse e contatti con le autorità locali che possono in qualche modo garantire al ricercatore di operare in condizioni di fatto di maggiore sicurezza. Sarebbe buona prassi che chiunque per motivi professionali si trovi in uno Stato straniero con funzioni delicate e/o che comportino contatti con le maestranze locali, almeno informi della sua presenza le autorità diplomatiche. Tuttavia non sempre questo è possibile e, nel caso della ricerca scientifica, il ricercatore potrebbe temere che questa informativa limiti la sua libertà o comprometta la riservatezza del suo lavoro. L'ufficio diplomatico all'estero è un centro di riferimento globale, anche per la propria sicurezza, ma questa consapevolezza molto forte per i cittadini di altri Paesi europei che, sentendo un forte legame nazionale quando si trovano ad operare all'estero, considerano realmente gli uffici consolari appendici del proprio Stato, è meno avvertita dagli italiani (si tratta di una convinzione personale sebbene suffragata da esperienze professionali). Purtroppo, per minimizzare il rischio di chi si trovi ad operare all'estero in realtà che possono minacciare la propria incolumità, non sembrano esserci in concreto altre possibilità. RR  

Atelier della parola, dalla solitudine al legame sociale di Silvana Leali
Premessa
Trentotto anni di lavoro, presso un Servizio pubblico infantile, mi hanno permesso di osservare come un intervento di diagnosi precoce modifichi la domanda di accesso degli utenti ai servizi. La risposta dei servizi è il risultato:
·         di un processo storico e culturale,
·         di una pluralità di soggetti,
·         di formazione di metodi,
·         di rete,
·         di  comunità che attualmente si rispecchia nel modello bio-psico-sociale.
I servizi offrono una molteplicità di tecniche riabilitative ma - tra le teorie e il fare - gli eventi, nel lavoro istituzionale, funzionano diversamente: tra l’asse centrale della cura, basata sul sapere scientifico, vi è la pratica del terapista che deve rispondere ai protocolli organizzativi, all’urgenza, all’emergenza, alla caduta di ideali e alla propria soggettività. Un mio desiderio: testimoniare una personale esperienza non come una esperta, ma come una interrogante o meglio una cantastorie che ha raccolto - nella rete del linguaggio - i discorsi dei bambini. L’orientamento scelto non è quello immediato della risposta, ma è l’intento dell’operatrice di divenire una partner di ascolto: di un ascolto non qualunque, di un ascolto particolare secondo l’orientamento della psicanalisi di Freud e di Lacan. Un’esperienza nata per caso in un gruppo di bambini e preadolescenti;  luogo nel quale l’esperienza è maturata: il Centro Baobab, del quale riferirò, in seguito, alcune caratteristiche.
Breve parentesi sul linguaggio
Linguaggio è una funzione adattiva caratteristica e specifica dell’uomo che si sviluppa in un arco breve della vita,  richiede:
·         competenze comunicative
·         capacità funzionali (prassie e gnosie)
·         produzione linguistica (aspetti formali e funzionali )
·         comprensione linguistica.
Ma,  "…affinché un bambino entri in questo mondo linguistico, bisogna che sia esposto a una lingua che qualcuno parli con lui e acceda in lui il desiderio di comunicare …" (Sabbadini, De Cagno, Vaquer, Michelazzo - 2000). Vorrei riportare, a partire dal concetto di  desiderio,  due celebri aforismi di J. Lacan: "Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro" - "L’inconscio è il discorso dell’Altro"
Che cosa significano i due aforismi?
·         I due aforismi indicano verità di cui servirsi, nei vari percorsi terapeutici, per la cura del linguaggio? 
·         Quale utilità operativa si può ricavare dalle lezioni freudiana e lacaniana sul linguaggio?  
Presenterò, come ho già accennato e  come risposta alle parole di Lacan, l’esperienza di un  atelier di parola
Apro alcune questioni sulle quali interrogarci:
·         Psicanalisi e neuroscienze alleate o antagoniste?  
·         Cosa accadrebbe se la psicanalisi trovasse conferma nelle neuroscienze?
·         Nel modello bio-psico-sociale: plasticità neuronale, traccia psichica e sinaptica, rete neuronale e inconscio possono diventare elementi  non antagonisti ma alleati?
Freud, come afasiologo e neurologo, ha sempre cercato di scoprire i fondamenti della Sua base teorica. Nel 1920 (in Al di là del principio di piacere, p. 243)  scriveva che, "...probabilmente, le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia o della chimica. La biologia è davvero un campo dalle possibilità illimitate dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni, non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto …". La scoperta dei neuroni a specchio (mirror-neurons - avvenuta agli inizi degli anni novanta all’Istituto di fisiologia di Parma - ha permesso di  comprendere i fenomeni: 
·         dell’ identificazione,
·         della teoria della mente,
·         dell’ empatia,
·         della comprensione di stati mentali altrui,
·         dell’ autismo.
Le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività (Gallese, Paolo Migone e Morris Eagle) aprono connessioni possibili con la psicanalisi. Recenti autori come F. Ansermet (medico psichiatra infantile, psicanalista) e P. Magistretti (neuroscienziato) scrivono: "La plasticità partecipa all’emergere dalla individualità del soggetto …Ogni esperienza è unica, il fenomeno della plasticità non è un fenomeno esclusivamente psichico, esso coinvolge anche il corpo …". Tali autori propongono l’ipotesi di un modello d’inconscio che integri i dati della neurobiologia con i principi fondanti della psicanalisi  (A ciascuno il suo cervello, plasticità neuronale e inconscio, Bollati Boringhieri, 2008).
Come ultimo frammento, infine, si possono  ricordare i lavori :
·         sulla immagine speculare, nella ricerca storico-psicanalitica di J. Lacan, 
·         sullo stadio dello specchio,
·         sugli schemi ottici ed i fenomeni che si stratificano nell’inconscio (J. Lacan,  Fabrizio Palombi, Carrocci, 2008).
Diagnosi e riabilitazione: un compito impossibile ?
Diagnosi è un termine di origine greca, deriva da dia - per mezzo e gnosis - cognizione, conoscere; per il vocabolario di psicologia di Galimberti significa: riconoscimento. L’aspettativa - degli utenti e degli operatori - dei servizi, nei confronti della diagnosi, è quella che sia oggettiva, ma può accadere di dover maneggiare diagnosi con alcuni costrutti teorici  (diagnosi medica, psichiatrica, neuropsicologica, funzionale, sociale,…). Per questi motivi uno degli scopi del sistema ICF è quello di migliorare la comunicazione tra gli operatori in un linguaggio comune e condivisibile. La diagnosi, se non è solo un’applicazione di codici o etichette, può essere l’incontro di saperi professionali diversi? Riabilitazione - con le sue pratiche terapeutiche ben delimitate, con l’attenzione alla persona e al sistema familiare/sociale nell’incontro con il corpo reale - può essere:       riparabile  o  non riparabile.  L’irrompere della verità,  nella relazione di cura,   può essere una  risorsa possibile.
Atelier
E’ un termine francese che indica: opificio, laboratorio, studio di pittura, incisione.
·         Può diventare, in laboratorio, un’esperienza di tecniche preliminari alla parola del bambino?
·         Può diventare una raccolta di utili dati sul territorio, nella scuola, nei servizi ?
·         Può dar vita ad una pratica a piu voci (pratique à plusieurs definizione data da J.Miller in Italia)? Una pratica da anni già sperimentata con successo da una mia carissima amica.
Tecnica
E’ un termine che deriva dal greco (techné), indica: arte (collegato alla poiesis, ovvero produzione artistica). Significa anche: tessere, stendere la tela, fare testo. Nell’ideogramma della  lingua cinese tek significa: processo; origina dagli ideogrammi: crocevia, cammino, strada, comunicazione.
Che cosa si incide in un atelier ?
Che cosa - tra bambini disturbati,chiusi in se stessi in una solitudine onnipotente - lascia traccia nell’incontro con un Altro?
Il movimento può incidere una traccia grafica e lasciare, nel bambino, un segno che preceda la parola?
L’atelier è, contemporaneamente, un dispositivo:
·         di gioco,
·         di narrazione,
·         di possibili terapie utilizzando anche lo psicodramma,
·         può rappresentare un ritaglio istituzionale che comprende una pluralità di pratiche che, in questi anni, si sono svolte sotto diverse forme nel territorio ternano: sportelli di ascolto per adolescenti nelle scuole medie; atelier 'Panna e Cioccolato' per disabili cognitivi del Centro 'Il Faro'; gruppi di formazione per genitori, insegnanti e operatori nell’ambito dello psicodramma analitico anche per bambini. L’atelier può rappresentare anche un children-triaing,  termine coniato per indicare un gruppo di lavoro con adolescenti (il nostro gruppo è condotto dalla dott. Allegretti).
Origine (nascita) dell’ Atelier della Parola
L’ Atelier nasce dal desiderio di un incontro possibile tra psicanalisi e riabilitazione. I discorsi dei bambini, con i loro disordini comunicativi e fonologici, indicano delle tracce minori (diciamo minori, ma non lo sono) di riabilitazione che trovano conferma nel modello bio-psico-sociale. La posizione dell’operatore non è quella di esperto ma ha, principalmente, il compito di privilegiare l’ascolto, non un ascolto qualunque: un ascolto orientato alla raccolta di significanti (secondo la semantica lacaniana); un ascolto orientato all’attenzione; orientato alla ricerca non dell’errore ma delle dissonanze; un ascolto orientato alle fratture e discrepanze del discorso del Soggetto.  Soggetto che non è la persona (intesa come maschera, o ruolo …) ma è un soggetto che emerge dal discorso ed emerge attraverso il sintomo, esprimendo una domanda.
Centro Baobab
ll Centro Baobab, è un contesto semiresidenziale collocato all’interno della S.C. di Neuropsichiatria Infantile della Asl n.4 di Terni; è uno spazio operativo di accoglienza di bambini e preadolescenti con problemi psicopatologici, disturbi dello sviluppo, problemi comportamentali, gravi disturbi dell’attenzione, della comunicazione e dell’apprendimento; è una casa pomeridiana dove il bambino compie insieme ad altri attività quotidiane: artistiche, ricreative, di studio, uscite esterne, preparazione dei pasti e delle merende (anche il cibo può diventare una condivisione e un legame con gli altri). Bambini e preadolescenti, in tali varie attività della vita quotidiana, possono incontrare dei momenti di difficoltà in cui esprimono la loro solitudine, la rabbia, la fatica ad aprirsi a varie forme di legami sociali. La  partenza è avvenuta per caso (diciamo per 'irruzione'), non è stata programmata a tavolino: è arrivata di corsa e dai bambini stessi, è stato un inizio breve e fugace. La partenza è accaduta (penso all’accaduto psichico di cui parla Freud) nella palestra adiacente al Baobab: il Baobab è un luogo che - per motivi organizzativi - è proibito e, perciò, fortemente desiderato. Nonostante ci fossero altre stanze, per la legge dell’attrazione, bambini e preadolescenti erano incuriositi dalla palestra e, un giorno, hanno fatto irruzione.
La palestra
Una stanza ampia, luminosa, ricca di specchi, tappeti, un pianoforte bianco e numerosi attrezzi ginnici colorati: ogni mercoledì seguivo due gruppi con un intervallo di quaranta minuti tra un gruppo e l’altro. Nell’intervallo, nel parco, avevo già corso con gli ospiti del Centro la cui età variava dai cinque anni ai sedici anni. Dal  diario della cartella clinica colgo i seguenti elementi: "…bambini e preadolescenti arrivano uno alla volta timidamente, oppure tutti insieme irrompono di scatto e iniziano a toccare tutto, passano da un gioco all’altro, non sanno usare gli strumenti, aprono le scatole, perdono i campanelli degli strumenti musicali, disfanno  l'ordine  della  stanza. Sono contenti, ma possono fermarsi? Possono sostare?…"
Il posto
La questione di trovare un posto, anche se limitato, sembra essere importante. Il posto scelto è una palestra, un luogo regolato da una Legge. La palestra non è una risposta immediata, ma dovrà essere contrattata (quanto, come, quando?) …I bambini potranno venire e giocare, ma avranno soltanto un tempo di quaranta minuti. Avere un luogo e un posto - scelti dai bambini - è un passaggio centrale,  ma tra luogo e posto " vi è una profonda differenza …", come ci ha fatto notare Miller.
I bambini, nelle trame riabilitative-educative, si muovono in vari luoghi: scuola, servizi, ecc. I luoghi che incontrano sono molteplici e legati alla cultura, al linguaggio, all’ordine simbolico…Il posto, invece, è quello scelto dal soggetto e legato a  una classificazione dove l’Altro non parla al posto del bambino. Il posto limita l’eccesso di godimento ed è un limite all'angoscia persecutoria. Il godimento, per Lacan, non è il piacere ma è una istanza negativa: è una nozione complessa che rimanda al linguaggio. Lacan afferma che solo se si perde un po’ di godimento si entra nel linguaggio. Il desiderio viene dall’Altro, mentre il godimento viene dalla Cosa (Das Ding). (N.B - Lacan afferma che il desiderio inconscio ruota attorno ad un vuoto di senso: Freud lo chiama Das Ding - Lacan lo chiama la Cosa). Freud ('Progetto di una psicologia') designa la Cosa come un apparato psichico, una configurazione di neuroni investita dal ricordo dell’oggetto: l’oggetto di soddisfacimento. Il rapporto tra percezione e oggetto è rilevante nell’osservazione dei comportamenti infantili. "La questione del posto è fondamentale, solo se un bambino trova un posto in un Altro-regolato, che non gli si impone  e  non sa per lui, ma lo sostiene in modo rigoroso nella sua posizione soggettiva, è possibile un ancoraggio" (Martine Egge).
Il tempo
Un posto preliminare alla parola ed un tempo : un tempo per guardare, capire, concludere. “Il tempo della cura non è un tempo lineare e cronologico, ma è un tempo intersoggettivo” (Lacan). Il posto occupato dai bambini del Baobab è stata la palestra: un posto in cui buttarsi a capofitto sugli oggetti, sui tappetini, sulle palle grandi e rotonde, affamati di stimoli e desiderosi di produrre caos, rumori  e suoni. Muoversi e produrre suoni è importante, perché la voce si genera dal corpo in movimento e, inoltre, non è una voce “educata”: è una voce rumorosa, esplosiva o soltanto sussurrata, impercettibile. Una voce che nasce, come indicano le esperienze teatrali e vocali di Anna Maria Civico, da un  corpo reso strumento, se attivato da opportune e adeguate pratiche. Ma prima di essere un corpo strumento, per quei bambini, il corpo era una macchina da  riparare:
·         un corpo attraversato dal linguaggio degli altri e fragile (morbido, rilassato) o rigido, assente,  piegato  nel proprio isolamento;
·         oppure  era un corpo pulsionale,  agitato, iperattivo  e  senza  limite. 
Bambini e preadolescenti, per diversi incontri-scontri, hanno riempito l’ordine della palestra con schemi di rottura: un farsi  e disfarsi  di un linguaggio non ancorato a un discorso, fatto di agiti, passaggi all’atto…Ma chi sono i  protagonisti di questa storia?
I  protagonisti
Presenterò alcuni protagonisti attraverso le parole ascoltate lungo i corridoi dei servizi, ascoltate in fretta e orientate sul mito di un romanzo-familiare, non misurabile e confermato dai dati delle cartelle cliniche…Perché, come ha sottolineato Miriam De Bernart (stupenda piscodrammatista): "Il bambino, come  effetto significante del discorso, non è il bambino reale e, perciò, può assumere una funzione metaforica o metonimica  ed occupare la posizione di oggetto nei fantasmi dell’altro familiare …".
·         Nofè,  un bambino africano di anni 8, con diagnosi di disturbo autistico, dimostra fisicamente dodici anni per peso e altezza; figlio di genitori separati, padre musicista e una madre che lo lava, lo profuma e lo accudisce come un bebè.
·         Prato fiorito, un bambino di 5 anni, assolutista e dispotico che presenta estrema povertà linguistica.       
·         Andrej,  un bambino di 12 anni, diagnosticato dislessico; vive con il padre e la nonna materna con problemi psichiatrici (disturbi dell’umore) sembra che possieda (la nonna) grandi capacità d’osservatrice e analitiche.
·         Titti-calze-lunghe, una bambina di 9 anni, iperattiva, dislessica, ritenuta da più persone “carismatica”, piena d’iniziative che - nei suoi tratti - ricorda il personaggio di Viola  (Calvino, Il Barone Rampante).
·         Lolli, un bambino di 10 anni, è un bravissimo attore, riesce anche a cambiare la sua voce (potrebbe fare il doppiatore).
·         Emma, una ragazza straniera di 17 anni, presenta  un ritardo lieve, già convivente con un coetaneo.
Dal caos al Tribunale della Libertà
L’impressione era  di assistere a una scarica motoria collettiva, fatta di slanci, urla incontrollate, energiche battaglie difficilmente riconducibili alla regola del far finta: porte che si aprivano e si chiudevano all’entrata di altri ospiti del Baobab, non invitati agli incontri. Tu sì e tu no era la parola d’ordine, ma l’entrata di un nuovo arrivato generava un altro crollo (il caos!). Il nuovo arrivato era una minaccia: ritornavano i terremoti, le sabbie mobili, le onde pericolose. Per difendersi da questi attacchi violenti i cuscini diventavano barche…Ma entrava l’acqua e le scialuppe erano fragili, non tutti si salvavano. Nofè restava fuori dai cuscini ad ondeggiare con il grosso corpo sulla palla e si rifletteva nello specchio; Prato Fiorito si chiudeva le orecchie mentre si accendevano e si spegnevano le luci e le tapparelle si alzavano e si abbassavano; Emma si metteva nel posto dell’autorità mancante: sgridava, urlava silenzio e cercava di rincorrere i disubbidienti. Sembrava una scena magica: gli oggetti animati da forze sopranaturali cadevano e si rompevano, palline che rotolavano, una ricerca continua di nuovi oggetti, una scena senza parola e senza senso. Una strana violenza poteva esplodere, nessun personaggio, nessun pensiero ma solo oggetti malefici…del resto … il gioco, secondo M. Klein, è come il sogno: E’  la via regia dell’ inconscio.  Di fronte ad un adulto impotente a fermare il caos ma potente nell’uso della parola sono iniziati altri movimenti dove l’oggetto, non distrutto, ha la funzione di  paletto, di ponte, di torre da difesa. I protagonisti, spinti da Titti-calze-lunghe, iniziano delle costruzioni: i tappeti diventavano letti e lettini o culle in cui dormire tutti insieme, ma di fronte a quella calma pacificante … (o eccesso di godimento?). Arriva un contro-ordine: “Devo uscire, devo stare zitta e non guardare”. Il Tribunale della Libertà, al quale i bambini sono ricorsi per regolare le azioni (e regolamentarle nell’ambito della Legge), aveva deciso che l’adulto - incapace a contenere il caos, ma potente e sapiente nell’uso delle parole - doveva essere messo alla porta.
Una scena rovesciata
La parola dei bambini presa sul serio apre a un nuovo teatro della mente: apre un Tribunale della Libertà. Un Tribunale che cosa tutela?
·         E’ un Tribunale-giustiziere di un danno fisico e psichico?
·         E’  una buona legge che sostiene  il desiderio?
Se l’adulto sa giocare, come ricorda Winnicott, si apre uno spazio creativo, uno spazio transazionale; per Lacan è importante che l’operatore agisca nella direzione della cura e, principalmente, sappia mantenere il suo postoFuori dalla porta: inizia  un  tempo-lungo-d’attesa; in palestra che  cosa  accade ?.. Andrej lancia l’invito: “Puoi entrare … entra … entra … entra …” La scena è cambiata: il teatro dei sogni si è materializzato attorno all’assenza-presenza … nessuna traccia di battaglia … nessun protagonista  … nessun mostro  né acqua minacciosa … nessun lettino-tappetino. Il lavoro, ormai, è partito attorno a  un  vuoto  nel quale si nascondono i soggetti del gioco? “Dove sei ?” … “Eccomi Nofè” … “Eccomi Prato Fiorito” … “Andrej, Titti … dove siete ?”…E’ soltanto un’altra scena, ora si può formulare una nuova diagnosi: i  Soggetti sono stati, finalmente, riconosciuti e nominati…I  Soggetti si sono appellati all’Altro e  proseguono il loro cammino tra un significante e l’altro. La diagnosi è un lavoro che coinvolge: l’operatore, nell’approccio bio-psico-sociale, incontra competenze e professionalità diverse; ora egli è in grado di utilizzare la diagnosi intesa come traccia di una trama di rete costituita da familiari, operatori, attori protagonisti principali e minori. Tutto questo accade perché il concetto di cura, scienza, di riabilitazione e d’arte passa attraverso livelli diversi (sociali, biologici, intrapschici e interpsichici). Ogni professionalità - se correttamente pensata e riconosciuta - ha un senso nel progetto riabilitativo. La presa in carico del singolo non è un atto individuale, ma deve essere un atto realizzato da un gruppo di lavoro che opera in piena armonia e collaborazione.  F. Stoppa sostiene che lo psicanalista ed il docente di Clinica Istituzionale conducono una equipe curante: non rappresentano soltanto la risposta tecnica ai problemi, ogni operatore esprime  la sua vocazione e realizza la costruzione e la manutenzione all’interno delle quali il paziente dà forma al suo lavoro di cura.  La diagnosi deve evidenziare la posizione di un soggetto al lavoro: la diagnosi delinea e mette in luce la posizione esistenziale del Soggetto che si apre al legame sociale.
Silvana LEALI

La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda. (21-2-2016) 
Da qualche mese con il titolo di 'La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda' è stata pubblicata l'edizione italiana dello studio 'Palestine in Israeli school books: ideology and propaganda in education', elaborato  dalla professoressa israeliana Nurit Peled-Elhanan, che insegna presso la facoltà di scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme. Il conflitto fra lo Stato di Israele e la componente arabo-palestinese si riflette, in tutti gli ambiti della vita civile, nella attività di propaganda delle due entità contrapposte, a cominciare dal sistema educativo. Prescindendo dal carattere politico della questione - in merito alla quale ognuno può essersi legittimamente formato una propria opinione - lo scritto, che non intende essere esclusivamente un documento descrittivo del sistema scolastico in Israele, è particolarmente interessante in quanto evidenzia con dovizia di esempi pratici come i testi scolastici, apparentemente neutri, possano costituire, come precisa l'autrice, "potenti mezzi mediante cui lo Stato può configurare le forme di percezione, classificazione, interpretazione e memoria necessarie a determinare identità individuali e nazionali". La studiosa ritiene che attraverso i pregiudizi che maturano in età scolare possano strutturarsi le future ostilità fra l'etnia ebraica e quella palestinese: conseguentemente il sistema educativo contribuirebbe a garantire la sopravvivenza di uno Stato sostanzialmente ingiusto e non pienamente democratico. Più precisamente l'autrice senza mezzi termini dice che il razzismo che ha riscontrato nei testi scolastici, che ha studiato per cinque anni, preparerebbe i giovani alle modalità del servizio militare obbligatorio, e questo spiegherebbe il comportamento brutale dei soldati israeliani verso i palestinesi. Attualmente, se l'istruzione tende a screditare l'immagine dei palestinesi che vivono in una condizione di sempre maggiore isolamento, nello stesso tempo le istituzioni sembrano comprimere il diritto degli ebrei di criticare e protestare contro il governo. Tutto questo potrebbe confermare l'opinione, sostenuta da alcuni, circa la frattura fra una base popolare israeliana stanca dei contrasti interetnici e favorevole ad una loro composizione pur nel quadro di una grande varietà di soluzioni che riflette la complessità politica interna di Israele, e il governo, che invece, anche attraverso il nazionalismo di cui è permeata l'istruzione, alimenta con rigidità la tesi dell'impossibilità di un accordo. La studiosa afferma che nei testi scolastici non vengono negate le uccisioni di palestinesi, ma vengono prospettate come fatti 'normali', in quanto necessari per la sopravvivenza di Israele, creando così il presupposto per un'indifferenza nei confronti della sofferenza e del sacrificio di esseri umani. Per dovere di obiettività aggiungo che nelle scuole palestinesi una propaganda simmetricamente opposta scredita gli ebrei, e molti insegnanti si rifiutano di parlare dell'Olocausto. In realtà mi sembra sempre più evidente che il futuro di Israele dipenda anche da una pace dignitosa che garantisca una pacifica coesistenza con  i palestinesi. Su Youtube - a questo indirizzo: https://youtu.be/1pB0AhGl9l4 o clicca qui -  la professoressa Claudia M. Tresso, nota docente di lingua araba alla Facoltà di Lingue dell'Università di Torino, presenta  questa problematica in maniera molto brillante e con qualche spunto divertente. È un documento di cui si consiglia la visione. RR

IL MONOPOLIO DELLE IDEE, ISIS,  YOUTUBE (19-2-2016) 
Nella diffusione delle idee e nel dibattito che ne segue la Rete ha ormai un ruolo centrale. Se ne serve con professionalità lo Stato Islamico che richiama alla jihad milioni di persone utilizzando il Web per il proselitismo, per la diffusione delle notizie, per la rivendicazione delle azioni; per questo l'Isis recluta non solo combattenti ma anche ingegneri informatici. Un'abile campagna mediatica accompagna le vicende del Califfato fin dal momento della sua proclamazione. Lo Stato Islamico infatti ha curato la pubblicitaria esposizione diretta di sè stesso fin dall'inizio, anticipando l'Occidente nella possibilità di definirlo da un altro e più obiettivo punto di vista.  In generale propaganda e pregiudizio sono termini simmetricamente opposti ma strettamente correlati fra loro. Mentre la conoscenza dovrebbe fornire  un’immagine oggettiva, la propaganda produce una rappresentazione migliorativa; il pregiudizio invece ne elabora una peggiorativa. In realtà etimologicamente il pregiudizio avrebbe un’accezione neutra, sarebbe soltanto un giudizio anticipato e superficiale, cioè non suffragato dal necessario approfondimento; tuttavia nella pratica il termine viene considerato solo negativamente, ovvero come rappresentazione preconcetta e denigratoria. Gli effetti della propaganda e il loro rapporto con i media tradizionali sono stati approfonditi del linguista Noam Chomsky, che ha evidenziato l’esistenza nel mondo occidentale di un monopolio delle idee di cui dispone il potere economico attraverso l’influsso in grado di esercitare sui mass media. Attualmente la Rete potrebbe essere un’entità antagonista a questa situazione, perché ha la capacità di consentire a ognuno la libera espressione del proprio punto di vista senza filtri e a basso costo. In proposito, se la democraticità della Rete consiste principalmente nella possibilità di sottoporre agli altri il proprio pensiero, con riferimento alla situazione pratica questa opportunità è più teorica che reale. Penso agli articoli che di tanto in tanto scrivo. Se riesco a piazzarli in qualche rivista anche online, i miei scritti sono sottoposti all’attenzione di un pubblico. Diversamente, è vero, posso pubblicarli in Rete, ma così facendo si perdono nell’oceano digitale. Di fatto, quindi, non è cambiato nulla. Se la libertà del Web può essere un baluardo della democrazia, la propaganda in Rete dello Stato Islamico è espressione tuttavia di una fisiologica patologia di questa nuova frontiera della comunicazione. Ad esempio la caratteristica libertaria del video sharing  - che è la principale funzione di Youtube - ha dato a milioni di persone, Isis compreso, la possibilità di esprimersi senza alcun limite e con effetti non sempre socialmente apprezzabili. Sono centinaia i video in alta definizione sia in arabo che in inglese caricati in Rete dall'Isis, che danno l'inquietante sensazione che pratiche medioevali si declinino attraverso un moderno uso della tecnologia. In particolare destano perplessità le immagini del video Flames of War, diffuso nel 2014, - già il titolo sembra quello di un colossal - che, realizzato in perfetto stile hollywoodiano, rappresenta le gesta di terroristi che inneggiano alle azioni di guerra del Califfato.  Inquietante è il messaggio di chiusura coming soon (in arrivo), come se un conflitto prossimo e la morte potessero essere oggetto di un trailer. È naturale chiedersi come può essere impedita su Youtube la pubblicazione di materiale di dubbia liceità. Innanzitutto i controlli sono finalizzati, attraverso l'automatico confronto con i contenuti di un database, a verificare che il video non leda il copyright, cioè il diritto d’autore, e non contenga riferimenti ad argomenti non consentiti. Una successiva verifica riguarda il merito della conformità del filmato a quanto prevede il regolamento della community, al quale ogni utente deve aderire. Questa ulteriore verifica - che non riguarda una formale violazione, ma la sostanziale infrazione del codice di comportamento - è affidata principalmente alle segnalazioni degli utenti, in conseguenza delle quali il video può essere bloccato dagli amministratori. Può quindi accadere che un filmato che non leda il copyright, e non contenga o riesca a mascherare indici di presunta illiceità, ma che abbia contenuti profondamente offensivi, possa rimanere indisturbato in Rete finché nessuno lo segnali. La segnalazione, a cui segue la rimozione, apre un contenzioso nel quale chi ha caricato il video può precisare le sue ragioni. Queste considerazione evidenziano che, se la  illimitata libertà su Youtube può essere ritenuta ormai un mito superato, la censura rimessa a segnalazioni e a iniziative individuali può avere caratteri di arbitrarietà, eventualità, e soprattutto di una dannosa tardività. Infatti la pubblicazione, anche seguita dalla rimozione, è già un danno: nel frattempo tra la pubblicazione e la rimozione, un video può essere visto, scaricato, copiato e può circolare. RR 

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI "LETTERA AI TRUFFATORI DELL'ISLAMOFOBIA" DI STEPHANE CHARBONNIER. (17-2-2016)
Ho letto recentemente con molto interesse il saggio 'Lettera ai truffatori dell'islamofobia' di Stephane Charbonnier, detto Charb,  l'ex direttore del giornale satirico Charlie Hebdo, trucidato insieme ad una decina di collaboratori nell'attentato terroristico di matrice jihadista  il 7 gennaio 2015. Lo scritto assume il senso di un testamento intellettuale, in quanto è stato chiuso per la stampa il 5 gennaio scorso, ovvero due giorni prima della tragica uccisione dell'autore. Il libro si articola su due direttive che sono strettamente connesse: da una parte viene elaborata una acuta revisione critica del concetto di lotta all'islamofobia, dall'altra viene esposta la filosofia che aveva ispirato fino ad allora le scelte satiriche del giornale.
- L’Islamofobia, nel senso di infondato timore dell’Occidente nei confronti dei musulmani e dell’Islam, è una patologia della nostra società che si è sviluppata di recente; in particolare è cresciuta negli ultimi decenni e si è intensificata dopo l’attentato a New York dell’11 settembre 2001. Paradossalmente - come osserva Charb - la lotta all'islamofobia può generare un razzismo 'di ritorno' causato da una iperprotezione  degli islamici rispetto ad altri individui. La lotta all'islamofobia infatti condanna qualsiasi  aggressione solo nei confronti dei musulmani in quanto tali, e dei loro simboli religiosi. Mi spiego meglio con un esempio. La condanna di chi insulta una donna abbigliata secondo l'usanza musulmana non ha come presupposto l'attentato alla libertà di una cittadina straniera di vestirsi  - nei limiti consentiti dalla legge - come meglio ritenga, ma è imposta esclusivamente dalla protezione  degli usi islamici. In altri termini, in questo caso la tutela non ha come condizione necessaria e sufficiente l'essere destinatario/a di diritti di libertà, ma si fonda sulla confessione religiosa praticata dal soggetto che subisce l'offesa. In proposito Charb polemicamente osserva "....tra non molto le vittime del razzismo di origini indiane, asiatiche, rom, africane, antillane, eccetera, faranno meglio a trovarsi una religione se ci tengono ad essere difese...". Charb sembra pertanto concludere che sarebbe più opportuno e più giusto eliminare la categoria della lotta all'islamofobia ed includerla in quella più generale della lotta al razzismo, ovvero nel contrasto a qualsiasi forma di pregiudizio. Al contrario la lotta all'Islamofobia crea una specifica categoria protetta, e quindi nella sostanza è essa stessa paradossalmente fonte di discriminazione. In proposito, la satira irriguardosa di Charlie Hebdo nei confronti della religione musulmana non tenendo conto della specifica  pericolosità della suscettibilità degli islamici sarebbe il corollario di questo punto di vista. 
- Charb precisa che la satira nei confronti degli islamici in realtà vuole colpire solo il fondamentalismo, opponendosi a  quella visione che riconduce tutto l'Islam all'accezione integralista. Al riguardo, la celebre vignetta che raffigurava Maometto con un turbante a forma di bomba, non intendeva insultare tutti i musulmani suggerendo di vedere in essi dei potenziali terroristi, ma era un modo per denunciare la strumentalizzazione della religione da parte dei jihadisti. La polemica che ne è scaturita è stata enfatizzata dal circuito mediatico, da ognuno per propri fini. Charb si chiede in virtù di quale teoria l’umorismo, che colpisce altre religioni, dovrebbe essere incompatibile con l’Islam.
Il linguaggio virulento, sfacciato talvolta insultante  di Charlie Hebdo - da questo punto di vista la satira si distingue dalla critica che, anche quando è negativa, dovrebbe rimanere  lucida e priva di eccessi - sembra far proprio il principio più volte affermato da Dario Fò secondo cui la prima regola della satira è che non ci sono regole. In proposito personalmente non sono d'accordo. Credo che la satira non possa mai essere offesa gratuita, soprattutto quando tratta materie che possono essere oggetto di particolare sensibilità, come la religione. Nella pratica naturalmente non è facile stabilirne i confini. Peraltro nella nostra società i media digitali consentono una notevole amplificazione di qualsiasi messaggio, e pertanto si deve tener presente nella questione anche l'eventuale allargamento delle possibili vittime   destinatarie di un atto di satira. RR

IL CASO 'REGENI' (15-2-2016)
Il drammatico caso del ricercatore italiano, Giulio Regeni, ucciso al Cairo, induce alcune riflessioni sulla libertà di intelligence.
- Innanzitutto, dalle modalità dell'uccisione che sembrano tutt'altro che accidentali sembra probabile il coinvolgimento di organismi di sicurezza egiziani. Questo tuttavia non equivale a ritenere scontato che l'iniziativa delittuosa sia stata preventivamente conosciuta, approvata e voluta dagli organi centrali di settore. Nonostante il generale Al Sisi sia un uomo di potere particolarmente solido, tuttavia non sembra che il Paese e l'apparato di governo siano completamente sotto il suo controllo. Conseguentemente non può escludersi che il fatto sia stata commesso autonomamente da un'articolazione della struttura senza una preventiva condivisione politica. Peraltro, la gravità del fatto e delle modalità, le tracce evidenti lasciate sembrano indicare un'operazione non pianificata, decisa al momento nelle sue tragiche evoluzioni, ed effettuata con una rudezza ed un accanimento incompatibile con una minima professionalità. In altri termini, purtroppo può ritenersi possibile che i servizi di sicurezza di alcuni Paesi possano giungere all'uccisione di una persona. Si pensi in proposito al controverso caso dell'ex agente prima del KGB e poi dell'FSB Aleksandr Litvinenko ucciso dai suoi ex compagni. Tuttavia, come dimostra questo caso, le modalità esecutive di un'iniziativa così meritevole della più grande censura, se sono pianificate - è sicuramente molto brutto usare questo termine per l'uccisione di un uomo da parte di organi istituzionali, seppur stranieri -, dovrebbero essere tali da ridurre quanto più possibile la prova dal momento che il fatto oltre ad essere in sé particolarmente grave, è suscettibile di probabili ripercussioni internazionali. Peraltro, i rapporti commerciali e politici fra Italia ed Egitto sono ottimi e molto intensi; inoltre al momento del rinvenimento del cadavere era in corso una missione governativa italiana in Egitto e quindi sicuramente il fatto è avvenuto nel momento sbagliato. Da queste premesse può legittimamente argomentarsi che, se Giulio Regeni per l'Egitto costituiva un problema, gli apparati di sicurezza dei due Paesi probabilmente avrebbero congiuntamente dialogato e non si sarebbe arrivati ad un tale esito così drammatico. Pur escludendo un coinvolgimento ufficiale dell'Egitto nella questione non può essere considerato un atteggiamento connivente il tentativo delle autorità di accreditare l'ipotesi dell'incidente nella morte del ragazzo: è stato un maldestro tentativo per evitare che venissero evocate responsabilità istituzionali.
- Un tempo l'intelligence intesa come raccolta ed analisi delle informazioni su un fatto o un evento era un'attività per pochi iniziati. Oggi, complice il Web, disponiamo di una mole illimitata di dati, una information overloading, e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da quella di selezionare, filtrare, organizzare; per questo oggi rispetto al passato è possibile fare molta intelligence, anche al di fuori degli ambiti istituzionali, e, non raramente, anche di buona qualità. Tuttavia prioritario all'attività di analisi è la raccolta dei dati; in proposito il contatto diretto con le fonti di informazioni è un valore aggiunto di particolare importanza. Il povero Regeni aveva ben chiara questa situazione; trasferendosi in Egitto, aveva deciso di spostare sul campo le sue ricerche che pertanto avrebbero fatto salto qualitativo, pericoloso per qualche ente, forse istituzionale. O forse Regeni stesso era diventato una preziosa fonte di informazioni da estorcere con ogni mezzo. Per gestire situazioni così pericolose e ridurre i rischi per quanto possibile, è necessario essere strutturati, cioè avere un apparato alle spalle che sia al corrente delle specifiche iniziative e quindi di fatto funga da garante imponendo con la sua presenza ogni necessaria cautela nell'eventuale controparte. Al contrario Giulio Regeni era probabilmente un free lance e questo lo ha esposto a dei rischi fatali. Ogni onore al coraggio e all'amore per la verità e la giustizia di Giulio Regeni, nella speranza che i suoi carnefici siano individuati e subiscano la giusta condanna. RR 

STRUTTURA TRIBALE E REGIMI AUTORITARI NEL MONDO ARABO (14-2-2016) 
Il mondo arabo-islamico è sempre stato caratterizzato da regimi autoritari. Probabilmente la motivazione di questa aspetto strutturale risiede nella genesi delle nazioni arabe, nate - in generale e con modalità storicamente diversificate - dalla fusione di tribù. Questi Stati fin dalle loro origini, articolandosi su base tribale e attribuendo la gestione del potere periferico a locali clan considerati la più elementare unità territoriale, non hanno recepito l’esigenza di sviluppare un’organizzazione amministrativa. La tribù - che aveva una specifica autonomia e omogeneità ed era caratterizzata da propri stili di vita, da autosufficienza, da un forte legame con il proprio territorio e, in alcuni casi, da una propria lingua o dialetto - esercitava una forma localizzata di gestione del potere. Nella tribù mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa; l’attribuzione del potere era fondata su meccanismi dinastici, di anzianità o su forme pseudo-istituzionali che predeterminavano automaticamente il destinatario di funzioni di governo sulla comunità: era del tutto estraneo a questo modello organizzativo qualsiasi strumento che assicurasse facoltà di libera scelta. La società tribale pertanto - e conseguentemente gli Stati arabi che ne ereditarono la cultura giuridica - non si fondava sui diritti di libertà e di uguaglianza prerogativa delle democrazie; in essa rilevava solo che si governasse secondo giustizia. Infatti, un membro della comunità tribale poteva aspirare a poteri di governo solo se apparteneva a una specifica linea dinastica o fosse titolare di aspettative (di poteri di governo) in virtù di meccanismi di automatica predeterminazione. Conseguentemente  la condizione di un qualsiasi individuo si esauriva nell’accettare pacificamente di essere governato da altri purché tale supremazia venisse esercitata con equità e giustizia. Gli Stati arabi al momento della loro nascita, riconoscendo la preesistente struttura tribale e demandando alla tribù la gestione locale del potere, ne ottenevano come corrispettivo la fedeltà e il sostegno ai rispettivi regimi. Solo nel corso dei tumulti della Primavera Araba per la prima volta i popoli arabi hanno richiesto sistemi politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare l’avvento di  un tardivo Illuminismo. Nella creazione di un nuovo Stato prioritariamente si forma un’assemblea costituente e si indicono libere elezioni. Tuttavia negli Stati arabi questi presupposti di democrazia sono rimasti intrappolati in un circolo vizioso: infatti, fu subito evidente da un punto di vista pratico che le elezioni non potevano essere il momento iniziale della democrazia, ma il suo punto di arrivo, dal momento che il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato che rispetti la sovranità popolare e una coscienza civica ben strutturata. I moti della Primavera Araba, per il loro carattere e la loro articolazione, hanno in ogni caso  contribuito a ridimensionare fortemente il ruolo dei gruppi terroristici e dell'esercito nei cambiamenti di regime, che in precedenza si erano prodotti solo a seguito di iniziative di gruppi eversivi o colpi di Stato  consolidando la  rassegnazione a subire governi nazionali autoritari ed iniqui. Precedentemente alla Primavera Araba infatti solo il terrorismo o le iniziative militari sembravano poter offrire concrete prospettive di cambiamento: purtroppo l'illusione che la realtà fosse mutata ha avuto breve durata. Nel mondo arabo l’ingiustizia sociale e la mancanza di libertà e di democrazia, anziché scomparire, sembrano oggi essersi rafforzate:  la storia anche in questo caso dimostra che per un cambiamento radicale di un corso istituzionale serve molto tempo. Le rivoluzioni, anche se sembrano improvvise e imprevedibili, per avere effetti permanenti, devono essere il risultato della sedimentazione di un processo lento.  RR
(da Roberto Rapaccini, Paura dell'Islam, Cittadella Editrice, 2012) 

IL RECLUTAMENTO JIHADISTA IN FRANCIA (13-2-2016) 
Le considerazioni di cui al commento precedente sull'islamizzazione del radicalismo formulate da Michel Onfray - ovvero che il proselitismo musulmano in occidente trovi un fertile terreno nelle fasce sociali nelle quali è forte il malessere per la crisi economica, sociale e politica - ridimensiona le tesi che pongono alla base della conflittualità in atto fra Islam e Occidente rispettivamente uno 'scontro di civiltà', o gli errori, nel mondo arabo, della politica postcoloniale dei Paesi europei. Queste due tesi, infatti, culturalista la prima, terzomondista la seconda, pur restando interessanti chiavi interpretative, evidenziano un limite: se il conflitto fra l'Islam e Occidente è strutturale (come dovrebbe desumersi dalle due teorie), non si spiega perché l'affiliazione al radicalismo jihadista riguardi solo una parte minima, circoscritta e ben definita dei musulmani che vivono in occidente (mentre questa situazione è comprensibile in base alle intuizioni sull'islamizzazione del radicalismo). La tesi di Michel Onfray sull'islamizzazione del radicalismo trova di fatto una conferma pratica in alcuni studi portati a termine lo scorso anno in Francia, che hanno evidenziato che il reclutamento jihadista riguarda quasi esclusivamente due categorie sociali, cioè i musulmani di seconda generazione e i neoconvertiti all'Islam. Per quanto riguarda i musulmani 'francesi' di seconda generazione, si argomenta che la prima generazione di musulmani immigrati nei Paesi europei ha cercato di integrarsi abbandonando spontaneamente tra l'altro l’abitudine di portare indumenti tradizionali. Nella seconda generazione invece è affiorato il malessere per i problemi endemici della società, e per un esito insufficiente delle politiche di integrazione che non sono state facilitate dalla distribuzione e dall'alta concentrazione della minoranza islamica in quartieri periferici, come le banlieue di Parigi, Lione, Marsiglia, dove spesso gli islamici costituiscono la maggioranza degli abitanti. Dalla terza generazione invece ha prevalso l'integrazione e l'omologazione dei giovani nella cultura occidentale. In sintesi, i musulmani di seconda generazione non vogliono la cultura dei genitori, ma nemmeno la cultura occidentale, nella quale identificano l'origine dei mali e del loro disagio. Nello stesso tempo chi si converte all'Islam di fatto manifesta un'avversione all'occidente. L'Islam infatti è una religione 'politica', in quanto la fede produce gli effetti di un’ideologia, poiché è tensione per l’affermazione di un nuovo assetto sociale ispirato a un’etica confessionale. L’adesione alla fede musulmana è vissuta dai convertiti come una militanza, come un impegno collettivo rivolto a cambiare, anche con il ricorso alla violenza, le strutture della società. Conseguentemente chi si converte all'Islam non opta per una religione 'di compromesso', ma sceglie la 'purezza' dell'estremismo dell'opzione salafita, che maggiormente esprime la rottura e l'avversione per 'l'odiato' l'occidente, e integra uno strumento di lotta politica. Sembrerebbe quindi desumersi che il fondamentalismo jihadista sia il prodotto di una rivolta generazionale prodotta dalla mancata integrazione di specifiche categorie di giovani. Si giunge così alla paradossale conclusione che l'Islam, nella radicalizzazione dei musulmani, sia solo un fattore contingente e non essenziale. Un'ulteriore prova che sia più corretto parlare di islamizzazione del radicalismo piuttosto che di radicalizzazione dell'islamismo, come afferma Mifchel Onfray. RR 

L'ISLAMIZZAZIONE DEL RADICALISMO (7-2-2016) 
Dopo il controverso romanzo 'Sottomissione' di Houellebecq, nel quale si profetizza una Francia che, oggetto di una progressiva islamizzazione, nel 2022 si ritrova ad essere governata da una Fratellanza Musulmana, anche Michel Onfray, di diversa formazione politico-filosofica, si è soffermato con un recente saggio, 'Pensare l'Islam', sui presupposti che possono facilitare una capillare penetrazione della cultura musulmana nella civiltà occidentale. Nel caso di Houellebecq il nuovo ordine sociale di impronta teocratica si instaura attraverso un processo silenzioso - quasi impercettibile -  quanto progressivo e inesorabile. Michel Onfray ritiene invece che, anziché considerare come antagonista della nostra civiltà la radicalizzazione dell'Islam, dobbiamo ritenere che sia in atto una islamizzazione del radicalismo. Più in dettaglio. Nella società occidentale - notoriamente in una fase di diffuso malessere - non esistono più valori oggetto di riferimento, e tutto sembra dominato da una asettica amoralità, precipitato della mancanza di un'etica comune e di un vuoto ideologico; domina una generale visione relativistica in un clima di diffuso nichilismo, nel quale si è smarrita ogni forma di spiritualità sulla quale fondare il senso dell'esistenza. A margine, è ben nota la difficoltà dell'Europa di riconoscersi nelle comuni radici giudaico-cristiane. La collettività non è una entità omogenea, ma è una realtà parcellizzata, integrata dalla somma di microcosmi individuali nei quali le vite si articolano in base alle pulsioni del momento. A conferma, la corrente trasversale a tutti i generi artistici maggiormente espressiva del nostro tempo è il minimalismo, che enfatizza la ripetitività uniforme delle vicende quotidiane. Questo clima radicalizza - soprattutto in alcune fasce sociali, nelle frange dell'emarginazione, nei giovani che hanno difficoltà ad orientarsi - un atteggiamento critico nei confronti della società. Al contrario l'Islam offre un modello che, seppur discutibile, si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il senso di insicurezza nel quale si materializza il disorientamento.  Per questo Michel Onfray parla di islamizzazione del radicalismo. In altri termini, la penetrazione della cultura islamica non è il risultato di un'aggressione o, più ordinariamente, di un confronto con i nostri valori, ma è resa possibile dal vuoto etico, dal clima di costante contraddizione, da una generale crisi che si declina nella cultura, nelle connotazioni  sociali, in una dialettica che con difficoltà produce convincenti esiti politici. Così Michel Onfray, nel corso di un'intervista, ha sintetizzato questa sua visione: "..la nostra civiltà giudaico-cristiana è sfinita, morta. Dopo duemila anni di esistenza, si compiace nel nichilismo e nella distruzione, nella pulsione di morte e nell’odio di sé, non crea più niente e vive solo di risentimento e rancore. L’Islam manifesta quel che Nietzsche chiama “una grande salute”: dispone di giovani soldati pronti a morire per esso. Quale occidentale è pronto a morire per i valori della nostra civiltà: il supermercato e l’e-commerce, il consumismo triviale e il narcisismo egotista, l’edonismo volgare e il monopattino per adulti?". Come antitodo, dobbiamo ripristinare in ogni settore della società una dialettica positiva e costruttiva, libera da pregiudizi. Diceva Einstein: "....la mente è come un paracadute, funziona se si apre". RR 

LA MAPPA DELL'ISLAM. 3. La galassia sciita. (4-2-2016)
 Anche il mondo sciita, sebbene più compatto, è frammentato in alcune correnti. La principale confessione è quella duodecimana o imamita, che è la più numerosa ed è considerata la più moderata. I Duodecimani credono nella successione di dodici imam (da Alì alla figura messianica di Muhammad Al Mahdi che, scomparso nell'874, mai morto, tornerà alla fine dei tempi per ripristinare l'Islam nella purezza originaria). Sono presenti soprattutto in Iran (l'85% circa della popolazione) e in Iraq. I Settimimani invece credono che Al Mahdi, l'ultimo imam, avrà solo sette predecessori. Tra essi vi sono gli Zaiditi, presenti soprattutto nello Yemen del Nord, e gli Ismailiti, tra i quali vi sono i Carmati (in Bahrein, dove, pur essendo gli Sciiti il 75% circa della popolazione, è al potere un'élite sunnita), i Fatimidi, e i gNizari, noti in passato come 'Setta degli Assassini' (consumatori di hashish) e presenti nel subcontinente indiano. Da un punto di vista politico ha particolare importanza la setta alawita o alauita, che è presente in Siria, dove, pur costituendo una minoranza, è al potere essendo la confessione religiosa della famiglia Assad; la dottrina Alawita ha carattere iniziatico e contiene elementi del Cristianesimo e dello Zoroastrismo. Comunità sciite, soprattutto  duodecimane, sono presenti anche in Azerbaigian, in Libano, nello Yemen e in Afghanistan. I Drusi sono una setta musulmana di derivazione sciita fondata nel XI secolo in Egitto. La dottrina drusa, particolarmente complessa, è integrata da elementi dell'Islam, del Giudaismo, dell'Induismo e del Cristianesimo, ed ha ormai assunto caratteri talmente peculiari che la pongono al di fuori della galassia musulmana; inoltre, poiché è caratterizzata da un forte misticismo e da un carattere esoterico non facilmente accessibile,  è rivelata con grande circospezione solo a chi sia ritenuto pronto e degno d'accoglierla. Le comunità druse, dopo un lungo periodo di persecuzioni sunnite, sono attualmente presenti in Giordania, in Libano, nella Siria meridionale, nell'Alta Galilea in Israele; in questi Paesi i Drusi - si ritiene che  siano circa 700 mila  - si sono integrati, arruolandosi nell’esercito e partecipando attivamente alla vita politica nazionale, senza però prendere parte a conflitti sociali probabilmente per un pragmatico calcolo di sopravvivenza che li spinge a non esporsi. Tuttavia  in alcune occasioni i Drusi hanno avuto un peso politico importante, diventando elemento determinante nei precari equilibri mediorientali. Questo è avvenuto soprattutto in Libano mediante il loro leader Jumblatt. Pertanto, pur trattandosi di piccole comunità, i Drusi hanno svolto e possono svolgere funzioni decisive di mediazione politica, in piena applicazione del consolidato principio geopolitico secondo il quale chi non ha una particolare forza che gli consenta di comandare, può sopravvivere attraverso il potere che acquista mediante un'abile attività diplomatica.RR  

LA MAPPA DELL'ISLAM. 2. La galassia sunnita. (3-2-2016) 
I Sunniti, che sono la confessione del 90% circa di tutti i musulmani, sono divisi in quattro principali scuole giuridico-teologiche: a) I Malikiti, che danno fondamentale importanza interpretativa agli usi giuridici, religiosi e sociali praticati a Medina, considerando questa città la prima depositaria degli insegnamenti di Maometto; sono presenti nel Maghreb, in Egitto, in Sudan, nel nord ovest dell’Eritrea. b) Gli Shafiiti, che danno particolare importanza all'approfondimento dei criteri interpretativi oggettivi del Corano e della Sunna (la raccolta dei comportamenti del Profeta) per escludere opinioni soggettive e arbitrarie; sono presenti soprattutto in Africa Orientale, ma anche in Indonesia, in Egitto e in Palestina. c) Gli Hanbaliti, che sono contrari alle speculazioni filosofiche e alla libera interpretazione delle scritture; sono presenti in Arabia Saudita, in Siria, in Egitto. d) Gli Hanafiti, che sono gli interpreti più elastici del Corano e della Sunna in quanto attribuiscono significato al ragionamento deduttivo e analogico; sono presenti in Siria, in Iraq, in Palestina, in Afghanistan, in India, nei Balcani. Alla fine del XIX secolo si è diffuso il Salafismo, il movimento fondamentalista particolarmente intransigente che ritiene prioritario su ogni progetto politico la restaurazione dell’Islam delle origini, e che rifiuta qualsiasi forma di occidentalizzazione. I Salafiti sono presenti ed in preoccupante rapida ascesa in tutto il mondo musulmano: fin dalla prima metà del Novecento hanno cominciato a tradurre le proprie posizioni ideologiche in un concreto impegno politico anti-occidentale. Questo atteggiamento è stato recepito nelle frange estreme degli ambienti fondamentalisti che hanno ritenuto così di avere un conforto religioso nella pianificazione di azioni violente, compreso il ricorso a iniziative terroristiche suicide. I Wahabiti sono i seguaci di Muhammad bin Abd al-Wahhab, vissuto all’inizio del XVIII secolo, alleato di Muhammad bin Saud, principe di un’oasi della regione del Neged, capostipite della dinastia che nel XX secolo unificherà l’Arabia e che tuttora governa il Paese. Punto fondamentale della dottrina è l’affermazione del 'tawhid', ovvero l’assoluta unità di Dio e la lotta con ogni mezzo contro tutte le forme di culto devianti o atipiche. Il buon governo è l’adeguamento della prassi politica e giuridica ai fondamentali principi della Sharia, che, con estremo rigore, deve regolare ogni comportamento umano. Per questo la dottrina wahabita manifesta una radicale ostilità nei confronti di quei governi che si allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme di legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal letterale rispetto della legge divina. Il wahabismo ha sempre goduto del sostegno finanziario dei potentati sauditi; oltre ai regnanti sauditi, wahabita era anche Osama bin Laden. La dottrina wahabita è particolarmente radicata in Arabia Saudita. I Fratelli Musulmani sono invece un’organizzazione politica estremamente composita, nella quale convivono posizioni divergenti. Prevale tuttavia una visione integralista, che si manifesta principalmente nella ferma opposizione alla secolarizzazione delle nazioni islamiche. Questo movimento, per la sua storia, per la sua diffusione nel mondo arabo e per l’ampio consenso e prestigio di cui ha sempre goduto, può essere considerato la madre di tutte le organizzazioni islamiche, sia moderate sia fondamentaliste. I Fratelli Musulmani hanno spesso intrapreso iniziative di carattere filantropico, concentrando il loro impegno non solo nel settore politico, ma anche nell’insegnamento, nella sanità e in attività sociali e religiose, come l’organizzazione di incontri di preghiera e di spiritualità. Il Movimento fu fondato nel 1928 da un insegnante egiziano di un villaggio sulle rive del Canale di Suez; il movimento dei Fratelli Musulmani si colloca pertanto nel complesso quadro di un risveglio culturale e religioso che nei primi decenni del XX secolo reagiva a iniziative di occidentalizzazione della società islamica. Il fondatore si propose il conseguimento di obiettivi politici concreti di tipo socialista, come la promozione della dignità e il riscatto dei lavoratori arabi egiziani; questi fini, anziché dare impulso a uno stato laico che avrebbe dovuto rifiutare la cristallizzazione dei rapporti sociali che sarebbe conseguita dal carattere confessionale delle istituzioni, furono collocati nel quadro della concezione morale e religiosa islamica. Per il perseguimento di questi obiettivi infatti veniva attribuito particolare rilievo all’educazione e alla sensibilizzazione ai precetti islamici in materia di solidarietà. In relazione a questa classificazione viene naturale chiedersi quali Paesi musulmani debbano essere considerate espressione di un Islam moderato e quali invece siano il correlato politico dell'Islam fondamentalista. In proposito, l'opinione dei Paesi occidentali risulta spesso arbitraria in quanto il giudizio sulla corrente dell'Islam che prevale in un Paese musulmano è influenzato dai rispettivi rapporti economici, commerciali, diplomatici, culturali con quel Paese o dal clima amichevole delle località turistiche arabe. Ad esempio l'Occidente sembra considerare moderate le monarchie saudite in quanto alleate e importanti partner commerciali; in realtà, nella penisola arabica predomina il Wahabismo, che - come detto - è una forma estremamente rigorosa e intransigente di Islam. RR  

LA MAPPA DELL'ISLAM. 1. La prima divisione: Sunniti, Sciiti, Kharigiti. (2-2-2016)   
Si è detto più volte in questi commenti che sarebbe più corretto parlare degli Islam e non di Islam. L’Islam infatti è  erroneamente considerato una monade dai tratti definiti. Al contrario manca un’autorità capace di esprimere una posizione uf­ficiale su ogni specifica questione; nell'Islam conseguentemente con­vivono molte confessioni - ovvero gli Sciiti, i Sunniti, i Wahabiti, i Salafiti, gli Ismailiti, per menzionarne alcune - che assumono posizioni spesso divergenti fra di loro. La principale divisione è fra Sciiti e Sunniti ed è tornata di grande attualità negli ultimi mesi a seguito dell’uccisione di un importante leader religioso sciita in Arabia Saudita e delle tensioni fra lo Stato saudita e l'Iran che ne sono seguite. I fatti che hanno dato origine alla scissione fra Sciiti e Sunniti risalgono al periodo di poco posteriore alla morte di Maometto; emerse allora un contrasto sui cri­teri per l’individuazione del califfo, ovvero del successore del Profeta che avrebbe dovuto assumere il ruolo di capo politico e spirituale della comunità musulmana. Per gli Sciiti, poiché Maometto non aveva figli maschi, il primo successore andava individuato in Alì, cugino e genero del Profeta, che sposò la figlia Fatima; in questo modo, la successione si sarebbe attuata all’interno della discen­denza del Profeta. Per i Sunniti era invece necessario in­dividuare il califfo mediante una libera investitura della comunità dei fedeli, riconosciuta come una vera autorità religiosa. I Sunniti proposero pertanto come califfo Abu Bakr, uno dei primi convertiti all’Islam nonché  suocero di Maometto (era il padre di Aisha). Seguirono vicende belliche che consolidarono i due fronti. Attualmente la differenza fondamentale fra queste due principali componenti dell’Islam riguarda l’esistenza e il ruolo della gerarchia religiosa, mentre per quanto concerne i fondamenti della fede non ci sono rilevanti diversità. Nel Sunnismo non c’è un vero e proprio clero: chiunque si sia preparato nella dottrina e nella teologia islamica può proporsi o autoproclamarsi  imam, ovvero guidare la preghiera e il culto, mentre le predicazioni religiose in Internet e nei media sono tenute generalmente dai saggi e dagli studiosi, cioè dagli ulema, dai muftì, dai mullah. Chi è benestante, o anziano, o goda di particolare visibilità, o prestigio, o responsabilità sociale, può anche fregiarsi del titolo onorifico di sceicco. Lo Sciismo ha invece un clero  organizzato preparato in università specifiche di scienze islamiche o nelle scuole teologiche: per diventare mullah o ayatollah è necessario quindi svolgere studi. Gli ayatollah sono le guide spirituali dei fedeli sciiti ira­niani; anche se si tratta di un vero e proprio clero, non vi sono modalità uniformi per raggiungere questo titolo. Generalmente l'elevato titolo di ayatollah è attribuito a coloro che hanno ottenuto particolari meriti sia per proclamazione che per nomina da parte di un altro ayatollah. Circa i rapporti fra religione e politica, mentre secondo i sunniti Stato e religione non sono separabili, gli sciiti hanno una tradizione di formale indipendenza fra leader religiosi e politici; tuttavia lo Stato sciita è soggetto al clero, il quale monitora e decide se un governante è degno di governare e se rispetta le linee guida islamiche. Fra gli Stati a maggioranza sunnita (i Sunniti sono il 90% circa di tutta la popolazione musulmana) hanno una particolare importanza strategica l'Arabia Saudita, la Turchia, l'Egitto, la Giordania, il Sudan, la Somalia, lo Yemen, i Paesi del Maghreb. Lo Sciismo è invece diffuso in Iran (il 90% della popolazione), in Iraq (lo è un terzo della popolazione musulmana), in Pakistan (20%), in Arabia Saudita (15%), in Bahrein (70%, ma è al potere la minoranza sunnita), in Libano (27%), in Azerbaigian (85%), nello Yemen (50%). Minoranze sono presenti in Turchia e in altre parti del mondo, compreso l’Occidente. La Siria, pur essendo un Paese a maggioranza sunnita, prima dell'inizio dell'attuale guerra civile, era governata dalla famiglia Assad (di fede alawita-sciita) e da una potente burocrazia sciita. Il Paese di riferimento politico e religioso degli Sciiti è l’Iran. La rivoluzione del 1978/1979, che ha trasformato la monarchia persiana in una repubblica islamica, è stata guidata dalle autorità religiose, fra le quali ebbe particolare rilievo l’ayatollah Khomeini. La Repubblica Islamica Iraniana è di fatto una vera teocrazia. In altri Paesi - come il Bahrain come già detto - nonostante la mag­gioranza della popolazione sia sciita, è al potere la mi­noranza sunnita: anche in questi casi le vicende storiche sono il fondamento di questa contraddizione. Nel tempo pertanto si sono così consolidati due blocchi: quello sunnita che è sotto la leadership saudita, che sembra attualmente non condivisa dalla Turchia, e quello sciita, guidato dall'Iran, alleato storico della Siria e sostenitore  del movimento libanese Hezbollah, il cui ramo militare ha come obiettivo la distruzione di Israele. Oltre alla divisione fra Sciiti e Sunniti esiste una terza originaria confessione, attualmente di scarsa entità, quella kharigita. I kharigiti sono una setta islamica la cui origine risale  al 657: dopo la battaglia di Siffin,  il quarto califfo e genero di Maometto Alì concluse un accordo con il suo rivale Muawiya I, governatore della Siria e primo califfo degli Omayyadi. I Kharigiti non accettarono il patto, che di fatto sanciva una tregua delle ostilità, e abbandonarono il partito di Alì (il verbo kharagia in arabo significa andare via). I Kharigiti ritengono che la carica di Califfo si debba attribuire per via elettiva senza vincoli di casta, di tribù, di famiglia, e di razza. Oggi i Kharigiti sopravvivono in piccoli nuclei in alcune località dell'Algeria, della Tunisia, a Zanzibar e nell'Oman e non hanno particolare rilevanza da un punto di vista politicoe religioso. Sciiti, Sunniti e Kharigiti solo il risultato della prima scissione fra fedeli musulmani negli anni successivi alla morte del profeta Maometto. Seguirono molte altre ed importanti frammentazioni di cui si dirà. RR 


Musei Capitolini, Rohani, coperti i nudi. (28-1-2016)
In questi giorni si sta discutendo, con spunti polemici, dell'iniziativa di occultare con dei pannelli, in occasione della visita del leader iraniano Rohani, i  nudi dei musei capitolini. Credo che la questione sia molto più banale di quanto sia stata enfatizzata. Le visite di Stato o di personalità straniere sono precedute da missioni preparatorie e incontri diplomatici nei quali vengono evidenziati tutti gli aspetti (di programma, di sicurezza, medici, conviviali, culturali, religiosi, etc.,) che possono rendere ottimale lo svolgimento dell'evento. La delegazione iraniana in proposito probabilmente ha espresso che fosse evitata al Presidente, per motivi religiosi, la vista dei nudi artistici. I funzionari italiani che hanno organizzato la visita hanno ritenuto conveniente accogliere la richiesta per ragioni di ospitalità, conformemente a quello che avviene di norma nella prassi consolidata. La scelta pertanto è stata di natura esclusivamente diplomatica, ovvero dettata dal rispetto dell'ospite. Sarebbe stato molto più controverso se fossero stati occultati i simboli che appartengono alla nostra tradizione, religiosa e culturale.  Naturalmente si può discutere sulla questione, ovvero se sia stato il frutto di un eccesso di zelo del cerimoniale; è legittimo avere pareri diversi, ma, per onestà intellettuale, l'iniziativa deve essere considerata alla luce delle prassi diplomatiche in atto, evitando  quella strumentale dietrologia che ha visto nel gesto una presunta nostra soggezione all'Islam o il ripudio della nostra tradizione artistica. Senza false ipocrisie e con un po' di cinismo si deve ricordare che queste visite sono strumentali ad accordi politici e/o economici e lo Stato ospitante ha l'interesse che il soggiorno dell'ospite straniero sia quanto più possibile gradevole; tutto, entro i confini del lecito, può concorrere al carattere proficuo della visita e al buon esito dei propositi. La diplomazia serve anche a questo. È significativo che il presidente Rohani abbia apprezzato esplicitamente l'ospitalità italiana. Ovviamente non concordo con i pregiudizi 'artistici' di Rohani, ma rispetto il suo punto di vista che è il precipitato della sua cultura e della sua religione. Peraltro non dobbiamo dimenticare che dopo il Concilio di Trento, molte opere d'arte italiane vennero ritoccate per vestire nudità femminili, e, solo dopo delicati restauri, è stato possibile ripristinare i dipinti nella versione originale. Quanto alle critiche della stampa estera, ingenerose e demagogiche, ognuno ha il proprio stile nell'accogliere gli ospiti stranieri a casa propria e, al riguardo, la diplomazia italiana non ha nulla da imparare dai collaterali colleghi stranieri. Personalmente non ho apprezzato che il ministro Franceschini, anche in considerazione della sua posizione istituzionale di vertice di un dicastero, si sia unito al generale dissenso per l'iniziativa. RR

LA TURCHIA ATTUALE (27-1-2016) 
Com'è noto, lo scopo della Nato fu la creazione, al termine  della Seconda Guerra Mondiale, di un’alleanza militare a carattere difensivo, che venne istituita in relazione alle insorgenti tensioni fra il cosiddetto mondo occidentale e il fronte costituito dall'Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti.  Con la 'caduta del muro di Berlino' e la conseguente disgregazione del blocco sovietico è venuto meno l'antagonista per in quale era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sull’equilibrio Usa-Urss, era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su  un ordine bipolare caratterizzato da uno stato permanente di contrapposizione e di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa rimasta di fatto l'unica reale superpotenza: il primato alimenta negli Usa velleità interventiste in relazione a potenziali minacce alla sua sicurezza e a quella  dell’Occidente. Chi è cresciuto nel contesto politico della guerra fredda può tuttavia ritenere che la contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente abbia sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islam non è soltanto una religione ma può rappresentare una realtà geopolitica. Pertanto, l'esistenza della Nato potrebbe trovare una nuova giustificazione nel contesto di questo confronto, ovvero nella guerra 'asimmetrica' con il terrorismo di matrice islamica. In relazione a questo nuovo ruolo della Nato, la presenza dello Stato turco all'interno del Patto Atlantico (peraltro, la frontiera della Turchia, confinando nella regione nord-orientale con l'Urss, era  sede di un'ideale continuazione del muro di Berlino) assume un significato strategico problematico. Mentre al momento dell'adesione al Patto, la posizione della Turchia era di indubbia vicinanza politica agli Stati occidentali, l'attuale processo di neoislamizzazione del Paese rende incerta la sua affidabilità dal momento che la il Paese è chiaramente allineato in favore dell'islamismo sunnita nel cui ambito si alimenta la deriva fondamentalista di matrice islamica. Inoltre  all'interno del Paese si sta affermando in maniera inquietante una linea autoritaria che sta determinando un preoccupante arretramento nella tutela dei diritti di libertà.  Probabilmente il problema di fondo è quello di comprendere se la Turchia attuale si identifichi con la politica di Erdogan - che attraverso un processo di lungo periodo sta trasformando l'identità geopolitica del Paese - o sia rimasta integra la sua matrice laica e filo-occidentale. La Turchia di Erdogan, che ha un ambiguo atteggiamento nei confronti dell'Isis, vuole tornare ad essere una grande potenza mondiale cercando di acquisire un'incontrastata egemonia nell'ambito dell'Islam sunnita - in concorrenza con le monarchie saudite - aspirando di fatto alla ricostituzione di una aggiornata versione del grande Califfato (il progetto  neocaliffale quindi non è solo dello Stato Islamico). La scomparsa dell’Unione Sovietica inoltre consente il ripristino degli antichi collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale: conseguentemente, sia da parte turca che da quella occidentale, sembra  definitivamente tramontato il pregresso interesse all'integrazione europea, dal momento che la Turchia potrebbe diventare punto ideale di riferimento geopolitico per un spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa. Tuttavia gli Usa, per frenare la deriva mediorientale di Ankara, sicuramente ritengono di vitale importanza mantenere salde le relazioni fra il Paese e l'Occidente; in proposito la Nato sicuramente è lo strumento più adeguato. Dopo il noto incidente con la Russia a seguito dell'abbattimento del velivolo russo, la Nato, dopo essersi subito dichiarata dalla parte della Turchia, sembra che si sia frettolosamente impegnata  ad aumentare la capacità di difesa del spazio aereo turco da potenziali minacce russe. Il referente nel mondo islamico, che l'Occidente riteneva di poter individuare nella Turchia kemalista, potrebbe essere in futuro l'Iran che, in quanto sciita, non vive in una condizione di soddisfacente integrazione nel cosmo islamico, notoriamente a prevalenza sunnita, e che, dopo l’accordo di Vienna del 14 luglio scorso, inizia in questi giorni l'implementazione concreta della fase che segnerà l’avvio del superamento delle sanzioni, in vigore a vari livelli dal 2006, e che aspira ad accreditarsi come partner affidabile dell'occidente. L'anima dell'Iran, anche se ben mascherata da un islamismo militante, è moderna e occidentale. Teheran pullula di grattacieli, torri e ponti avveniristici, simboli già nell’architettura di una voglia di svolta, come ha notato acutamente un giornalista di un noto quotidiano. Sarebbe auspicabile in futuro che l'Iran, superando le spinte che provengono dalle frange radicali di probabile estrazione popolare, ammorbidisca anche la sua acredine con Israele (e viceversa lo stesso faccia Israele). Sarebbe una rivoluzione di grandi prospettive. Fantapolitica? Se si sogna da soli, è solo un sogno, se si sogna insieme, è la realtà che comincia, dice un proverbio africano. RR 

LA TURCHIA FRA ISLAM E LAICITA' (22-1-2016)  
La Turchia ha un'importanza centrale nell'attuale crisi siriana e più in generale nei precari equilibri della regione mediorientale. Il suo ruolo spesso poco chiaro forse è il corollario di un quesito di fondo: la Turchia è uno stato laico o islamico? E' un'appendice dell'occidente in Asia o è la punta avanzata dell'oriente in Europa? È un pezzo di medio oriente in occidente o un pezzo di occidente in medio oriente? Probabilmente tutte queste opzioni hanno un fondo di verità in quanto questo Stato è il diretto erede dell'impero ottomano che realizzò una sintesi fra la realtà balcanica europea e la civiltà anatolica. Simbolicamente sul Bosforo c'è un ponte lungo più di un chilometro, che unisce non solo due parti distanti della città, ma due continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è il simbolo di quella doppia anima che pone spesso la Turchia al centro di delicate questioni geopolitiche, che si ripercuotono sulle sue vicende nazionali. La natura ambigua del Paese, oltre che attraverso la sua collocazione geografica, può essere compresa anche ripercorrendo la storia dello Stato turco nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato e rivolte, si sono alternati istanze di radicale laicizzazione, di cui i militari furono i maggiori garanti, ad un periodico riemergere di un'anima conservatrice fondamentalista che ha promosso processi di islamizzazione. In proposito, nel Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste  tappe fondamentali. Nel 1923 Mustafa Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito Popolare Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto VI sulle ceneri dell'Impero Ottomano fondò la Repubblica turca, di cui fu il primo presidente. Kemal Ataturk è considerato eroe nazionale e padre della Turchia moderna: avviò una puntuale modernizzazione coniugando uno spiccato nazionalismo con una capillare laicizzazione. Venne infatti abolito il califfato (ora ripristinato dallo Stato Islamico), vennero chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali religiosi, venne esteso il diritto di voto alle donne, furono introdotti codici e una legislazione di ispirazione europea, all'alfabeto arabo venne affiancato quello integrato dai caratteri occidentali. Ataturk morì nel 1938, ma il processo di avvicinamento culturale e politico all'occidente continuò con i governi che seguirono: nel 1945 la Turchia divenne membro dell'Onu, nel 1952 entrò a far parte della Nato; durante la guerra fredda, la Turchia fu un fedele alleato degli Stati Uniti. Tuttavia i governi laici che si alternarono dovettero più volte fronteggiare i movimenti islamici che rivendicavano un ruolo maggiore nelle vicende del Paese. Affiorarono quelle contraddizioni che sono particolarmente evidenti nella realtà turca attuale. A tutela delle istanze laiche nelle situazioni di maggiore conflittualità intervenne l'esercito. In particolare, per porre fine ad un periodo di tumulti, nel 1980 il generale Evren prese il potere con un colpo di Stato, probabilmente con la complicità del governo Usa che voleva contrastare lo sviluppo dei movimenti popolari di sinistra. La dittatura militare durò  due anni, nel corso dei quali venne modificata la Costituzione e nella sostanza ci si allontanò dallo spirito riformista kemalista. Il generale Kenan Evren avviò un processo di normalizzazione della società turca, nella quale si realizzò una sintesi fra un nazionalismo acceso e il conservatorismo dei fondamentalisti islamici, nel quadro di un sistema ispirato a principi neo-liberisti, che si allontanavano sempre più dalle istanze progressiste. Ristabilito il potere, ribadito il carattere laico della Turchia, i militari, come già era avvenuto nel 1960, nel 1970, rinunciarono al potere politico - che pertanto il generale Evren mantenne per il periodo strettamente necessario - e nel giro di due anni riconsegnarono il Paese nelle mani dei civili convocando libere elezioni democratiche. Evren lasciò successivamente l'esercito e venne eletto dal Parlamento Presidente della Repubblica rimanendo in carica fino al 1989. Nel 2002 l'AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, filo musulmano e conservatore - che si era sviluppato nella tradizione dell'Islam politico virando tuttavia verso un modello di democrazia conservatrice - si impadronì del potere. Il suo leader e fondatore Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo periodo di gestione del potere molto controverso, che dura ancora oggi. Questi sono i precedenti storici che hanno preceduto l'ascesa al potere della ambigua personalità di Recep Tayyip Erdogan. RR

RIFLESSIONI SULLA DIFFUSIONE DEL PREGIUDIZIO ANTISEMITA SUL WEB. (16-1-2016)
L'approssimarsi del Giorno della Memoria - il 27 gennaio p.v. - può indurrealcune riflessioni sulla diffusione del pregiudizio antisemita sul Web, in particolare nei sui social network. Analogamente al passaggio del Web da 1.0 a 2.0 è stato definito antisemitismo 2.0 quello che si avvale di reti sociali come Twitter e Facebook. Le reti sociali creano una comunità virtuale che può avere una dimensione transnazionale; sono infiniti non solo le potenzialità, ma anche i rischi, perché in questo ambito le informazioni circolano, si amplificano, e possono essere facilmente manipolate e falsificate. L'antisemitismo nei social network ha sottilmente determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica. Prima della nascita di Internet, l’antisemitismo era un fenomeno circoscritto all’interno di una limitata cultura, se così può essere definita (si manifestava «[…] in forma residuale e ridotta con graffiti sui muri delle città o in certe pubblicazioni di nicchia» - dal Documento conclusivo dell’indagine parlamentare conoscitiva sull’Antisemitismo, 2011). L’avversione per gli ebrei in Internet è un fenomeno diffuso e si avvale anche della costituzione di gruppi ad hoc a cui si aderisce per emulazione, per solidarietà amicale, per superficiale suggestione. Con il Web, ma soprattutto attraverso i social network, l’incremento di iniziative antiebraiche, oltre a perseguire fini propagandistici, ha indotto la comunità virtuale a considerare erroneamente l’antisemitismo un punto di vista socialmente accettabile come tanti altri. L’ampiezza del fenomeno e la sua espansione, banalizzando il pregiudizio razziale, lo fanno percepire al pari di una qualsiasi ideologia politica o, peggio, al pari del tifo per un club sportivo. Le autorità, considerata la natura estesa dei social network, hanno difficoltà ad adottare nei loro confronti i provvedimenti di oscuramento, facilmente applicabili per i siti che hanno un'identità più definita. L’unico rimedio efficace è una fattiva collaborazione con i gestori delle reti sociali per fini preventivi e repressivi, attraverso il monitoraggio, la rimozione dei contenuti illeciti, l’acquisizione dei dati dei responsabili per avviare le procedure sanzionatorie. Tuttavia non sempre è facile ottenere la collaborazione dei gestori, che possono risiedere all’estero e sollevare eccezioni fondate sulla normativa del proprio Paese. Anche se segue la rimozione, la pubblicazione di messaggi che incitano all’odio razziale, pur temporanea, è di già per sé un danno. In proposito nel 2008, in coincidenza con il settantesimo anniversario della notte dei cristalli, sono apparsi su Facebook messaggi di contenuto razzista; anche se i messaggi sono stati prontamente rimossi dal gestore dalla rete, il direttore delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, Shimon Samuels, ha evidenziato l’opportunità di evitare la pubblicazione di materiale di questo tipo, in quanto, anche se temporanea, la pubblicazione costituisce già di per sé un danno. Di fronte alle informazioni fornite da un sito o da un blog la prima rilevante questione è quella dell’attendibilità. Per i mass media tradizionali questo problema si pone in maniera molto più ridotta, in quanto essi dispongono di una soggettività dai tratti definiti (ad esempio, è nota la proprietà dell’organo di informazione, e può quindi essere presumibile il suo orientamento politico e ideologico). L’informazione poi è in ogni tempo verificabile nei media tradizionali: nei giornali scripta manent, nelle trasmissioni radiotelevisive si conservano per un periodo di tempo le registrazioni. L’informazione sul Web è invece facilmente rimovibile o manipolabile. L’avvento di Internet induce inoltre a rivedere i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica, che ha tratti costitutivi differenti nei diversi Paesi occidentali: dove la democrazia ha un carattere maggiormente diffuso e partecipativo, l'opinione pubblica è sicuramente il risultato della somma dei punti di vista dei cittadini che comunicano le loro convinzioni (soprattutto attraverso i sondaggi oltre che con gli strumenti tipici delle relazioni umane). Al contrario, in alcuni Paesi europei la popolazione sembra subire passivamente l’influsso dei media e del potere politico; questo avviene negli Stati che sono definiti post-democrazie proprio per sottolineare che le prassi democratiche in queste realtà si vanno progressivamente svuotando della partecipazione attiva e dell’interesse dei cittadini. Ivi, terminate le elezioni politiche, epilogo di un sistema gestito da gruppi di potere e da professionisti esperti nelle tecniche persuasive, le attività di governo sono amministrate come un fatto privato dalle componenti al potere, che eventualmente interagiscono con lobby portatrici di interessi economici nell’assenza di un coinvolgimento generale. In tali situazioni si evidenzia un individualismo che impedisce l’emergere di una definita coscienza collettiva: la democrazia si avvia al tramonto e la società civile è sempre più lontana dalla società politica. L’opinione che ha come oggetto questioni di interesse generale è collocata dall’individuo nei recessi della coscienza; l’indifferenza rende i cittadini maggiormente permeabili agli influssi esterni e per questo l’opinione pubblica in questi Stati è più facilmente condizionabile dai media e dagli opinion-maker, anche se di basso profilo culturale. Nelle democrazie partecipative, considerata la reattività del singolo individuo, le campagne per influire sulle convinzioni dei cittadini sono efficaci se sono particolarmente capillari. Al riguardo, si va riducendo l’importanza dei mass media tradizionali, ovvero giornali e reti radiotelevisive, mentre sono in forte ascesa, come strumento di diffusione delle idee, web-site e social network: i presupposti del loro operare sono completamente diversi rispetto a quelli dei media tradizionali. Il linguaggio del Web è molto più sintetico e immediato rispetto a quello giornalistico e televisivo, e l’informazione viene spesso diffusa senza la necessità di particolari approfondimenti, avvalendosi però di opportunità multimediali, come ad esempio di video, di foto, o di collegamenti vari. Inoltre, l’informazione sulla stampa cartacea e su radio-tv ha mediaticamente una vita limitata strettamente al tempo della diffusione dei contenuti; ad esempio, il quotidiano ha una durata giornaliera, mentre un evento radiotelevisivo di norma viene visto solo durante la sua trasmissione. Dopo, l’uno e l’altro sono archiviati dalla nostra memoria. Diversamente, tutto quello che è su Internet è nella costante disponibilità dei destinatari, in quanto si presta ad accessi ripetuti e a letture successive; in concreto, ha maggiori occasioni di persuasione. I media tradizionali inoltre vivono in una sorta di conchiusa individualità, mentre la pagina web, come detto, può contenere collegamenti con materiale multimediale, con altri siti e fonti di informazioni. Così, la pagina web può apparire come una realtà inserita in un contesto più ampio e coerente, e questo aspetto influisce positivamente sulla sua affidabilità persuasiva. Con un click è possibile per il fruitore dell'informazione girare contenuti ad altrettanti fruitori: il contenuto della notizia così, oltre ad avere un’ulteriore diffusione, sarà implicitamente certificato dalla credibilità di chi lo diffonde, che spesso è ignaro di questo valore aggiunto che apporta. (da R. Rapaccini, Il pregiudizio religioso sul Web, 2013)

LA PREVISTA EVOLUZIONE DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA (11-1-2016)   
Come recentemente ha precisato l'islamologo Gilles Kepel, massimo esperto francese di movimenti jihadisti, l'attuale evoluzione del terrorismo di matrice religiosa era già profeticamente esposta in un voluminoso testo, pubblicato nel 2005 e disponibile su Internet, scritto dal Fratello Mussulmano Abu Mussab Al Suri, un ingegnere siriano un tempo molto legato a Bin Laden. Il documento, il cui titolo, ampiamente programmatico, è "The Call for a Global Islamic Resistance", cioè appello alla resistenza islamica globale, probabilmente non è stato sufficientemente considerato e studiato dagli analisti occidentali, mentre ha costituito il testo di base sul quale si è formata la nuova generazione di terroristi. Abu Mussab Al Suri all'indomani dell'11 settembre 2001, criticando la strategia qaedista, sostenne che l'obiettivo del terrorismo non dovevano essere gli Stati Uniti, ma l'Europa occidentale, nella quale poteva essere esportato il Jihad valendosi anche della presenza di un numero considerevole di immigrati non integrati e del malcontento delle nuove generazioni. Inoltre Al Suri evidenziò la necessità che gli attacchi non fossero attuati da gruppi rigidamente subordinati ad un comando centrale, ma da cellule indipendenti  espressione di una minoranza radicale, lasciate libere di agire nell'ambito del solo indirizzo strategico di compiere azioni finalizzate a creare incertezza, terrore, insicurezza e una generale discordia civile, sia fra musulmani, sia fra musulmani e non (ovvero quelle generali divisioni che in ambito arabo si definiscono con il termine omnicomprensivo di fitna). Gli obiettivi delle azioni terroristiche dovevano essere gli ebrei fuori dai loro contesti specifici, come, ad esempio, le sinagoghe. Così è avvenuto negli attentati a Tolosa (2012), al Museo Ebraico di Bruxelles (2014), a Porte de Vincennes a Parigi (2015). Si dovevano poi colpire i musulmani troppo legati agli 'infedeli'. In effetti nel corso degli attentati jihadisti non sono stati risparmiati gli islamici integrati nella società occidentale. Non considerando alternative all'inevitabile scontro fra le due civiltà, avrebbero dovuto essere colpiti anche gli intellettuali, gli artisti ed i politici impegnati a favore del dialogo con l'Islam. L'utopia rivoluzionaria di Al Suri fu probabilmente accolta tiepidamente dai vertici di Al Qaeda fedeli al principio della verticalità da un punto di vista decisionale e contrari all'autonomia operativa di cellule isolate. Il cosiddetto franchising del terrorismo ha tuttavia confermato le previsioni auspicate da Al Suri in quanto Al Qaeda, da organizzazione terroristica centralizzata con bersagli globali, si è progressivamente ramificata in agenzie nelle diverse aree del mondo con obiettivi locali. l'Isis nell'utopia rivoluzionaria di Abu Mussab Al Suri ha rappresentato un importante salto qualitativo del jihadismo violento: l'assenza di un territorio di sua specifica collocazione ha consentito ad Al Qaeda di evitare bombardamenti o azioni belliche che presupponevano l'elemento territoriale; tuttavia l'Isis, diventando Stato, ha potuto concentrare in uno spazio tutte le forze antagoniste  dell'occidente costituendo anche un riferimento concreto per tutto il fondamentalismo islamico. Al Suri, pubblicando il suo scritto in Rete, ha inaugurato la strategia dello Stato Islamico di valersi del Web in maniera massiccia per la propaganda, il reclutamento (attraverso il fishing informatico)  e la diffusione del terrore.  L'attività di contrasto dell'intelligence occidentale al riguardo è giunta in ritardo, quando ormai lo Stato Islamico con numerosi siti e utilizzando i social network, aveva occupato una parte rilevante delle potenzialità delle tecnologie digitali. Tuttavia il 2016 si apre con alcune prospettive positive: lo Stato Islamico è in difficoltà e sta perdendo terreno in Siria e in Iraq, mentre un timido movimento di islamici comincia a dissociarsi esplicitamente dal terrorismo. Speriamo che sia realtà e non calcolo politico e ipocrisia di convenienza. RR 

Dal Partito Ba'ath alla crisi dell'Islam politico (10-1-2016)  
Il mondo arabo nella sua storia ha avuto anche esperienze di governo laiche, legate soprattutto all'ascesa al potere, in alcuni Stati, del Partito Ba'ath, un movimento i cui riferimenti ideologici erano il socialismo, il sindacalismo, la visione laica della società, e soprattutto il panarabismo, che, in concorrenza con i nazionalismi locali, auspicava il potenziamento dei valori arabi comuni. Il movimento politico Ba'ath nacque in Siria nel 1953 dalla fusione tra  il Partito della Rinascita Araba e il Partito Socialista Arabo. Il suo carattere panarabo ne favorì la diffusione dalla Siria agli Stati  vicini, in particolare in Iraq. Nel 1958 uno dei suoi fondatori, Salah Al Din Bitar, allora ministro degli esteri siriano, promosse la costituzione della RAU, la Repubblica Araba Unita, una formazione politica nata dall’unione dell'Egitto con la Siria ed aperta all'allargamento ad altri Stati. La RAU, nonostante l'ambizioso proposito di unificare la politica araba, fallì subito il suo primo obiettivo ovvero quello di potenziare reciprocamente i due Stati aderenti. L'unione si sciolse nel 1961 (anche se l’Egitto mantenne la denominazione ufficiale di RAU fino al 1971) quando la Siria se ne distaccò a causa di divergenze con l'altro Stato partner. Attualmente l'unico Paese ancora governato da un regime baathista è la Siria di Bashar Al Assad. La resistenza di Bashar Al Assad nella lunga e cruenta guerra civile, che da più di cinque anni contrappone con alterne vicende il regime di Damasco - che ha l'appoggio esterno di Russia, Iran e Siria - all' Esercito Siriano Libero e alle milizie islamiche di Jabat Al Nusra, potrebbe indurre a ritenere che il baathismo sia ancora un forte elemento di coesione capace di garantire equilibri politici e religiosi. In realtà la sopravvivenza del regime baathista siriano si fonda solo su quarant'anni di potere assoluto, che ha cancellato la coscienza critica collettiva ed eliminato qualsiasi occasione di dialogo e di crescita politica. A conferma di questa congettura, quando scoppiò la guerra civile in Siria, mentre le forze sunnite si coalizzarono rapidamente contro Bashar Al Assad, le altre comunità come quella dei Drusi e dei Cristiani rimasero incerte tra l'appoggio o l'opposizione al regime, non per motivi ideologici o religiosi, ma per il timore che una Siria senza Assad potesse compromettere la loro esistenza e la loro sicurezza. Il Partito Ba'ath - dopo aver svolto nel periodo post-coloniale una funzione significativa nella scena politica mediorientale, in particolare in Siria, in Iraq, in Egitto (durante il regime di  Gamal Abd Al Nasser) e in Libia (durante la dittatura di Muhammar Gheddafi) - attualmente non assume rilevanza   politica. In particolare, a seguito della fine dell'esperienza della Repubblica Araba Unita e dopo la sconfitta, nel 1967, di Egitto, Siria e Giordania nella Guerra dei Sei Giorni, tutti i partiti arabi di ispirazione socialista, come il Ba'ath, conobbero un definitivo calo di consensi.  Per supplire a questa diminuzione di consenso, Hafiz Al Assad, enfatizzò nel suo governo la componente religiosa (alawita) al fine di avvicinare la popolazione  progressivamente all'Islam, che veniva percepito come un elemento non compromesso dai fallimenti della politica interna ed estera del Movimento Ba'th. Come è evidenziato dalla vicenda siriana, il fallimento dell'esperienza laica del partito Ba'ath, fu una delle premesse per l'ascesa dell'Islam politico, definito più sinteticamente anche con il termine 'islamismo'. Questo processo è stato particolarmente evidente con la Primavera araba: i moti rivoluzionari, sebbene ebbero un carattere iniziale spiccatamente laico - in quanto i manifestanti non scesero in piazza in nome dell'Islam, ma inneggiavano ai valori universali della dignità, della giustizia e della libertà -, approdarono ad esiti fondamentalisti ovvero a forme di Islam politico, in quanto, nel richiedere i diritti, i popoli arabi non potevano considerare come riferimento le democrazie laiche occidentali, da sempre demonizzate e ritenute corrotte e lontane da valori spirituali, ma potevano essere reputati adeguate alternative solo i regimi fondati su una piena e integrale applicazione dei valori dell'Islam. Anche l'Afghanistan ebbe un'esperienza di governo socialista, ma fu solo per giustificare la presenza militare sovietica, in quanto l'orientamento del regime non ebbe incisività a livello amministrativo nell'organizzazione politica e sociale, dal momento che il controllo del territorio rimase nelle mani dei gruppi tribali. Inoltre solo in Iraq e in Siria - e non in Afghanistan -  in epoca coloniale si costituì  un'elite in grado di elaborare una cultura nella quale elementi del socialismo potessero associarsi a quelli della cultura araba; va aggiunto che a differenza di quello che avvenne in occidente (ad esempio in URSS, fonte di ispirazione per il partito Ba'ath), la visione laica socialista diffusa nel mondo arabo non fu mai particolarmente ostile all'Islam, limitandosi ad auspicare solo che la spiritualità rimanesse confinata nella sfera privata. Pertanto al tramonto dell'ideologia laica del partito Ba'ath, è subentrata l'ascesa del'Islam politico, che tuttavia sta dimostrando tutti i suoi limiti di forza reazionaria incapace di coniugarsi con la modernità. Potrebbe essere alle porte un post islamismo, caratterizzato dal ritorno ad una visione politica di impronta laica mediata dall'Islam, ovvero nella quale verrebbero difesi solo quei principi dell'Islam che non sono negoziabili (in parziale analogia a quanto avviene nelle società occidentali laiche nelle quali la maggioranza della popolazione è di fede cattolica). RR    

LA MUSICA ARABA JAZZ (29-12-2015) 
Parlare di ‘musica jazz araba’ a prima vista può sembrare contraddittorio. La musica araba ha una particolare solida omogeneità in quanto è tipica di popoli che vivono in Paesi - come Iraq, Siria, Giordania, Libano, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania e Sudan - che hanno in comune la cultura, la lingua araba, la religione. Il tipico fluire di omofonie e fraseggi, senza strutturazioni e architetture sonore, non sembrerebbe a prima vista conciliabile con le caratteristiche del jazz, nel quale – a prescindere dalla difficoltà di una sua definizione e tipizzazione unitaria – spesso la trasgressività e l’improvvisazione si sublimano in un processo creativo che produce melodie che si articolano su una linea prefissata di accordi, con armonie complesse, anche dissonanti, mentre la base ritmica in genere manca della fluidità tipica della musica araba, in quanto è caratterizzata da pause, accenti, anticipi e ritardi. Al contrario, nonostante queste differenze, negli ultimi anni numerosi artisti arabi hanno declinato con ottimi risultati la componente etnica delle sonorità espresse dai loro strumenti, ricca di sfumature, con i ritmi e i passaggi solistici tipici del jazz. Peraltro la musica araba ha una specifica caratteristica che costituisce un importante valore aggiunto, che conferisce al risultato finale un attributo di particolare pienezza sonora: le scale musicali arabe non hanno solo i toni e i semitoni ma anche i quarti di tono. Conseguentemente le note sono ventiquattro invece delle nostre dodici. Gli intervalli tra le note inoltre non sono tutti fissi ma la loro ampiezza varia. Inoltre l’armonia generalmente manca, in quanto la musica araba si articola su un’unica linea melodica nel contesto di un accompagnamento ritmico, mentre altri strumenti eseguono la stessa melodia all'unisono o a distanza di un'ottava.  Questi musicisti del cosiddetto ‘arabian jazz’ inoltre esaltano la componente timbrica dei loro strumenti, tra i quali il più tipico è l’oud, uno strumento cordofono, simile a un liuto a manico corto, di probabile origina persiana. Questo per quanto riguarda gli aspetti formali. Da un punto di vista ‘contenutistico’ la musica araba riproposta in chiave jazz sembra ispirarsi talvolta a silenziosi paesaggi desertici, in altri casi ai chiassosi mercati arabi. RR

Alcuni esempi particolarmente riusciti (clikka sul titolo): 

Il piano di pace dell'Onu per la Siria (22-12-2015)  
Finalmente il 18 dicembre 2015 l'Onu è uscito dal suo fisiologico immobilismo e si è accesa la speranza di una soluzione per il conflitto siriano. Il Consiglio di Sicurezza ha raggiunto un accordo mediante un approccio più costruttivo e neutrale sulla questione: è stata infatti adottata una risoluzione che chiede un cessate il fuoco su tutto il territorio siriano e promuove fin da gennaio negoziati di pace.  Il Consiglio di sicurezza, prendendo atto dell'insostenibile situazione umanitaria che, già terribile, continua a peggiorare, ha ritenuto che l'unica possibile soluzione sia un processo politico guidato dagli stessi siriani, che risponda alle legittime aspirazioni del popolo siriano e che  promuova una transizione politica guidata da un’autorità che abbia pieni poteri esecutivi, istituita sulla base di un comune accordo fra le parti in conflitto, e che operi in condizioni che assicurino la continuità delle istituzioni statali. In questo contesto svolgerà un ruolo centrale il Gruppo di Sostegno Internazionale per la Siria, formato da 17 Paesi e tre organizzazioni multilaterali. Fin dal prossimo gennaio il Segretario Generale delle Nazioni Unite e il suo Inviato per la Siria, Staffan de Mistura, adotteranno tutte le iniziative necessarie per riunire i rappresentanti del governo siriano e dell’opposizione, e per intraprendere con urgenza dei negoziati formali. L'insediamento di un governo di transizione credibile dovrebbe in breve convocare libere elezioni alle quali dovrebbero partecipare tutti i siriani, compresi quelli della 'diaspora'. Con riferimento ai tanti conflitti locali e alle speculazioni finanziarie che li alimentano, Papa Francesco ha precisato che "...stiamo vivendo una Terza Guerra Mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto...". Il conflitto siriano per l'ampio coinvolgimento di Stati nelle operazioni belliche e per la contrapposizione fra il fronte occidentale e la Russia è sicuramente parte di questo amaro mosaico. L'eventuale successo della via negoziale sotto la mediazione dell'Onu avrebbe un secondario ma non meno importante risvolto: dopo anni di immobilismo l'Organizzazione delle Nazioni Unite riacquisterebbe la pienezza del suo ruolo.  RR

LA GEOPOLITICA DELLE EMOZIONI (20-12-2015) 
Cercando di interpretare le contrapposizioni che hanno caratterizzato lo scenario internazionale nell'anno che si sta chiudendo, mi capita spesso di pensare alla geopolitica delle emozioni, oggetto di un fortunato saggio scritto qualche anno fa dallo studioso francese Dominique Moisi. Negli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione del saggio stava acquisendo sempre più credito la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà: secondo lo studioso statunitense in futuro le fonti fondamentali di conflitto fra i popoli non sarebbero state né di natura ideologica né legate a rivendicazioni economiche, ma avrebbero trovato la loro origine nelle differenti identità religiose e culturali, che avrebbero diviso nazioni, Paesi, gruppi ed etnie. Da queste premesse risulta naturale collocare il confronto in atto fra Islam e Occidente nello scenario previsto da Huntington; tuttavia questa tesi, che accomuna indiscriminatamente la religione musulmana al fondamentalismo, viene smentita nell'auspicio che fedi e culture diverse possano coesistere pacificamente e cooperare. Purtroppo i fatti mostrano un incremento dell'islamismo jihadista, che fomenta divisioni anche all'interno del mondo arabo, mentre negli ambienti politici statunitensi ed europei cresce come reazione un generalizzato pregiudizio islamofobo. Inoltre l'aumento degli attacchi contro cristiani, indù e musulmani sciiti prova che tutti i conflitti religiosi si stanno radicalizzando. La possibile veridicità della tesi di Huntington sullo scontro di civiltà spaventa perché il multiculturalismo - cioè la pacifica convivenza di religioni e culture - non è un'ingenua aspirazione buonista, ma è l'unica alternativa alla violenza, al terrorismo, alle persecuzioni, alle stragi. La geopolitica delle emozioni fornisce una chiave di lettura diversa, meno apocalittica ma altrettanto suggestiva; secondo questa tesi i conflitti attuali sarebbero radicati soprattutto su pregresse specifiche contingenze storiche, che avrebbero determinato la creazione di zone omogenee sotto il profilo delle motivazioni emozionali. In particolare l'Occidente - considerato non in senso geografico ma come l'insieme delle aree tradizionalmente definite industrializzate, e quindi Europa occidentale, Usa, Giappone - sarebbe dominato dalla cultura della paura; i Paesi arabi e il mondo musulmano sarebbero condizionati dalla cultura dell'umiliazione, mentre la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti sarebbero animati dalla cultura della speranza. Lo scontro di civiltà è sostituito dallo scontro delle emozioni. Più in dettaglio, il mondo occidentale vive nel timore di perdere la propria identità a causa dei flussi migratori e delle concorrenti culture diverse. L'Europa, anche se è ossessionata dall'oblio delle proprie origini, è assillata dal rispetto per chi è portatore di valori diversi, e non raramente, in virtù di una non richiesta dissociazione dal patrimonio delle acquisizioni storiche, rinnega le proprie radici, nello specifico quelle giudaiche e quelle cristiane. A livello globale, poi, la società occidentale convive con il terrore di perdere la propria posizione etnocentrica maturata nei secoli. I disperati che vengono dai confini del mondo fuggendo una miseria inumana e le atrocità delle guerre insidiano, con una competitività dettata dalla lotta per la sopravvivenza che può degenerare in aggressività e violenza, l'ordine sociale consolidato che, seppur discutibile, inadeguato, iniquo e presupposto della cristallizzazione di conflittualità irrisolte, ha garantito nel tempo stabilità e sicurezza al sistema. Inoltre il capitalismo finanziario e speculativo non regge l'impatto con le economie emergenti, più solide in quanto fondate su produttività e risorse, e questo crea un generale clima di precarietà. Alla paura dell'Occidente si contrappone l'umiliazione della Russia che ha vissuto il crepuscolo di un grande impero: accanto al rimpianto per un passato nel quale lo sterminato universo sovietico ha dominato la scena mondiale, c'è la volontà di riemergere, di ritrovare la grandezza pregressa, di non arrendersi al tramonto definitivo di un'indiscussa centralità nelle vicende politiche mondiali, di non soccombere alla perdita di una leadership condivisa alla pari solo con gli Stati Uniti. Anche i Paesi arabi, e più in generale il mondo musulmano, sono dominati da un sentimento di umiliazione. Questi popoli si sentono defraudati dalla Storia che non ha riconosciuto il ruolo centrale che avrebbero meritato per la loro civiltà e per l'essere portatori di una verità rivelata, quella fissata nel Corano. È maturata in essi la consapevolezza di essere stati emarginati negli ultimi decenni dalla politica mondiale, e, in ultimo, dalla globalizzazione, mentre il baricentro di qualsiasi vicenda si consumava in Occidente. Purtroppo l'umiliazione può essere il presupposto di reazioni devastanti, può degenerare in odio come le derive jihadiste dimostrano. L’Asia, invece, anche se versa in condizioni di capillare arretratezza e povertà, è animata dalla speranza che si radica sulla fondata aspirazione ad una prosperità futura, alimentata da un'economia in pieno sviluppo, mentre quella delle altre aree del mondo vive una pericolosa stagnazione; questo sostiene la voglia di progresso e la volontà di riuscire, mentre l'ottimismo è un prezioso tonico per i mercati finanziari. Cina e India sono le punte avanzate di questa condizione; sembra che abbiano fatto propria la suggestiva massima di Lao Tse, che rivolgo ad ognuno come augurio per il prossimo anno: "Un viaggio di mille chilometri incomincia sempre con un piccolo passo". RR

UN PO’ DI ORDINE SULLA QUESTIONE DEL VELO ISLAMICO (8-12-2015) 
Torna periodicamente di attualità la nota questione della compatibilità, con le normative vigenti nei Paesi occidentali, dell’abbigliamento delle donne musulmane, genericamente indicato con l’espressione di ‘velo islamico’, che in alcune sue versioni è in grado di occultare l’identità di chi lo indossa. Il tema è particolarmente attuale in questi giorni in cui la sicurezza dei cittadini e il mantenimento delle condizioni che ne costituiscono il presupposto  sono di primaria importanza anche in relazione all’inizio del Giubileo della Misericordia e alle minacce che provengono dallo Stato islamico. Innanzitutto l’uso di determinate tipologie di velo sembra essere una questione culturale e non solo  religiosa. Il Corano infatti non prescrive un determinato tipo di velo. Nella Sura XXIV si dice: “…di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere una copertura fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri, che ai loro mariti, ai loro padri…”. Pertanto non si menziona  espressamente la copertura del viso, ma si prescrive di sottrarre allo sguardo degli altri le bellezze tipicamente femminili ovvero le forme  del corpo; si tratta in sintesi di un generico invito alla modestia nel vestire, di un dovere che, pur esprimendo l’identità islamica della donna, va declinato culturalmente. Nell’originale arabo del versetto si usa il termine ‘khumur’, che genericamente indica il velo che copre la testa. In proposito, le donne di Medina nell’era pre-islamica erano solite indossare ilkhumur’ sulla testa con i due estremi legati dietro il collo. Nella Sura XXXIII si prescrive di coprirsi con i ‘jalabib’. Il ‘jilbab’ (singolare di ‘jalabib’), era una camicia ampia, un abito più lungo del velo: quindi l’abbigliamento completo non consisterebbe soltanto in un velo che copre la testa, il collo e il seno, ma includerebbe anche l’abito completo che deve essere lungo e largo. Al riguardo un sito islamico precisa che la combinazione di una maglia corta e stretta e jeans attillati con un velo sulla testa non rispetterebbe i requisiti del codice di abbigliamento prescritto dalle Sure XXIV e XXXIII. In concreto si contrappone anche su questo terreno un’interpretazione fondamentalista che privilegia l’uso di un abbigliamento particolarmente ‘rigoroso’ prescrivendo veli che celano anche il viso, ad una lettura  meno ‘invasiva’, più adeguata ai tempi. Pertanto l’uso in occidente di un determinato tipo di velo non trova fondamento solo nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. A conferma di quanto si afferma in Francia molte donne algerine che ormai sono in Europa da diverse generazioni si sono adeguate ai costumi occidentali pur essendo di fede islamica, mentre fra molte giovani studentesse di origine maghrebina c’è un ritorno all’uso del velo islamico al fine di ricordare ed evidenziare le proprie origini. Per quanto riguarda le tipologie di velo con il termine burqa si intendono due tipi di abbigliamento: il primo è un telo, che copre l'intera testa permettendo alla donna di vedere solo attraverso un’apertura all'altezza degli occhi; l’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, solitamente di colore blu, copre sia la testa sia il corpo; all'altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi; è diffuso principalmente in Afghanistan.  Lo chador è invece un indumento tradizionale originario dell'Iran simile ad una mantella ed è un velo indossato dalle donne quando devono comparire in pubblico; ricopre il capo e le spalle, ma lascia scoperto il viso, tenuto chiuso sotto il mento ad incorniciare il volto; oltre che in Iran è molto diffuso in  Medio Oriente. Il tessuto può essere chiaro o con fantasie stampate; tuttavia in Iran le autorità religiose consigliano che il velo sia scuro. Il niqab è un tipo di velo che copre la figura della donna lasciando scoperti solo gli occhi. Si compone in due parti: la prima è formata da un fazzoletto di stoffa leggero che viene collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e bocca, legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è formata da un pezzo di stoffa molto più ampio del primo, che nasconde i capelli e buona parte del busto;  è molto usato dalle donne saudite. È di colore nero. Esistono poi varianti locali, come il niqab yemenita, che differiscono di poco dal modello ‘base’. L' hijab, diffuso soprattutto in Egitto, copre solo i capelli. Ognuna di queste tipologie di abbigliamento è dunque fortemente legata all'area di appartenenza geografica della donna che lo indossa. Si pone il  problema della compatibilità di questo abbigliamento con gli usi occidentali in quanto il travisamento che ne può risultare, potrebbe essere contrario all'ordine pubblico, in quanto, oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, potrebbe costituire un mezzo per l'occultamento di materiale esplodente, armi o, in ogni caso, oggetti o sostanze non consentiti. In proposito, per quanto riguarda la legislazione italiana l'art. 2 della Legge 8/8/1977 così recita: “….è vietato l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.…”.   Pertanto, il travisamento può essere consentito solo per giustificati motivi. Ad esempio, il casco per i motociclisti o le protezioni per determinate attività pericolose sono fuori dalla portata dell'applicazione delle norme in quanto finalizzate al prevalente interesse della salute.  La matrice religiosa può costituire un giustificato motivo? L'interesse individuale al rispetto delle manifestazioni esteriori del proprio credo religioso può prevalere sulle esigenze di sicurezza e di ordine pubblico della collettività? In proposito, sulla interpretazione della clausola ‘senza giustificato motivo’ si è espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto che la matrice religiosa possa essere un giustificato motivo per circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che copra il viso. Probabilmente alla luce delle attuali priorità di sicurezza, questo parere andrebbe rivisto; non dovrebbe essere consentito il travisamento in queste circostanze. Peraltro in uno stato laico nell’ipotesi di conflitto fra le norme prescritte da una fede religiosa e precetti dello Stato, generalmente  questi ultimi dovrebbero prevalere. Attualmente in Belgio e in Francia è vigente il divieto di indossare il velo islamico in tutti i luoghi pubblici.  Nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha dichiarato che questi provvedimenti non ledono la libertà di religione. RR

LE PERICOLOSE DIVISIONI DELL’OCCIDENTE (3-12-2015)  
Le divisioni dottrinali e politiche sono sempre state una fisiologica caratteristica del mondo arabo, che spesso è stata causa di debolezza e di mancanza di coesione strategica. È nota  la massima che dice: “Gli arabi sono d’accordo nel non essere d’accordo”; in proposito, la ‘Lega degli Stati arabi’, che aveva come obiettivo il Panarabismo ovvero la volontà di unificare la ‘nazione araba’ opponendosi ai nazionalismi locali attraverso il potenziamento dei valori comuni e la difesa dalle ingerenze delle potenze straniere, fin dalla sua creazione nel 1945 da parte di sette Paesi arabi tra cui la Siria fu caratterizzata da insanabili discordie intestine che ne indebolirono o paralizzarono le iniziative. Nell’attuale crisi relativa al contrasto dell’Isis sembra invece che pericolosi contrasti dividano il fronte che si oppone allo Stato Islamico, che nel frattempo può consolidarsi e continuare a fare affari con le istituzioni finanziarie di alcuni dei suoi presunti nemici. Più in particolare, mentre gli Stati sunniti sembrano solo formalmente opporsi a Daesh, una clima di tensione da rinnovata guerra fredda coinvolge i Paesi delle due coalizioni anti-Isis; questa situazione si traduce in un vantaggio per il terrorismo di matrice islamica, che ha compiuto in questi ultimi anni un salto qualitativo, avendo ora come riferimento uno Stato - seppur ibrido - che ha un territorio e un’economia, e che propone il modello di un regime confessionale e teocratico, che di fatto riprende e rafforza  la prospettiva   mai abbandonata della ricostituzione del Califfato. Già le accese e polarizzate discussioni in Occidente sul concetto di Fondamentalismo e Islam ‘moderato’ non solo sembrano superate dai fatti, ma costituiscono un vantaggio che si concede al Jihadismo,    che può attribuire la dignità ideologica di scontro di civiltà ad un conflitto che è esclusivamente nei confronti di terroristi. Come già specificato in altri commenti, separare l’Islam - come confessione religiosa - dall’Isis non è una scelta solo garantista - talvolta ingenerosamente definita ‘buonista’ - ma è un’opzione di natura strategica, perché serve a circoscrivere un nemico evitando che possa valersi di una più ampia base ideologica in grado di suggestionare, coalizzare e mobilitare parte del mondo arabo e islamico. Per quanto riguarda la guerra all’Isis, al di là delle dichiarazioni ufficiali dei singoli Stati coinvolti, la situazione è di un generalizzato totale disaccordo a vantaggio dello  Stato Islamico. Gli Stati arabi e la Turchia temono che l’Iran possa continuare ad avere nella Siria del dopo Assad un prezioso referente nella regione e a valersi di un passaggio verso il Mediterraneo, la Russia difende i suoi affari con l’attuale governo siriano, gli Stati Uniti e l’Europa non hanno una chiara strategia e di fatto si oppongono ai nemici dell’Isis, cioè combattono i nemici del nemico. Nel frattempo i turchi ne approfittano per bombardare i curdi, i russi per indebolire l’opposizione siriana.  Di fatto la coalizione guidata dagli Stati Uniti e la Russia si trovano pericolosamente contrapposte. Il conflitto da latente è divenuto manifesto con l’incidente fra Russia e Turchia, che ha instaurato un crisi da guerra fredda destinato ad acuirsi con la possibile espansione della Nato in Montenegro. RR

FONDAMENTALISMO E TERRORISMO (27-11-2015) 
Il Fondamentalismo è un atteggiamento conservatore e di reazione nei confronti di qualsiasi forma di modernità al fine di proteggere con ogni mezzo l’ortodossia. Nel linguaggio comune i termini Fondamentalismo, Integralismo e Radicalismo possono essere considerati sinonimi quando esprimono un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti di testi o teorie non necessariamente religiose. Comunemente la parola ‘fondamentalismo’, usata per definire un attivismo politico di tipo religioso, viene associata all’Islam. Tuttavia il Fondamentalismo ha avuto la sua origine alla fine del XIX secolo in ambito protestante, per designare all’interno della Chiesa Battista una corrente che si opponeva al razionalismo e al modernismo, e affermava l’opportunità di un’interpretazione letterale dei fondamenti della fede cristiana. Il termine è stato poi esteso a tutti i punti di vista che, insistendo sull’interpretazione letterale di testi sacri quali la Bibbia o il Corano, avevano carattere antimodernista all’interno delle rispettive religioni. Il filosofo Juergensmeyer ha evidenziato la genericità del termine ‘Fondamentalismo’, troppo vago e scarsamente connotato dal punto di vista politico, ritenendo più significativo l’uso della locuzione ‘nazionalismo religioso’. Il ‘nazionalismo religioso’ è infatti la sintesi fra il nazionalismo, inteso come l’insieme dei valori del patrimonio culturale e spirituale espressione di una collettività omogenea, e un particolare credo religioso. È questa relazione che può in concreto determinare la politicizzazione della religione e l’influenza della religione sulla politica nazionale. Nella Chiesa Cattolica nel secolo scorso è stata espressione di un’istanza fondamentalista la condotta dell’arcivescovo Marcel Lefebvre, che era profondamente ostile allo spirito innovatore del Concilio Vaticano II. Il Fondamentalismo quindi non è una caratteristica esclusiva degli ambienti islamici Sicuramente in ambiente islamico il Fondamentalismo può essere incoraggiato dal tipo di formazione che si riceve nelle madrase,  che induce o rafforza sentimenti dai connotati fortemente anti-occidentali, che tuttavia non possono essere considerati il presupposto necessario e sufficiente delle iniziative terroristiche. Il terrorismo è  un fenomeno degenerativo della contrapposizione fra Islam e mondo occidentale; si manifesta a livello internazionale avvalendosi anche di ambigui equilibri geopolitici e di discutibili motivazioni culturali; ha una particolare genesi, che è complessa e articolata. Il terrorismo presuppone la disponibilità di ingenti capitali per la formazione e l’addestramento dei militanti e per l’attuazione dei progetti criminosi; è necessario il contributo di personalità aventi particolari capacità organizzative e carismatiche, nonché la connivenza di alcuni Stati che forniscano rifugio e supporto organizzativo (i così detti ‘Stati canaglia’). È inquietante tuttavia che dagli ambienti fondamentalisti islamici provenga non raramente una simpatia per le iniziative terroristiche, che sono percepite come strumentali alla prevalenza dell’Islam sull’Occidente infedele e miscredente. In proposito, un efficace contrasto del terrorismo richiede che ne vengano meno le giustificazioni politiche e ideologiche, e il sostegno popolare. Pertanto, il Fondamentalismo si distingue dal terrorismo perché si esaurisce  nello sviluppo di una cultura di forte opposizione all’Occidente, purché sia chiara la sua dissociazione dalle derive violente. In proposito come corollario di chiusura va anche precisato che la libertà di culto non può mai costituire una malintesa area franca che assicuri l’impunità, ma presuppone per il suo legittimo esercizio il rispetto dei principi di giustizia e di democrazia strutturati nei rispettivi ordinamenti nazionali. Probabilmente si dovrebbe riflettere anche su questo; negli ultimi 20 anni, negli Stati  Uniti sono stati compiuti attentati contro centri per omosessuali, nei confronti di medici abortisti e delle loro cliniche, da terroristi che si sono dichiarati  o di fede cattolica, o luterana, o presbiteriana. Tuttavia a nessuno (giustamente) è venuto in mente di avviare una riflessione sulla compatibilità tra fede cristiana e democrazia, o confondere queste iniziative estremistiche e i metodi violenti per supportarle con  le posizioni delle corrispondenti Chiese. In altri termini è facile cedere alla tentazione di usare la religione come alibi per giustificare la violenza contro un proprio nemico, ma è assurdo confondere  tutto questo con la religione stessa. Inoltre, come i terroristi di Parigi urlavano ‘Allahu akbar’, anche gli appartenenti al Ku Klux Klan, quando commettevano i loro misfatti, dicevano di ispirarsi a specifici versetti della Bibbia, che menzionavano nei loro documenti farneticanti; ma nessuno confonderebbe il Ku Klux Klan con il pensiero cristiano. In altri termini, anche se si va radicando una diversa convinzione, confondere il terrorismo e il radicalismo con l’ordinaria professione della fede musulmana - a prescindere dalle dispute sull’interpretazione del Corano - non sembra ragionevole. Ed è anche un errore strategico perché considerare tutto il mondo islamico coalizzato e contrapposto all’Occidente alimenta la congettura che sia in atto uno scontro di civiltà fra Islam e Occidente, del quale la guerra asimmetrica con il terrorismo è la punta avanzata. Ed il terrorismo è alla ricerca di una base ideologica sempre più ampia e condivisa; al contrario, come tante esperienze pregresse dimostrano, la sconfitta del terrorismo presuppone il suo isolamento. RR

LA MANIFESTAZIONE NOT IN MY NAME (22-11-2015) 
La manifestazione di ieri Not in my name ripropone il tema dei rapporti fra l’Islam e lo Jihadismo, soprattutto se quest’ultimo, ovvero una ridotta frangia che pratica il ricorso alla violenza come strumento di affermazione di una malintesa fede religiosa, possa essere considerato una fisiologica espressione dell’Islam. I  gruppi di matrice integralista - a maggior ragione se violenti - di norma non sono il correlato della corrispondente religione, soprattutto qualora questa abbia un’ampia e complessa articolazione. Per quanto l’esempio sia improprio e non corretto poiché si riferisce ad un fenomeno sostanzialmente diverso, considerare lo Jihadismo coincidente con l’Islam sarebbe come ritenere un limitato gruppo tradizionalista, come i lefebvriani, il precipitato del cattolicesimo ufficiale. La questione è un’altra, ovvero quella di riuscire a conoscere la reale  valutazione del Fondamentalismo da parte delle comunità dei musulmani. Infatti ad essi viene rimproverato un atteggiamento di non chiara e adeguata dissociazione dal terrorismo, in particolare dai progetti sanguinari del neocaliffato islamico. La partecipazione non particolarmente consistente in relazione all’entità della comunità musulmana in Italia, di musulmani ‘moderati’ alle manifestazioni di sabato può indurre in alcuni il sospetto dell’esistenza di una riserva mentale di parte degli islamici, cioè di una divergenza fra le dichiarazioni e i reali convincimenti. Questa congettura purtroppo potrebbe trovare conferma nell’ignobile comportamento di quei tifosi turchi che in occasione dell’incontro di calcio Turchia - Grecia hanno fischiato sonoramente durante il minuto di silenzio in ricordo delle vittime degli attentati di Parigi intonando anche il coro ‘Allahu Akbar’ (Allah è grande). Non si è trattato di una voce isolata o dei soliti ‘quattro teppisti stupidi’, ma di una parte consistente dello stadio. Una vergogna, senza nessuna giustificazione, che crea dubbi sulla reale entità dei musulmani ‘moderati’. Tuttavia la manifestazione ‘not in my name’ resta un segnale positivo in quanto ha lanciato un appello ad una svolta nei rapporti fra Islam e società civile italiana, di cui i musulmani affermano di sentirsi parte integrante. Sono altresì molto timidi i segnali di solidarietà nei confronti delle discriminazioni e del martirio che i cristiani subiscono in alcune aree del mondo non di rado sotto l’influenza di regimi islamici. Il confronto fra Islam e Occidente risale alla nascita di questa religione. L’Islam, come detto più volte, prescrive il jihad, che fra le varie interpretazioni ha quella di una mobilitazione collettiva per la sottomissione, con ogni mezzo, degli infedeli. Questo principio religioso supportato da una collaudata combattività spinse i popoli arabi fin dal VII secolo a intraprendere iniziative di conquista territoriale sia verso oriente, sia verso occidente. Queste incursioni furono irrefrenabili: gli arabi nei secoli successivi crearono un immenso dominio dirigendosi in Asia, in Africa e in Europa. Conquistarono la Siria, l’Egitto e smembrarono l’Impero persiano; si spinsero in India, in Africa del Nord, e occuparono la Spagna. Con le conquiste militari si è nello stesso tempo diffusa la fede musulmana. Questo impero, a seguito della disfatta del califfato ottomano  subita nella Prima Guerra Mondiale, fu definitivamente sciolto nel 1922. Le Crociate furono un momento di grande crisi nei rapporti fra mondo occidentale cristiano e mondo musulmano. Le vicende storiche hanno reso palese che Islam e Occidente sono mondi completamente diversi. L’Occidente, venendo a contatto con la società musulmana, ha avuto il limite di stimare la nuova civiltà con i propri parametri di valutazione. Si è così consolidata l’immagine di un Islam dispotico e violento, nonostante la convivenza pacifica in molte zone d’Europa – come in Spagna – con le altre due religioni monoteiste, ovvero l’Ebraismo e il Cristianesimo; si è radicata anche la congettura che l’Islam sia rozzo, nonostante l’apporto arabo alla cultura e all’arte. Tuttavia, come ha precisato la scrittrice somala Ayaan Hirsi Ali, criticare l’Islam non significa rifiutare i fedeli, ma soltanto quei precetti islamici che, ove tradotti in comportamenti, hanno conseguenze disumane. In altri termini la libertà di culto non può costituire un’area franca, che assicura l’impunità, ma presuppone, per il suo legittimo esercizio, il rispetto delle norme dell’ordinamento giuridico. Come dire che piuttosto che di Islam ‘tollerante’, sia più pragmatico parlare di Islam ‘tollerato’, intendendo con questa poco felice espressione l’Islam che legittimamente si esprime entro i limiti positivi della legge. RR

BOMBARDARE LO STATO ISLAMICO? (20-11-2015) 
In questi giorni è sempre più insistente la voce di chi nei mass media e nei contesti politici manifesta la necessità di una reazione forte nei confronti dell’Isis, che si rende ulteriormente necessaria dopo l’iniziativa criminale jihadista in Mali, che si concreti almeno in azioni operative come bombardamenti nelle zone siriane e irachene occupate dallo Stato Islamico. In proposito, la questione va affrontata cercando di evitare l’influenza della comprensibile emotività del momento. Prescindendo dalle considerazioni etiche relative all’incidenza del lancio di bombe su civili e dalle valutazioni relative all’efficacia di bombardamenti alla cieca  – tali sarebbero se non fossero supportati dalle necessarie informazioni sugli obiettivi da colpire che possono essere fornite solo da una presenza militare on the ground –, devono essere svolte alcune valutazioni strategiche. Innanzitutto va considerato che, se in questi anni l’Italia non ha subito gravi atti terroristici a differenza di altri Paesi (Usa, Francia, Regno Unito, Spagna, etc.,), tutto questo è dovuto probabilmente non solo alla professionalità dell’apparato di sicurezza, ma anche ad una politica estera che, fin dai tempi dei governi Andreotti, ha mantenuto una prudente e talvolta pilatesca equidistanza nella questione israelo –palestinese, e non ha mai intrapreso crociate nei confronti del mondo islamico. Emblematico il famoso episodio di Sigonella. Naturalmente questo non significa che l’Italia per opportunismo politico e interessi egoistici debba sottrarsi ai suoi impegni internazionali, tuttavia ci si deve chiedere se valga la pena esporsi facendo parte di una coalizione che non ha una strategia e una vera leadership, che è guidata da un Paese, gli Usa, che ha responsabilità sulla nascita dello Stato Islamico e sulla carriera di Al Baghdadi e che ha un ruolo ambiguo nella questione, che comprende 5 Stati arabi sunniti (Giordania, Arabia Saudita, Barhein, Emirati Arabi Uniti e Qatar) che, a parte un atteggiamento di facciata, non si sa da che parte stiano (o forse si sa), e che è integrata dalla Turchia che preferisce colpire i curdi o il PKK (che combattono l’Isis) piuttosto che lo Stato Islamico. In realtà, oltre alla Francia, all’Iran e ai curdi, solo la Russia sta svolgendo una coerente e lineare politica di contrasto nei confronti dell’Isis. Il cinico e sinistro Putin può essere il reale alleato dell’Occidente contro l’Isis? Sicuramente Putin non è un benefattore né un filantropo, ha un suo progetto in testa. Ma gli alleati in politica estera non devono essere belli, buoni, migliori degli altri, ma è necessario e sufficiente che condividano l’avversione per uno stesso nemico. RR

DICHIARAZIONE DI GUERRA E CLAUSOLA DI SOLIDARIETA’ (19-11-2015)
Probabilmente quando il Presidente francese a poche ore dai tragici fatti di Parigi ha annunciato che la Francia era in guerra, aveva già in mente la possibile applicazione della clausola di solidarietà contenuta nell’articolo 42 paragrafo 7 introdotto nella versione consolidata del Trattato dell’Unione Europea a seguito dell’accordo di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007), che così recita: “Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite…” In altri termini dire che la Francia era in guerra perché aveva ricevuto un’aggressione equivaleva a dire che tutta l’Unione Europea era in guerra al suo fianco. Per quanto il problema sia irrilevante e superato poiché la responsabile della politica estera comunitaria Federica Mogherini ha già annunciato il sostegno del Consiglio di Difesa della Unione all'attivazione della cosiddetta ‘Clausola di difesa collettiva" così come richiesto dai vertici istituzionali francesi, tuttavia l’applicazione della solidarietà prevista dalla norma comunitaria presenta profili non chiari. Il principio dell’articolo 42.7 (del Trattato dell’Unione Europea) in qualche modo è mutuato dall’art. 5 del Trattato istitutivo della Nato del 1949 che così dispone: “Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale.”; l’art. 5 del trattato istitutivo della Nato a sua volta riafferma alcuni principi consacrati nella carta delle Nazioni Unite, in particolare quello sulla legittima difesa dell’art. 51, cioè il diritto di uno Stato di opporre una reazione armata, anche con l’assistenza di Stati terzi, a difesa della propria integrità territoriale e dell’indipendenza politica. Pertanto la genesi della norma comunitaria sembrerebbe indicare che il presupposto della solidarietà sia un attacco armato esterno, sferrato da forze regolari attraverso una frontiera internazionale o attraverso l’invio di bande armate sul territorio di un altro Stato. In altri termini sembra che l’aggressione esterna di cui all’art 42 UE debba essere portata da un Paese nemico. In proposito l’aggressione terroristica di matrice islamica configura l’attacco armato 'esterno' di cui alla norma? Se è provato che i terroristi siano emissari dell’Isis, lo Stato Islamico, non riconosciuto e combattuto da tutta la comunità internazionale, può essere considerato un soggetto di diritto internazionale? Comunque è sicuramente positivo che le esigenze di difesa dell’Unione abbiano prevalso sui cavilli dell’interpretazione giuridica. L’importanza dell’art. 42.7 non va tuttavia enfatizzata in quanto la norma non impone ‘di bombardare’, ma di concordare a livello bilaterali le forme di supporto allo Stato aggredito, che possono essere le più varie e soprattutto anche ‘pacifiche’. Aggiungerei che la coalizione anti-Isis, amica del mondo sunnita e guidata dagli Usa, non sembra abbia una chiara volontà di annientare l’Isis, semmai di contenerne l’espansione, in applicazione al Medio Oriente - come già suggeriva Henry Kissinger - del vecchio principio ‘divide et impera’. Un esempio. Quando si decise di combattere e sconfiggere Al Qaeda, a livello internazionale - dalle Nazioni Unite all’Unione Europea - vennero intraprese serie iniziative per interrompere i flussi di denaro di finanziamento del terrorismo di matrice islamica, come, ad esempio, il congelamento di capitali ‘sospetti’. l’Isis invece oggi continua indisturbato a fare transazioni che hanno per oggetto la vendita sottocosto del petrolio con banche e mondo occidentale. Un ultima considerazione a margine. Fra le segnalazioni allarmistiche che vengono ‘confidenzialmente’ raccolte dai media e comunicate, alcune hanno un carattere particolarmente generico (del tipo: sarà colpito il Vaticano, etc.). Solo alcune segnalazioni hanno questo carattere, la maggior parte sono il frutto di un serio lavoro di analisi e di ‘intelligence’. Le segnalazioni generiche di norma non hanno un grande valore, anche da un punto di vista operativo, perché non aggiungono molto alla misure di sicurezza già predisposte. Se i fatti che ne sono oggetto si verificano servono a dire: “l’avevamo previsto”. Se non si verificano, è grazie alla segnalazione che gli eventi temuti sono stati impediti. In altri termini, non si sbaglia mai. RR
  
JIHADISMO E FANATISMO RELIGIOSO. (17-11-2015)
A seguito di alcuni riflessioni critiche di un caro amico e stimato collega, mi sembra opportuno integrare il commento di ieri. Non vi è una perfetta e simmetrica assimilazione fra terrorismo ‘politico’ e terrorismo ‘religioso’, nello specifico di matrice ‘islamica’. I terroristi che agiscono per l’affermazione di una fede si sentono mandatari di un disegno divino; conseguentemente le loro iniziative criminose sono sempre il precipitato di un fanatismo religioso - che è un modo esasperato di vivere il proprio credo - che fornisce una base di consenso, più o meno esplicito, ai fenomeno degenerativi. Il fanatismo religioso rende più difficile l’isolamento ideologico e operativo dei terroristi - auspicato nel precedente commento - che possono contare su un limitato ambiente favorevole o almeno non ostile,  e che non si dissocia adeguatamente, con chiarezza e decisione dai loro crimini. Nei contesti nei quali il fanatismo ha il sopravvento non raramente si riscontrano connivenze che, anche attraverso atteggiamenti omertosi, di fatto intralciano le attività istituzionali degli apparati di sicurezza. La lotta al terrorismo di ispirazione religiosa inizia quindi con il contrasto del fanatismo e delle interpretazioni fondamentaliste che non rispettano il pluralismo che integra uno dei connotati essenziali del carattere laico degli Stati occidentali. Questo  atteggiamento ambiguo nei confronti del terrorismo riguarda naturalmente solo una parte del mondo musulmano, che quindi non va demonizzato nel suo complesso. Tuttavia è indubbio che la collaterale e contigua componente del fanatismo religioso renda il terrorismo di matrice islamica particolarmente difficile da contrastare. Peraltro gli stessi musulmani ne sono vittime, in quanto non raramente sono anch’essi vittime degli integralisti. In generale, il terrorismo può essere definito di matrice religiosa quando è animato da motivazioni che trascendono la realtà materiale; conseguentemente gli obiettivi delle singole azioni sono mezzi per la progressiva affermazione di un progetto che si ispira a un ordine soprannaturale che si ritiene di dover affermare ad ogni costo, anche attraverso la perpetrazione di crimini crudeli e sanguinosi come i tragici fatti di Parigi di qualche sera fa dimostrano. Il terrorismo di matrice religiosa ha sempre carattere radicale poiché non ammette alternative alla prevalenza dell’assetto socio-politico che costituisce il corollario del credo religioso. In proposito, la fede religiosa può essere vissuta in due modi: o come rapporto individuale tra l’uomo e il trascendente, o come dimensione afferente la collettività. In questo secondo caso la fede produce gli effetti di un’ideologia in quanto diviene tensione per l’affermazione di un società ‘nuova’ ispirato a un’etica confessionale. L’adesione a una fede religiosa, anche quando rimane confinata nella sfera individuale, può avere rilevanza esterna in quanto spesso il credo religioso impone al fedele il proselitismo al fine di estenderne la condivisione. La fede, quando è vissuta come ideologia, richiede invece un impegno collettivo rivolto al cambiamento sociale. In questo caso, il correlato delle iniziative di proselitismo (che generalmente hanno carattere individuale in quanto si articolano all’interno di una relazione personale) è la militanza, cioè la partecipazione a gruppi (anche armati) nei quali i fedeli si strutturano in maniera para militare per promuovere con ogni mezzo, compreso il ricorso alla violenza più cruda, l’instaurazione di un ordine nel quale le leggi civili sono sostituite da un ordinamento giuridico plasmato sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una degenerazione di questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia sono infatti una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai precetti del Corano, interpretato nella maniera fondamentalista. Concettualmente non vi è soluzione di continuità tra fanatismo e terrorismo; come dicevano gli illuministi, dal fanatismo alla barbarie c’è solo un passo. RR

PARIGI, ISLAM, OCCIDENTE, JIHADISMO. (16-11-2015)
In questi due giorni che sono seguiti ai fatti criminali di Parigi il dibattito anche in sedi qualificate è stato spesso ricondotto ai problematici rapporti fra Islam e Occidente, fornendo peraltro informazioni imprecise spesso conseguenza di un approccio parziale ed etnocentrico. Questo modo di affrontare la questione credo che sia sbagliato. Non mi riferisco al solito e forse insolubile problema circa la reale natura della religione musulmana, alle diverse interpretazioni del Corano, o a come il messaggio di Maometto sia vissuto dai suoi adepti. È noto che la mancanza di una gerarchia religiosa, il cui vertice possa esprimere un punto di vista ufficiale, impedisca di individuare quale Islam – da quello più tollerante a quello più fondamentalista e anti-occidentale – sia quello reale. Gli imam peraltro, che hanno un peso notevole nella formazione dei fedeli ed esercitano su di essi una leadership spirituale, non sono  né chierici, né destinatari di una designazione, ma spesso acquisiscono questo titolo per attribuzione da parte della comunità o per auto-proclamazione, dopo aver approfondito solo lo studio dei testi sacri senza aver maturato una cultura più ampia e globale. È anche vero che sicuramente nel mondo musulmano non è maturata nel tempo la percezione della necessità di stabilire con chiarezza le relazioni fra religione e politica, condizione essenziale per lo sviluppo di principi quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, nonché la libertà di culto. È anche vero che la società islamica è permeata da una religione particolarmente invasiva, caratterizzata da aspetti che, travisati, possono facilmente produrre manifestazioni violente e anti-occidentali. Tuttavia, tutto questo con la lotta al terrorismo non c’entra molto, in quanto le iniziative di contrasto di questa eversione criminale di matrice religiosa prescindono dalle diverse e non raramente opposte opinioni che si abbiano sull’Islam. In generale l’approccio dell’intelligence nei confronto del terrorismo è diverso da quello verso la criminalità sia comune che organizzata, in quanto il terrorismo, diversamente da altre fenomenologie illecite, ha sempre una base ‘culturale’ - per quanto discutibile e deprecabile - che deve essere oggetto di approfondimento e analisi per essere efficacemente contrastata. In altri termini i fenomeni eversivi sono sempre il prodotto sbagliato di una ideologia, della quale il movimento terrorista che ne è il promotore mira ad estenderne la condivisione quanto più possibile, cercando di creare  intorno ad essa il sostegno di un consenso. Per questo collocare il terrorismo jihadista nel contesto del confronto fra Occidente ed Islam è un errore strategico in quanto equivale a favorire quella mobilitazione generale contro il mondo occidentale a cui mirano i terroristi. La sconfitta dei movimenti eversivi del secolo scorso, tutti di matrice politica, ha avuto il suo momento più importante nell’isolamento ideologico dei terroristi dal resto della comunità. Ad esempio, l’atteggiamento neutrale degli intellettuali italiani che si riassumeva nell’inciso ‘né con le Brigate Rosse, né con lo Stato’ finì per favorire i Brigatisti di fatto legittimati a combattere ‘quello’ Stato. In realtà ‘quello’ Stato doveva essere difeso, in quanto, seppur carente, assicurava una vita democratica: quando tutto questo  fu chiaro, attraverso l’isolamento ideologico, furono poste le premesse per la sconfitta dell’eversione rossa. Seppure il terrorismo jihadista abbia peculiarità proprie, le precedenti esperienze maturate nel contrasto ai movimenti terroristici di varia natura sono lessons learned (come si dice nei contesti internazionali) che costituiscono preziose esperienze di cui tenere conto. RR   

GLI ATTENTATI A PARIGI DI IERI SERA. Alcune riflessioni ‘tecniche’. (14-11-2015)
Purtroppo ieri sera è stata un’indimenticabile serata di sangue nella capitale francese. In rapida successione sono stati perpetrati otto attentati terroristici al grido di Allah akbar (‘Allah è grande’) con un bilancio al momento di 139 morti e di circa 350 feriti (di cui molti in gravissime condizioni). I fatti sono noti a tutti, le agenzie di stampa hanno fornito dettagliati e puntuali resoconti. In questo momento i maggiori nemici sono l’emotività e lo sciacallaggio politico che si polarizza intorno a principi estremi che costituiscono un ostacolo anziché un contributo per intraprendere ferme misure che sono ormai indifferibili per fronteggiare questa grave minaccia: da una parte è dannoso alimentare la congettura che l’Occidente sia in ipi e meritevole di essere approfondita. A prescindere daguerra con tutto l’Islam, che sia in atto uno scontro di civiltà, che debba essere visto in ogni musulmano un potenziale terrorista: questo è un modo per supportare involontariamente il jihadismo che vuole coalizzare tutto il mondo musulmano sunnita contro di noi, mentre al contrario - come dimostra anche l’esperienza italiana degli apparati di sicurezza contro le Brigate Rosse - è necessario innanzitutto isolare i terroristi ed evitare che altri (in questo caso di religione islamica), vittime di una propaganda che demonizza la società occidentale comprese le conquiste di libertà e di democrazia, solidarizzino con i criminali. È altrettanto dannoso un cieco e non circostanziato garantismo che rifiuta di prendere atto che siamo in uno stato di guerra che richiede misure emergenziali, e che fa della grave patologia una situazione di ordinaria fisiologia. Seguono alcune riflessioni:

- La perfetta regia degli attentati consente di escludere che l'operazione sia stata posta in essere da locali e isolate cellule dormienti. Al contrario, le modalità esecutive suggeriscono che ci sia stato un accurato coordinamento esterno. Probabilmente gli autori dei crimini sono foreign fighters, ovvero volontari stranieri di ritorno dalla guerra siriana: i terroristi infatti avevano un’ottima conoscenza del territorio parigino e della lingua francese, e una disinvoltura operativa probabile risultato delle esperienze belliche maturate in Siria o in Irak. Il loro modus operandi sembrerebbe di tipo qaedista.

- Non sembra particolarmente rilevante discutere se i terroristi fossero emissari dell'Isis o di Al-Qaeda. In realtà, a parte i non chiari rapporti fra le due organizzazioni, Al-Qaeda di fatto agisce come il braccio armato dell’Isis in Occidente, mentre lo Stato Islamico rivolge le sue attenzioni prevalentemente al mondo musulmano.

- Il fine perseguito dai terroristi di matrice islamica è quello di colpire la vita ordinaria di normali cittadini, allo scopo di diffondere la convinzione che nessuno in Occidente possa sentirsi al sicuro. Gli attentati infatti sono stati perpetrati all'inizio del fine settimana, quando cioè ognuno si rilassa dopo una settimana di lavoro, e in luoghi di aggregazione alla portata di tutti, ovvero dei ristoranti, lo stadio, un noto e popolare teatro.

- E’ evidente che l'intelligence francese sia stata colta di sorpresa. Al riguardo è sempre più necessario un efficiente cooperazione internazionale fra gli apparati di sicurezza, rendendo più ampio lo ‘scambio di informazioni’, soprattutto quello che riguarda l'universo jihadista di difficile ‘penetrazione’ per le diversità linguistiche locali nelle quali si declina l'arabo standard, e anche in relazione alla difficoltà di contrastare il terrorismo suicida. Una nota positiva è che i nostri apparati di sicurezza e di polizia sono probabilmente tra i più efficienti in Europa.

- Prendendo atto di questa situazione emergenziale, sarebbe opportuno che anche altri Stati europei cedano alla tentazione di prendere gli stessi provvedimenti adottati dalla Francia, ovvero leggi speciali e ripristino di controlli alle frontiere. Infatti in questo momento le Forze dell'Ordine, già in sofferenza per carenze di organici e penuria di mezzi, devono essere messe nella condizione di operare nella maniera migliore possibile per affrontare questa condizione di crisi. Le leggi speciali, che consentono di operare più liberamente, sono una contingenza negativa per la loro straordinarietà e per la loro incidenza sui diritti di libertà, ma sono in questo particolare momento necessarie come analogamente avvenne al tempo delle Brigate Rosse, o negli Stati Uniti con il Patriot Act dopo l'11 settembre 2001, che rafforzò il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi. Per quanto riguarda invece la chiusura delle frontiere, pur non essendoci un collegamento fra immigrazione e terrorismo (diversamente un nesso da precisare sicuramente sussiste fra immigrazione e criminalità) tuttavia in questa situazione di emergenza il ripristino dei controlli alle frontiere appare opportuno in quanto le attività istituzionali connesse al flusso migratorio contribuiscono a sottrarre energie alle forze dell'ordine e a rendere più complesso il loro operare, mentre appare opportuno che ci si concentri in maniera sempre più massiva sulla prevenzione dell'eversione jihadista

- Si deve sempre mantenere alta l’attenzione per la via diplomatica nei confronti della crisi siriana ed irachena, che non esclude iniziative belliche, e che costituisce la fonte della destabilizzazione internazionale di cui i fatti di Parigi sono una conseguenza.

- L'Isis ha dichiarato di aver voluto punire la Francia per le sue decise iniziative militari in Siria. Probabilmente dietro agli attentati vi è anche il risentimento sunnita per un avvicinamento dell’Occidente al mondo sciita, di cui l'Iran, ‘riabilitato’ dopo il noto accordo sul nucleare, è il massimo esponente. Già da domani infatti avrebbe dovuto aver inizio una serie di visite del Presidente iraniano Hassan Rouhani in Europa (lunedì sarebbe dovuto essere a colloquio con Hollande). Il tour è stato rinviato. In altri termini ancora una volta sullo sfondo del disastro c'è l'annoso conflitto fra mondo sciita e mondo sunnita.
RR  

Ulteriori considerazioni sul disastro aereo in Egitto (10-11-2015)
In questi giorni si va consolidando l’ipotesi che dietro il disastro dell’Airbus proveniente da Sharm El-Sheik, ci sia un attentato posto in essere da una cellula terroristica affiliata all’Isis, denominata ‘Isis per la provincia del Sinai’ (Isis – Sinai Province), che è una frazione del gruppo jihadista Ansar Bayt Al-Maqdis, ed è guidata dall’egiziano Abu Osama Al-Masri, già responsabile, tra l’altro, dell’attacco al Consolato italiano del Cairo nel luglio scorso, del rapimento e della decapitazione di un ostaggio croato nell’agosto passato, e di altre numerose iniziative criminose. Si ipotizza la collocazione di una bomba nella stiva del velivolo russo attraverso la collaborazione di qualche funzionario corrotto e infedele dell’aeroporto di Sharm El Sheik. Responsabili della deflagrazione sarebbero stati probabilmente congegni esplosivi di nuova generazione, segnatamente i temuti ‘undetectable device’, che sono ordigni che non hanno parti metalliche, studiati appositamente per sfuggire ai controlli aeroportuali, e al cui confezionamento al Qaeda stava lavorando da qualche  anno; questi dispositivi sarebbero già nella disponibilità di foreign fighters britannici in Iraq e Siria. Purtroppo questa ricostruzione dei fatti, se fondata, dimostrerebbe che è possibile, soprattutto in certi Paesi, aggirare facilmente alcune misure predisposte per la sicurezza dei voli civili, come il cosiddetto ‘riconcilio dei bagagli’, ovvero la corrispondenza fra bagagli caricati a bordo e passeggeri imbarcati. Peraltro il principio su cui si fonda  il ‘riconcilio dei bagagli’  - cioè che nessuno farebbe saltare l’aereo sul quale viaggia - non funziona con il terrorismo suicida. Naturalmente ci sono tanti altri controlli finalizzati ad evitare atti di interferenza illecita sulla regolarità del traffico aereo. Sicuramente lo strumento preventivo di contrasto del terrorismo di matrice islamica di maggior efficacia è un’attenta attività di intelligence. È nota in proposito e rassicurante la professionalità dell’apparato di sicurezza italiano. L’attività di intelligence può essere potenziata attraverso una maggiore condivisione a livello internazionale delle acquisizioni informative. La cooperazione di polizia in ambito europeo ha sempre attribuito grande importanza alla collaborazione a questo fine fra collaterali organismi. Per le caratteristiche specifiche e peculiari dei numerosi dialetti arabi locali, presumibilmente non sempre è facile l’intelligibilità della forma e la comprensione dei contenuti delle conversazioni fra presunti attentatori islamici intercettati. Con specifico riferimento alla sicurezza in ambito aeroportuale si deve anche considerare che incaricati dei relativi controlli, anche all’estero, non sono esclusivamente militari o forze di polizia, istituzionalmente più affidabili, ma anche imprese private certificate. È auspicabile che, previ accordi, in alcuni Paesi ‘a rischio’ alle operazioni di sicurezza dei voli concorra personale delle compagnie aeree e funzionari degli organi di sicurezza e di polizia di altri Stati, in particolare di quello relativo alla nazionalità del volo, e/o di altri eventualmente interessati, che potrà effettuare anche verifiche aggiuntive in via precauzionale. Ogni tragedia aerea ha insegnato qualcosa. Dopo il dramma di Lockerbie sono stati incrementati i  controlli ai bagagli in stiva, dopo l’11 settembre 2001 si è prestata più attenzione ai passeggeri e ai bagagli a mano, dopo questa tragedia è probabile che maggiori verifiche riguarderanno il personale aeroportuale. RR

L'INCIDENTE SUL SINAI ALL'AEREO RUSSO (5-11-2015)  
Se verrà confermata la matrice terroristica dell'incidente all'Airbus A321 della compagnia aerea russa Kogalymavia, avvenuto durante il sorvolo della penisola del Sinai e nel quale sono morte 224 persone, il relativo attentato sarà di facile lettura: l'Isis (o il gruppo  jihadista responsabile della fase esecutiva del crimine - al riguardo nel Sinai è attiva una filiale dello Stato Islamico) avrebbe colpito due 'odiati' nemici: l'Egitto e la Russia. Per quanto riguarda l'Egitto, nonostante le dichiarazioni rassicuranti delle autorità, risulterebbe confermata la sua natura di meta per i turisti poco affidabile e pericolosa. Il danno che ne deriverebbe al regime egiziano, già in difficoltà, sarebbe ingente: il turismo è uno dei settori più importanti nell'economia del Paese. In particolare nel 2014 l'Egitto ha accolto più di 3 milioni di russi. Già nel luglio scorso la Farnesina, dopo l'esplosione di un'autobomba contro il consolato italiano al Cairo e in considerazione del deterioramento della generale situazione, aveva cautamente sconsigliato i viaggi in quel Paese non indispensabili, soprattutto nelle località diverse dai resort dei più frequentati siti turistici; inoltre era stato   raccomandato in ogni caso di mantenere elevata la soglia di attenzione in quanto, nonostante  i  controlli delle autorità, non potevano essere escluse possibili minacce alla propria sicurezza. L'Egitto, infatti, pur essendo uno Stato con una salda maggioranza sunnita, per la sua politica estera moderata  e per le sue relazioni politiche ed economiche con il mondo occidentale è particolarmente inviso all'Isis e al fondamentalismo sunnita. In proposito l'Egitto è anche il Paese che  maggiormente 'sdogana' in Occidente la cultura araba (ad esempio, attraverso la letteratura e il cinema); per questo fra le lingue nazionali a matrice araba l'egiziano è l'idioma più po­polare all'estero. L'attentato colpirebbe particolarmente il regime di Al Sisi, che ha fatto della lotta al fondamentalismo islamico uno dei suoi principali obiettivi.  La Russia pagherebbe invece il suo impegno in Siria in appoggio al fronte sciita e l'alleanza con l'Iran, l'unico Paese realmente impegnato 'sul campo' a contrastare l'avanzare  dello Stato Islamico (mentre le iniziative degli 'alleati' occidentali sono blande e poco coordinate). Naturalmente queste considerazioni presuppongono la natura terrorista del disastro aereo sul Sinai. RR 

LA LEGITTIMA DIFESA 2. Legittima difesa putativa ed eccesso colposo di legittima difesa (3-11-2015)
Questo commento fa seguito al precedente del 28 ottobre u.s.Prima di passare ad un esame critico del quadro complessivo delle disposizioni vigenti sulla legittima difesa si deve accennare alla legittima difesa putativa e all'eccesso colposo di legittima difesa. Nel caso di legittima difesa putativa sono presenti tutti gli elementi della legittima difesa reale con la differenza che, in questo caso, la situazione di pericolo non esiste, ma è erroneamente supposta dal presunto aggredito in base ad un errore nella valutazione dei fatti, determinato da una situazione obiettiva che giustifica la convinzione del soggetto. Conseguentemente, fattori esclusivamente soggettivi, come il timore e in generale uno stato d’animo, non sono sufficienti per integrare il carattere putativo della legittima difesa. L'eccesso colposo di legittima difesa si verifica invece quando venga meno per colpa del reagente la proporzione tra difesa ed offesa; in termini più chiari, sussistendo tutte le altre condizioni per l'applicazione della scriminante, si eccedono colposamente - cioè per un difetto non scusabile di conoscenza della situazione concreta, ovvero per altre forme di inosservanza di regole di condotta - i limiti stabiliti dalla legge nella reazione, che risulta così esuberante rispetto allo scopo di difendere il proprio diritto. In questo caso alla reazione si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Si distinguono due forme di eccesso colposo: la prima ricorre quando, a causa dell'erronea valutazione della situazione di fatto, il reagente abbia realizzato volutamente un determinato risultato; la seconda è l'ipotesi simmetricamente opposta, ovvero si configura quando nonostante la corretta valutazione della situazione di fatto, il reagente commette un errore esecutivo che produce un effetto più grave. Non si applica l'eccesso colposo nell'ipotesi in cui il reagente sia a conoscenza della situazione concreta e superi volontariamente i limiti dell'agire scriminato; in tale ipotesi la volontà non è diretta alla realizzazione dell'obiettivo consentito, ma ad un fine criminoso e conseguentemente l'eccesso dovrà ritenersi doloso ed il soggetto dovrà rispondere dei corrispondenti reati a titolo doloso. Qualora si ritenga - con giusto senso pratico - che l'adeguatezza della difesa debba essere valutata tenendo conto non solo del rapporto tra il male subito (o che vi era il pericolo di subire) ed il male inflitto per reazione, ma anche del rapporto fra i mezzi che l'aggredito aveva a disposizione e quelli in concreto utilizzati, non si verificherebbe l'eccesso quando, ad esempio, chi sia stato aggredito da una persona armata di coltello, per difendersi, spari con una pistola, qualora quest'arma fosse l'unico mezzo efficace che il reagente avesse a propria disposizione per difendersi. In questo caso non si configurerà l'eccesso colposo, bensì la giustificante della legittima difesa. In conclusione, non suscita perplessità l'istituto della legittima difesa putativa, che è un'applicazione del principio generale per cui la responsabilità penale presuppone un fatto proprio colpevole, cosicché nell’ipotesi simmetricamente opposta in cui il soggetto ritenga per errore scusabile di agire in presenza di determinate circostanze che escludono l’elemento della colpa nella causazione del fatto costituente reato, la legge privilegia la rappresentazione soggettiva del soggetto stesso. L'eccesso colposo di legittima difesa è invece un'applicazione della controversa questione della proporzione fra offesa e difesa, di cui si dirà prossimamente. RR

LA LEGITTIMA  DIFESA 1. Le disposizioni vigenti (28-10-2015)     
Se il diritto fosse solo un esercizio sofistico la norma del codice penale italiano sulla legittima difesa avrebbe un'architettura perfetta, quasi geniale per le sottigliezze che contiene. Diversamente le leggi hanno finalità concrete, devono disciplinare la vita sociale, e il disposto dell'articolo 52 del Codice Penale ha alcune potenzialità di difficile applicazione. La scriminante - sono scriminanti le disposizioni, tassativamente individuate dalla legge, che escludono l’illiceità di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile -,  integrata e rinominata 'Difesa Legittima' dalla legge 59/2006, è attualmente così disciplinata dal diritto positivo: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. Nei casi previsti dall'art. 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale." Quindi, nei limiti della situazione prevista si consente - in deroga al monopolio statuale dell’uso della forza - una forma di autotutela privata nei casi in cui, in presenza di un’aggressione contro beni individuali, l’intervento pubblico non possa essere tempestivo ed efficace. Esaminando gli elementi costitutivi della fattispecie astratta si evidenziano alcuni suoi limiti e le prospettive di un'eventuale riforma. Innanzitutto il legislatore prevede che si debba essere in presenza di un pericolo attuale di un offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui. Nulla quaestio per questi elementi: il pericolo deve essere riconducibile ad una condotta umana, attiva o omissiva (e non necessariamente colpevole, cioè sorretta da dolo o colpa). L'offesa deve essere ingiusta, cioè contra ius ovvero deve concretarsi in una condotta commissiva e omissiva contraria ai precetti dell’ordinamento giuridico, o non iure ovvero non espressamente autorizzata (ad esempio, non può invocare tale scriminante il ladro che reagisce contro il pubblico ufficiale che tenti legittimamente di trarlo in arresto). L’aggressione può  riguardare qualunque diritto, non solo dell’autore della reazione difensiva, ma anche di un terzo (si parla in questo caso di 'soccorso difensivo'). È sufficiente che ricorra il pericolo dell’evento lesivo, che però deve essere  attuale, cioè  imminente (ovvero incombente al momento del fatto) e persistente (ovvero l'aggressione iniziata non deve essere ancora conclusa; diversamente, se l'offesa si è prodotta, il danno arrecato dalla difesa ha solo natura ritorsiva). Le difficoltà interpretative e applicative riguardano invece alcuni elementi della reazione difensiva. Nessun problema per quanto concerne l'esigenza di difendersi: cioè è necessario che il pericolo possa essere efficacemente contrastato solo reagendo contro l’aggressore. Come corollario la scriminante non si applica se c'è la possibilità di un 'commodus discessus', cioè quando il soggetto può sottrarsi al pericolo senza esporre al rischio la sua integrità fisica (ad esempio con la fuga). La prima difficoltà applicativa riguarda il requisito della proporzionalità: la reazione difensiva deve essere proporzionata all’offesa minacciata. Il raffronto deve essere svolto tra offesa e difesa tenendo conto dei beni su cui le stesse incidono. Nel caso di beni omogenei è sufficiente confrontare l’intensità dell’offesa con quella della difesa. Nell'ipotesi di beni disomogenei si deve fare ricorso alla gerarchia dei valori dell’ordinamento giuridico e poi al grado di intensità dell’offesa. La proporzionalità va valutato con un giudizio ex ante, cioè confrontando le offese che l’aggredito poteva ragionevolmente temere dall’aggressore con quelle da lui prodotte al suo antagonista. In relazione alle rapine negli appartamenti, nel 2006 il legislatore ha aggiunto che: "...nei casi previsti dall’art. 614, 1 e 2 comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o l’altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione di cui al 2 comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Presupposto di questa integrazione è la riconsiderazione del requisito della proporzionalità nel caso di violazione di domicilio. Nel prossimo commento saranno esaminati gli aspetti applicativi critici della scriminante, le analoghe previsioni vigenti in alcuni Paesi occidentali, le prospettive di riforma. RR quando il soggetto può sottrarsi al pericolo senza esporre al rischio la sua integrità fisica (ad esempio con la fuga). La prima difficoltà applicativa riguarda il requisito della proporzionalità: la reazione difensiva deve essere proporzionata all’offesa minacciata. Il raffronto deve essere svolto tra offesa e difesa tenendo conto dei beni su cui le stesse incidono. Nel caso di beni omogenei è sufficiente confrontare l’intensità dell’offesa con quella della difesa. Nell'ipotesi di beni disomogenei si deve fare ricorso alla gerarchia dei valori dell’ordinamento giuridico e poi al grado di intensità dell’offesa. La proporzionalità va valutato con un giudizio ex ante, cioè confrontando le offese che l’aggredito poteva ragionevolmente temere dall’aggressore con quelle da lui prodotte al suo antagonista. In relazione alle rapine negli appartamenti, nel 2006 il legislatore ha aggiunto che: "...nei casi previsti dall’art. 614, 1 e 2 comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o l’altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione di cui al 2 comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Presupposto di questa integrazione è la riconsiderazione del requisito della proporzionalità nel caso di violazione di domicilio. Nel prossimo commento saranno esaminati gli aspetti applicativi critici della scriminante, le analoghe previsioni vigenti in alcuni Paesi occidentali, le prospettive di riforma. RR

FEMMINISMO E ISLAM (26-10-2015)
Femminismo e Islam sembrano a prima vista un ossimoro, cioè una contraddizione in termini. In realtà, la questione femminile nel mondo musulmano è molto varia e complessa. Per la prima volta ne ho preso atto qualche anno fa leggendo un libro di Lilli Gruber, 'Figlie dell'Islam', che conteneva gli esiti dell'indagine con la quale la nota giornalista aveva esplorato l'universo femminile nel mondo arabo. Accanto a donne - ed erano la maggioranza - vittime di profondi e, talvolta, drammatici condizionamenti - come un'egiziana che a quattro anni aveva subito la recisione del clitoride con un rasoio - ce ne erano altre che avevano percorso positivamente un cammino di emancipazione, come una Yemenita, docente universitaria, che era riuscita a rifiutare il marito scelto per lei. Sono state intervistate inoltre alcune donne che occupavano posti di vertice e di responsabilità perfino in realtà istituzionalmente arretrate e maschiliste come quella saudita. Successivamente, da uno sguardo affrettato alla cinematografia mediorientale (compresa quella israeliana) mi sono reso conto che spesso protagonisti di quei film erano personaggi femminili. Alcuni esempi: 'Caramel' e 'Ora dove andiamo?' della regista libanese Nadine Labaki, 'Il Giardino dei Limoni' dell'israeliano Eran Riklis e 'Free zone' del suo connazionale Amos Gitai, gli iraniani 'Il Cerchio' di Jafar Panahi, 'Persepolis' di Marjane Satrapi e 'Donne senza uomini' di Shirin Neshat; solo per citarne alcuni. Pertanto, pur non potendo disconoscere la subordinazione della donna nella società araba, tuttavia la problematica mi è sembrata spesso risolta semplicisticamente, banalizzata dagli stereotipi delle specifiche realtà nazionali particolarmente influenzate dalle tradizioni locali, il femminismo islamico è un movimento trasversale di tutta la comunità musulmana - in virtù del presunto carattere universale degli ideali coranici - che approfondisce l'esegesi del Corano al fine di evidenziare le disposizioni che dichiarano l'uguaglianza di tutti gli uomini: in altri termini, si sostiene la parità di genere come corollario del proclamato principio di uguaglianza di tutti gli 'insan' (gli esseri umani). Si evidenzia pertanto anche in questo ambito la sovrapposizione, ricorrente nell'Islam, fra religione e politica, in quanto la soluzione di una questione sociale, quale la precisazione dei contenuti del rapporto uomo - donna, richiede un approfondimento teologico, ovvero una rilettura del Sacro Testo, a differenza degli analoghi movimenti occidentali che avevano e hanno estrazione laica. Il femminismo islamico sostiene infatti che non è il Corano ad essere contro le donne, ma l'interpretazione che ne è stata data e le tradizioni patriarcali consolidate nel tempo. Le prime voci di scrittrici e intellettuali che hanno sollevato la questione femminile nel mondo arabo risalgono alla fine dell'Ottocento: anche se è innegabile che nei Paesi islamici le donne subiscano ancora gravi discriminazioni, questo dato storico contrasta con il convincimento di noi europei di detenere in maniera esclusiva il monopolio dei movimenti di liberazione ed il primato nella promozione della democrazia e dei diritti di libertà. Tutto questo mentre in Europa il femminismo è spiazzato da una 'femminilizzazione' del modello maschile, che già dall'aspetto estetico (depilazione, orecchini ed orpelli vari, uso di creme di bellezza) si ispira a stereotipi attribuiti, per pregiudizi consolidati, all'universo femminile. RR   

La banalizzazione in Rete del pregiudizio antisemita (23-10-2015)
Il recente film ironico-surreale 'Pecore in erba' - che racconta con lo stile del (falso) documentario la paradossale vicenda di un attivista del diritto alla libera professione del razzismo, di  un antisemita che trova difficoltà ad essere compreso in una società nella quale il razzismo, sebbene in forma latente, è saldamente e insidiosamente radicato - è un esperimento spericolato e stravagante che mi ha fatto riflettere su come l'Antisemitismo cambi forme, si mimetizzi, ma rimane una costante della nostra società. Anche nelle reti sociali l’avversione per gli Ebrei è un fenomeno diffuso che si avvale anche della costituzione di gruppi 'ad hoc' a cui si aderisce per emulazione, per solidarietà amicale, per superficiale suggestione (questi meccanismi operano soprattutto nelle fasce adolescenziali). Prima della nascita di Internet, l’Antisemitismo era un fenomeno circoscritto all’interno di una limitata cultura, se così può essere definita. Con il Web, ma soprattutto con i 'social network', si è assistito purtroppo ad un incremento di iniziative antiebraiche: una diffusa deprecabile propaganda induce  sottilmente nella comunità  virtuale - sopratutto nei giovani che non hanno avuto una conoscenza diretta delle persecuzioni nazifasciste - la convinzione che l’Antisemitismo sia un punto di vista socialmente accettabile come tanti altri; in concreto i social network, oltre ad amplificare il pregiudizio, hanno determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica. L’ampiezza del fenomeno e la sua espansione comunicano una superficiale e inconsapevole accettazione del pregiudizio razziale: così viene recepito dai cybernauti al pari di una qualsiasi ideologia politica o, peggio, del tifo per un club sportivo. Così, nel contesto virtuale, seppur non condiviso, l’odio antisemita viene 'normalizzato':  è inquietante che  materiale razzista sia proposto in un contesto di apparente normalità come se si trattasse di una normale espressione di pensiero. Anche i videogiochi sono un altro ambito nel quale il pregiudizi può essere alimentato dalle relazioni con la  realtà virtuale. In essi si interagisce con le immagini riprodotte in un monitor. Inizialmente il 'partner' del gioco era soltanto il software e l’hardware del dispositivo elettronico; successivamente i videogiochi si sono evoluti fino a prevedere la possibilità di interagire e quindi di misurarsi con un altro giocatore collegato online e quindi lontano e non fisicamente presente. I videogiochi sono oggetto di un complesso dibattito, per i loro contenuti che in alcuni casi coincidono con simulazioni di attività particolarmente violente, offensive, o, più in generale, diseducative, e per le forme di dipendenza che possono generare. Ne sono fruitori non solo gli appartenenti a fasce giovanili, ma anche adulti alla ricerca di momenti di relax, di evasione, o di un passatempo che possa creare una soluzione della routine quotidiana. Un’indagine effettuata nel 2008 ha rivelato che i videogiochi sono principalmente praticati dagli individui compresi fra i 16 e i 29 anni. Con riferimento al pregiudizio assumono rilievo alcuni videogiochi che alimentano o contribuiscono a creare stereotipi offensivi di una fede religiosa, dei suoi fedeli, o di un'etnia.  Purtroppo la Rete offre molti casi di questo genere, nei confronti dei quali, anche nelle ipotesi più gravemente lesive, non esistono di fatto forme interdittive giustificabili per i contenuti diffamatori dell'esercizio ludico. Anche in questo contesto il pregiudizio, lo stereotipo, l’odio razziale quando divengono l’oggetto di un’attività ludica vengono banalizzati e attraverso la ripetitività dell’evento sono inconsapevolmente accettati come una realtà normale, mentre scompare qualsiasi giudizio critico, del tutto incompatibile con le dinamiche 'superficiali' del gioco. RR   

Gli esiti della crisi siriana. Verso una soluzione? (18-10-2015)
Con riferimento ai tanti conflitti locali e alle speculazioni finanziarie che li alimentano, Papa Francesco ha precisato che "...stiamo vivendo una Terza Guerra Mondiale a pezzi, a capitoli, dappertutto...". Il conflitto siriano e la guerra all'Isis fanno sicuramente parte di questo amaro mosaico. In proposito, per sottolineare l'ampio coinvolgimento di Stati nelle operazioni belliche in quell'area e la contrapposizione fra il fronte occidentale e la Russia (che con l'Iran sostiene il regime di Damasco), si è parlato di una Terza Guerra mondiale siriana. Quali  sono i possibili esiti della crisi? Probabilmente, se si ragionasse in termini razionali, mettendo da parte gli interessi economici e geopolitici dei singoli Paesi, sarebbe opportuno distinguere - anche se non è facile farlo da un punto di vista concreto - la questione  siriana dalla lotta all'Isis. Per la Siria l'unica via da percorrere, per uscire da questo sanguinoso stallo diplomatico, è quella negoziale; nonostante i fallimenti dei precedenti tentativi, è necessario rilanciare su basi nuove la possibilità di un accordo, convocando  una nuova conferenza di pace fra gli attori dei due fronti, comprensiva anche dell'Iran, della Turchia e delle altre potenze regionali, e con l'esclusione dei gruppi jihadisti come lo Stato islamico, il Fronte al Nusra e gli Hezbollah. La conferenza dovrebbe riguardare  esclusivamente la Siria, e dovrebbe stabilire le condizioni per l'eventuale permanenza al potere del dittatore siriano o per la sua uscita di scena attraverso la formazione di un governo di transizione. Sarebbe opportuno che questo avvenisse sotto la mediazione dell'Onu (che riacquisterebbe la pienezza del suo ruolo) e della Russia e degli Usa  (così le due superpotenze verrebbero responsabilizzate in ordine agli esiti della trattativa e metterebbero da parte le loro divergenze). In effetti sembra che il Gruppo di Contatto sulla Siria (una specie di missione esplorativa) stia lavorando su questa ipotesi, anche nella  convinzione che la soluzione della guerra passi attraverso un accordo fra Teheran e Riad, i grandi rivali strategici del Golfo, rispettive punte esponenziali dei fronte sciita e sunnita. E' un esercizio difficile, se si considera la ferma volontà della Russia di non scaricare Bashar Al Assad e la posizione  della Coalizione Nazionale Siriana, il principale polo dell'opposizione al regime di Damasco, che richiede la fine dell’aggressione russa come presupposto per la ripresa del processo negoziale.  Un altro problema è l'individuazione di chi possa parlare a nome  dei ribelli (considerato anche il coinvolgimento di Al Nusra, emissario di Al Qaeda). Rimane in ombra il ruolo dell'Unione Europea, ma si deve prendere atto dell'attuale momento di non grande rilievo della mediazione internazionale delle istituzioni comunitarie. Per quanto riguarda invece la guerra all'Isis, il fronte che contrasta lo Stato Islamico dovrebbe essere globale e unitariamente coordinato. In concreto, l'alleanza composta dagli Stati Uniti, dai Paesi Europei e dalle monarchie sunnite dovrebbe essere integrata dalla Russia e dalla componente sciita, in particolare dall'Iran. La distinzione fra le questioni 'Siria' e 'Isis' sarebbe un modo non solo per esplorare specifiche e differenti  soluzioni concrete, ma anche uno strumento pratico per evitare possibili speculazioni attuate con il pretesto di combattere l'Isis: ad esempio, la Turchia sembra  maggiormente interessata ai ribelli curdi piuttosto che all'Isis, come anche la Russia, in maniera simmetricamente analoga, viene accusata di rivolgere la sua prevalente 'attenzione' alla coalizione anti-Assad. RR  

Il confronto Usa - Russia in Siria; il clima di una nuova guerra fredda (13-10-2015) 
Dopo le tensioni in Ucraina si sta ricreando il desueto clima della guerra fredda a seguito della contrapposizione in Siria fra gli Usa, che guidano la coalizione  occidentale, e la Russia,  indirettamente appoggiata dalla Cina  che ha posto il veto sulla risoluzione dell'Onu che avrebbe portato il Paese mediorientale davanti alla Corte Penale Internazionale dell'Aia, e supportata anche dall'Iran, suo storico alleato  che tuttavia ha ripreso recentemente a dialogare con gli Stati Uniti. Come ai vecchi tempi, le due superpotenze si accusano reciprocamente: per gli Usa la Russia appoggiando il dittatore siriano viola il diritto internazionale, per la Russia, alludendo presumibilmente alla discussa genesi dello Stato Islamico e agli aiuti che provengono dal Kuwait e dalle monarchie del Golfo, l'Isis non è nato dal nulla ma è stato finanziato e sostenuto. Putin ha anche ufficialmente affermato polemicamente che è pericoloso dare le armi ai ribelli e giocare con i terroristi. Poi c'è la ripetuta violazione dello spazio aereo della Turchia da parte di aerei Mig russi: la Nato ha respinto le giustificazioni di Mosca che ha parlato di errore dovuto a condizioni meteo sfavorevoli; le scuse sono state respinte probabilmente ritenendo che i due sconfinamenti siano state provocazioni premeditate all'indirizzo di Ankara, che aveva criticato l'impegno russo a fianco del regime siriano, e nei confronti dell'Alleanza Atlantica (in virtù della solidarietà reciproca, che lega i Paesi aderenti al Patto, l'Alleanza è obbligata ad intervenire in difesa di ogni membro che subisca un attacco). Inoltre Putin è animato da un forte nazionalismo antiamericano. La Russia è reticente circa la quantificazione del suo impegno militare in quello scenario, che probabilmente è anche on the ground. Gli Usa hanno chiesto alla Grecia di vietare il transito ai Mig russi diretti in territorio siriano. La Bulgaria lo ha disposto autonomamente. Nell’agosto del 2014 la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha iniziato i bombardamenti di obiettivi dell'Isis in Iraq. Al momento, della coalizione internazionale che combatte l’Isis in territorio iracheno fanno parte ventidue Paesi, ovvero gli Stati Uniti, i principali Paesi europei - tra cui Francia, Regno Unito, Germania e Italia - l'Australia, il Canada, e alcuni Stati arabi e africani. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia dal settembre 2014 hanno cominciato ad 'operare' anche in Siria. Probabilmente prossimamente 'passeranno a vie di fatto' anche i tornado italiani. È importante che siano compiute operazioni nel territorio siriano occupato dall'Isis, al fine di evitare che lo Stato Islamico consideri questa area (nella quale si trova anche la capitale Raqqa) una zona 'franca' e sicura. Si parla di una Terza Guerra Mondiale. Mi piace in proposito ricordare una frase di Albert Einstein: "Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la Terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre". RR 

Il conflitto siriano: i due fronti (10-10-2015) 
Qualche anno fa lessi un saggio, 'Geopolitica delle emozioni', già dal titolo molto intrigante, che conteneva un'ipotesi suggestiva, a tratti geniale, che tuttavia mi sembrò un po' astratta: nel libro si sostiene, come alternativa alla teoria dello scontro di civiltà di cui parlava Huntington, che i rapporti fra le aree geopoliticamente omogenee - come l'Occidente, l'Oriente, il Mondo Musulmano - sono caratterizzati da uno scontro di motivazioni emozionali. In particolare l'Occidente sarebbe dominato dalla cultura della paura, i Paesi arabi e il mondo musulmano sarebbero condizionati dalla cultura dell'umiliazione, la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti sarebbero animati dalla cultura della speranza. In proposito, nella comprensione della complessa e confusa situazione siriana le speculazioni apparentemente astratte della geopolitica delle emozioni forniscono un prezioso supporto interpretativo concreto. La Russia, alleata di Assad, ormai da giorni sta bombardando la Siria con l'obiettivo di colpire sia le postazioni jihadiste dello Stato Islamico, sia le basi del Fronte di Al Nustra e Ahrar al Sham, che sono formazioni islamiche di ispirazione fondamentalista salafita, che hanno l'obiettivo di rovesciare il governo di Bashar al Assad e creare uno stato basato sulla Sharia. La propaganda americana accusa i Russi di colpire i civili, ma questo purtroppo è l'ordinario effetto collaterale di quasi tutti gli attacchi bellici, anche quelli occidentali: ci sono spesso dei civili in prossimità di bersagli che è legittimo colpire, salvo che questi si trovino isolati in mare aperto o in pieno deserto. In realtà la vera critica degli alleati occidentali ai Russi è quella di bombardare la parte sbagliata. Eppure la Russia - che siamo abituati a criticare per il cinismo delle sue scelte strategiche e della sua realpolitik - sta combattendo l'Isis con efficacia e risultati apprezzabili, forse mossa anche dal movente emozionale di accreditarsi moralmente come potenza impegnata a contrastare il terrorismo. Tuttavia, a conferma che in politica gli ideali sono più apparenti che reali, è evidente che i russi, con il loro impegno militare, stanno difendendo gli interessi economici ed energetici propri e degli iraniani contro la minaccia dell'Isis. La Russia comunque, alleandosi con il fronte sciita siro-iraniano supportato dagli Hezbollah, ha compiuto una scelta coraggiosa, in quanto rischia di diventare il principale odiato nemico dell'estremismo terrorista sunnita. Meno lineare è la posizione emozionale degli Usa e del fronte occidentale. Gli Stati Uniti, insistendo sulla necessità di abbattere il regime di Assad per i crimini di cui si è reso responsabile, sembrano mossi da una duplice paura: la prima è quella di non perdere la credibilità nel ruolo di nazione impegnata a svolgere una funzione di difesa dell'ordine internazionale e di promozione della democrazia e dei diritti delle genti, la seconda paura, molto concreta, è quella di rassicurare, con il proprio impegno contro lo Sciismo, dopo la conclusione dell'accordo sul nucleare con l'Iran, le monarchie sunnite del Golfo da sempre strategicamente alleate. Nello stesso tempo gli Usa schizofrenicamente combattono l'Isis, ovvero il nemico del loro nemico Assad, come se in Siria fosse possibile insediare un regime contrario ad Assad ma nello stesso tempo anche al jihadismo sunnita e all'Isis. Forse non si deve riflettere troppo sulla lungimiranza delle strategie delle potenze (soprattutto quelle occidentali)  impegnate nella crisi siriana: più semplicemente stanno navigando a vista. RR 

LA SIRIA PRIMA DEL CONFLITTO (8-10-2015) 
“La democrazia è un prodotto della cultura occidentale e non può essere applicata per il Medio Oriente, che ha un diverso background culturale, religioso, sociologico e storico”. Questa frase, pronunciata dal leader politico turco Erdogan, pur non sancendo, come lo stesso Primo Ministro turco precisò successivamente, un’inconciliabilità fra la cultura islamica e le forme di governo democratiche, tuttavia sottolinea che le peculiarità delle realtà geopolitiche del vicino oriente non possono essere comprese attraverso un’applicazione  indiscriminata dei parametri occidentali. L'instabilità che caratterizza la regione mediorientale ha una prima causa nella ripartizione di quei territori: la delimitazione dei confini degli Stati di quell'area fu un’invenzione della politica piuttosto che il risultato di un accorpamento di zone affini per motivi etnici, politici e amministrativi. In linea di massima, non vi fu coincidenza fra la configurazione amministrativa dell’impero ottomano, e i confini degli Stati mediorientali definiti dagli accordi internazionali.  La Siria in particolare fu il risultato di un compromesso politico fra due potenze coloniali, la Francia e il Regno Unito, che procedettero ad una globale distribuzione delle aree del levante arabo che fino a quel momento - il 1914 - erano state formalmente componenti dell’impero ottomano. Oggetto di un mandato francese fino al 1945, la Siria raggiunse l’indipendenza nel 1946, nascendo con una configurazione territoriale ridotta rispetto alla dimensione politica e amministrativa che aveva come regione dell’impero ottomano.  Alcune zone della Siria ottomana oggi sono parte dei territori della Giordania e del Libano, mentre ad oriente furono attribuite al nuovo Stato siriano zone precedentemente sotto l’influenza irachena. Nel '46 in Siria si instaurò un regime dittatoriale. Il Paese attraversò per alcuni decenni momenti di instabilità politica; poi nel '70 si impadronì del potere Hafiz Al Assad, esponente del partito Bath. La dittatura di Hafiz Al Assad, pur non essendo stata particolarmente diversa da quella del suo successore il figlio Bashar, tuttavia godette di un apprezzabile  consenso. Vi fu una stretta continuità fra i regimi dei due Assad: entrambi fondati su un rigido controllo della popolazione, sulla repressione di qualsiasi accenno di moti contrari e su criteri personalistici nella gestione del potere. La dinastia degli Assad, essendo di estrazione sciita - alawita, è espressione di una minoranza poiché la popolazione siriana è in prevalenza sunnita. Gli Alawiti vivono in tutte le grandi città della Siria e sono 2 milioni circa, ovvero il 20% della popolazione. Dopo le prime manifestazioni che reclamavano condizioni di vita più eque, nel 2011 il regime di Bashar Al Assad intraprese apertamente la via della repressione, con una conseguente drastica riduzione del consenso popolare soprattutto nelle regioni lontane dalla capitale, distanti non solo geograficamente ma anche politicamente, e divenute particolarmente ostili al regime essendo penalizzate da una gestione del potere che privilegiava altre aree del Paese. Nelle attività di repressione anche la tecnologia e l'istruzione hanno  svolto  un ruolo importante: dopo essere stati promossi l’apprendimento e l’uso di Internet e dell’inglese, si è intrapreso un controllo capillare dell’informazione e della Rete. La Siria ha una grande importanza strategica per l’Iran. L’Iran, com'è noto, pur essendo la maggiore potenza islamica, soffre una condizione di isolamento dovuta all’assoluta prevalenza nel suo territorio del credo sciita (in Iran gli Sciiti sono il 95% della popolazione, mentre il rimanente 5% è sunnita; diversamente nel cosmo islamico i Sunniti sono il 90% circa, mentre i seguaci dello Sciismo sono il 10% circa). Così, mentre gli altri Stati arabi mediorientali, che sono di confessione sunnita, hanno come polo di riferimento politico e religioso l’Arabia Saudita, potenza egemone dell’area, la Siria, il cui sovrano Bashar al Assad - come si è detto - è sciita di confessione alawita, ha per l’Iran una particolare importanza, in quanto è l’unico modo per il Paese persiano di essere presente e attivo  nello scenario mediorientale. L’Iran sostiene Assad, ma, nella malaugurata ipotesi della sua caduta o ritiro, è pronto ad un’eventuale transizione che gli sia favorevole e che gli consenta di proteggere i propri interessi nell’area, anche contando su una rete di milizie fedeli di stanza in Siria. Con la crisi siriana è cresciuta l’importanza strategica del gruppo Hezbollah, un movimento fondamentalista islamico libanese di fede sciita, alleato dell’Iran, che ha sede nel Libano. Gli Hezbollah - il termine significa in arabo Partito di Dio - sono strutturati come un partito politico, ma sono dotati di un’ala militare; nacquero nel 1982 come milizia armata per contrastare l’invasione israeliana del Libano. Il partito Hezbollah svolge una funzione filantropica finanziando servizi sociali, come scuole e ospedali; esercita una particolare influenza politica e amministrativa soprattutto nella parte meridionale del Libano. Gli Hezbollah sono considerati da Stati Uniti, Egitto, Israele, Australia e Canada un’organizzazione terroristica. Nella crisi siriana la milizia sciita Hezbollah, che combatte al fianco del regime di Assad, è finanziata dall’Iran. Il Libano, essendo nato dall’unione di zone eterogenee, è sempre stato politicamente e militarmente debole, e ha spesso costituito lo scenario nel quale si sono consumate fasi di scontri fra altri Stati. Anche il conflitto siriano attualmente sconfina nei territori libanesi. La Siria, in proposito, permeata da uno spirito nazionalista, ha sempre rivendicato di fatto un’egemonia sul Libano, in parte costituito da zone in origine legate amministrativamente alla Siria ottomana. Nel Libano vivono anche circa 100 mila Alawiti. Attualmente il Libano vive un’emergenza sociale dovuta all’afflusso di profughi provenienti dalla vicina Siria. Il modello multiculturale libanese può ambiziosamente indicare che l’evoluzione della società musulmana può conseguire l'obiettivo del superamento della concezione dello Stato confessionale, ovvero è possibile che maturi una nuova coscienza sociale, politica e religiosa, che favorisca la definizione di una via araba alla democrazia, mediante la costituzione di “una società del vivere insieme”, come l'ha definita il noto intellettuale e politico libanese cristiano-maronita Samir Frangieh. RR 

La situazione siriana e l'Onu (6-10-2015) 
L'Onu dovrebbe essere la sede nella quale si discutono le questioni che travalicano gli interessi dei singoli Stati. Una delle cause di mancanza di autonomia operativa dell'organismo è l'istituto del diritto di veto. Infatti, quando è all'attenzione dell'istituzione un interesse di almeno uno dei Paesi titolari del diritto di veto, l'esercizio del veto spesso blocca le relative eventuali risoluzioni contrarie a questo interesse, sebbene esprimano la libera volontà del consesso. Il veto più precisamente è il potere di impedire l'attuazione di una deliberazione della maggioranza, riservato a ciascuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ovvero agli Stati Uniti, alla Russia - che l'ha ereditata dall'Urss - al Regno Unito, alla Francia e alla Cina. Conseguentemente è improbabile l'adozione da parte dell'Onu di una decisione  contraria ad uno di questi Stati. Un altro esempio dell'immobilismo causato da questa opzione: le più di 200 risoluzioni riguardanti Israele e Palestina, approvate nel tempo con significative maggioranze, non sono state attuate per l'esercizio del diritto di veto soprattutto da parte statunitense. Dalla fondazione dell'Onu questa facoltà è stata usata più di 260 volte. Durante la Guerra fredda l’attività del Consiglio di Sicurezza è stata paralizzata dai veti incrociati. Pertanto, la prima riforma per far funzionare l'Onu dovrebbe essere l'eliminazione del diritto di veto, ormai, anacronistico e ingiustificato. Bisogna anche uscire dall'equivoco che alimenta la convinzione secondo la quale in seno agli organismi internazionali le posizioni dei Paesi occidentali sono sempre  strumentali alla democrazia, mentre le grandi potenze orientali, cioè Cina e Russia, sono sempre paladine della repressione e dei regimi totalitari. In proposito, si devono però considerare le recenti varianti della geografia del dualismo occidente-oriente, alla luce di nuovi equilibri che non raramente hanno solo valenza regionale e non più globale, con la conseguenza paradossale che in alcuni casi Paesi che sono alleati in un area, sono avversari in un'altra: ad esempio, gli Usa nello Yemen sono indirettamente contrapposti all'Iran, che di fatto è invece un suo alleato nella guerra contro l'Isis in Iraq e con il quale sta nascendo un possibile idillio politico ed economico a seguito del noto accordo sul nucleare. Inoltre i 'blocchi' caratterizzati da aggregazioni politico-militari bipolari si sono frantumati e la politica internazionale è sempre più caratterizzata da intese bilaterali. La realtà è che tutti gli attori dello scenario internazionale sono mossi da mire individuali ed egoistiche più o meno nobili che hanno il fine di espandere la propria egemonia o la propria influenza geopolitica, geoeconomica e geofinanziaria. Con riferimento alla specifica situazione siriana, Cina e Russia hanno opposto il proprio veto congiunto all’inasprimento delle sanzioni contro di regime di Bashar al-Assad. La scelta è stata fortemente criticata dalle autorità statunitensi che con durezza hanno accusato Cina e Russia di ignorare le richieste di democrazia per sostenere  dittatori crudeli. Il veto russo-cinese riflette la volontà dei due Paesi di contrastare l'influenza degli Usa e dell'occidente in un’area in cui essi hanno importanti interessi che sarebbero compromessi da una brusca uscita di scena del dittatore siriano. La risoluzione oggetto di veto tra le varie disposizioni conteneva infatti il divieto di vendere armi e di fornire assistenza tecnica e finanziaria al regime siriano, e quindi avrebbe di fatto compromesso la cooperazione in materia in atto fra Russi e Cinesi da una parte e Siria dall'altra. Inoltre la Siria, essendo appoggiata da tutto il mondo islamico sciita, ha un'importanza centrale negli equilibri mediorientali. Da parte americana invece il veto è uno strumento per alimentare la propaganda antirussa e anticinese. Mentre le grandi potenze decidono le strategie da seguire in Siria modulandole sui propri interessi, la Siria continua a pagare il suo pesante tributo di sangue civile. RR 

IMMIGRAZIONE E CRISI DELL'UNIONE EUROPEA - Politica migratoria ed Est europeo (30-9-2015)
La versione consolidata del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea prevede agli articoli 79 e 80 lo sviluppo da parte degli Stati membri di una politica comune in materia di gestione dell'immigrazione legale e di contrasto di quella clandestina; l'attuazione di queste politiche - si precisa - deve essere governata da un'equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Si desume chiaramente da questi principi che la politica migratoria europea non è ispirata né da un accoglimento indiscriminato né da un respingimento generalizzato, ma deve  essere caratterizzata da un approccio equilibrato, lungimirante e globale. L'atteggiamento dei Paesi dell'Est europeo in occasione dell'attuale pressione migratoria contrasta decisamente con la linea sancita dal Trattato. Questi Stati hanno adottato autonomamente    misure 'protezionistiche', anche a danno di altri, animate esclusivamente da egoismi 'difensivi' nazionali: sembra che la cultura della reciproca e coordinata solidarietà europea non appartenga al loro patrimonio. Nel respingere le misure che tardivamente sono state proposte nelle sedi istituzionali comunitarie - in particolare la ripartizione in quote dei migranti - i Paesi dell'Est hanno voluto evidenziare  che l'immigrazione  non è una questione comune, ma è un problema dei singoli Stati. Peraltro l'arrivo di migranti dal Mediterraneo e dai Balcani  non riguarda solo il Paese di arrivo ma tutta l’Europa, in quanto la maggior parte di essi vuole trasferirsi dove c’è lavoro, ovvero nel Nord Europa. Maliziosamente si potrebbe supporre che per Paesi come la Polonia, l'Ungheria, la Romania, la richiesta di adesione all'Unione Europea sia stata motivata dalla possibilità di attingere a fondi strutturali e di percepire altre forme di finanziamento, ma quando è necessario condividere oneri e difficoltà con altri Paesi - come con l'Italia e la Grecia nell'emergenza profughi -, ognuno deve badare a  sé stesso e deve essere lasciato solo di fronte a contingenze che pur essendo comuni lo riguardano direttamente o in prima battuta. Anziché cercare soluzioni condivise vengono prese opinabili e arbitrarie misure nazionali prive di spirito di cooperazione, che vanno dai muri alzati alle frontiere dall'Ungheria, alla 'marchiatura' con numero identificativo, di antica triste memoria, operata sui profughi dalla polizia ceca. Per non parlare della breve guerra commerciale, scoppiata sullo scenario della crisi dei rifugiati, tra la Croazia, membro dell'Unione Europea, e la Serbia, che ha presentato domanda di adesione nel 2009,  e  che si è concretizzata in un blocco delle frontiere tra i due Paesi durato qualche giorno. Nel rimpiangere lo spirito di coesione dell'Unione Europea a 15 Stati (fino al 2004) a fronte delle discordie fra gli attuali 28 membri, viene da chiedersi se la politica comunitaria di allargamento sia stata frettolosa e inopportuna, avendo accolto Paesi che non sono animati da spirito europeo. RR

IMMIGRAZIONE E CRISI DELL'UNIONE EUROPEA - La Revisione di Schengen (29-9-2015)
Dal Trattato di Roma del 1957 che istituì la Comunità Economica Europea ad oggi l'Europa ha compiuto un importante cammino verso la sua unificazione economica e politica. Fra tanti successi, sono particolarmente emblematici l'istituzione (forse strutturalmente prematura) dell'Euro - ovvero di una comune valuta che avrebbe dovuto assicurare il consolidamento dell'economia degli Stati membri attraverso una maggiore stabilità monetaria e mediante un coordinato rafforzamento delle loro iniziative imprenditoriali - e il Trattato di Schengen, che attraverso l'abolizione dei controlli sistematici alle frontiere interne degli Stati aderenti avrebbe consentito la libera circolazione delle persone. In proposito si ricorda che le disposizioni su Euro e Schengen, pur essendo state oggetto di specifiche negoziazioni, sono parte integrante della normativa comunitaria: infatti  la transizione alla moneta unica era già prevista dal Trattato di Maastricht vigente dal 1993, mentre la cooperazione in ambito Schengen è stata incorporata, attraverso  gli accordi di Amsterdam  entrati in vigore nel 1999, nell'Acquis comunitario, ovvero nell'insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli Stati membri dell'Unione Europea. È significativo che proprio queste due istituzioni, moneta unica e spazio Schengen (le più evidenti su cui si fonda l'Unione Europea), siano  attualmente oggetto di riconsiderazione. Com'è noto, per quanto riguarda la Convenzione di Schengen è prevista la possibilità del ripristino dei controlli alle frontiere interne per motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Talvolta il ricorso a questo dispositivo straordinario è sembrato essere strumentale a scopi diversi da quelli ipotizzati (e cioè la minaccia grave per l'ordine pubblico o la sicurezza interna); in particolare è sembrato che il ripristino in concreto sia stato utilizzato al fine di fermare persone -  generalmente gli extracomunitari - che non avevano titoli giuridici per varcare frontiere controllate. Questa circostanza si è evidenziata nel caso di alcuni summit di Capi di Stato e di Governo durati poche ore o solo qualche giorno in occasione dei quali il ripristino dei controlli ai valichi è durato anche più di una settimana (così, ad esempio,  è avvenuto in occasione del G7 di Garmisch-Partenkirchen in Germania che si è tenuto il 7-8 giugno 2015). L'emergenza legata al terrorismo di matrice islamica viene da alcuni considerato un valido motivo per la revisione  della Convenzione di Schengen: in particolare gli ambienti politici della destra europea (e quindi non solo  francese) affermano che la prima risposta al terrorismo è il controllo delle frontiere. L'attentato a Parigi alla rivista Charlie Hebdo (gennaio 2015) contraddice questa asserzione: i terroristi che ne furono autori erano cresciuti in Francia e pertanto con quegli atti criminali  si è concretizzata  una minaccia interna al sistema, e non proveniente dall'esterno. Destano maggiori perplessità le iniziative unilaterali di alcuni Paesi che, motivate dai flussi migratori, si sono tradotte  in concreto in una ostacolo alla libera circolazione delle persone (un esempio è stata la recente sospensione da parte della Germania del traffico ferroviario proveniente dall'Austria; una condotta analoga è stata tenuta dalla Francia nei confronti dell'Italia). Prendendo atto di comportamenti simili di altri Stati, non è improbabile in futuro la proposta - già sommessamente ipotizzata in alcune sedi istituzionali comunitarie - di un progetto di riforma degli accordi di Schengen che introduca la possibilità di ristabilire temporaneamente i controlli alle frontiere interne in caso di eccessive pressioni migratorie sulle frontiere esterne. È indubbio che il dibattito sulla revisione di Schengen segna una regressione nel cammino comunitario. Ma questo è solo un aspetto della attuale crisi dell'Unione Europea. RR 

ISLAM E DEMOCRAZIA - V parte - Conclusioni (16-9-2015)
Alla luce dei precedenti approfondimenti può essere nuovamente affrontato il quesito iniziale: la religione islamica è compatibile con la democrazia intesa in senso occidentale? La domanda, se formulata in termini così assoluti, è superficiale e mal posta: infatti le variabili dei rapporti fra Islam e democrazia sono così numerose che non è possibile fornire una risposta univoca, ma sono necessarie precisazioni articolate.
Pertanto possono essere fissati i seguenti punti.
 - Uno Stato in cui è in vigore la Sharia difficilmente può coesistere con una società pluralista e democratica. Il primato dell'Islam innanzitutto esclude la tutela dei fedeli di altre religioni. Significativo è il desueto (ma 'riesumato' dall'Isis)  istituto della Dhimma, che, prevedendo un'eccezione al principio che vietava ai non musulmani di risiedere nella terra dell’Islam, consentiva ad Ebrei e Cristiani di vivere nello Stato islamico subordinando tuttavia questa possibilità al pagamento di un'imposta. L'alternativa all'adeguamento all'istituto era la conversione (all'Islam) o la morte. In altri termini Ebrei e Cristiani godevano di diritti maggiori  rispetto a quelli di altri soggetti non-musulmani, ma minori di quelli previsti in favore dei musulmani. Inoltre, l'Islam, oltre a quella religiosa, giustifica altre forme di  discriminazione, come quella tra i sessi. In conclusione, l'ingerenza della Sharia sulla società civile è incompatibile con il pluralismo politico e religioso (politica e religione nell'Islam sono inscindibili);  è incompatibile con la tutela delle minoranze; è incompatibile con l'uguaglianza e i diritti di libertà. In sintesi, è incompatibile con la democrazia.
 - Diversamente, se lo Stato in cui risiede una maggioranza musulmana ha leggi laiche, non ci sono pregiudiziali ostative alla democrazia. Questo principio ha riscontri concreti, come ad esempio il regime tunisino. In Tunisia il 98 % della popolazione è di religione musulmana. Questo Paese nel 2014 ha adottato una Costituzione che è stata il frutto di un compromesso tra il partito islamista Ennahda e le forze dell'opposizione. La Carta Costituzionale accorda un posto politicamente contenuto all'Islam e introduce in vari settori della società la parità fra uomo e donna; prevede inoltre la libertà di coscienza ("lo Stato è custode della religione, garante della libertà di coscienza e di fede e del libero esercizio del culto"); garantisce la libertà d'espressione e vieta la tortura fisica e morale. L’Unione Europea attraverso un programma di assistenza finanziaria sta sostenendo questo processo di transizione democratica.
 - Fra queste due posizioni - ovvero lo Stato governato dalla Sharia e quello con leggi laiche pur caratterizzato da una popolazione in maggioranza musulmana -  ci sono sfumate situazioni intermedie.
 - Sullo sfondo il ricorrente problema della definizione del così detto 'Islam moderato', dal momento che, come già detto, fra le varie interpretazioni dell'Islam, è impossibile individuare una versione 'ufficiale' mancando un'autorità religiosa gerarchicamente superiore. Questo ha consentito la nascita di più ortodossie,  alcune delle quali violente e intolleranti. RR 

I TRIBUTI IMPOSTI DALL'ISIS AI CRISTIANI. IL RIPRISTINO DELLA DHIMMA. (8-9-2015)

Lo Stato islamico da alcuni mesi ha cominciato ad imporre il pagamento di un tributo ai cristiani residenti in alcune zone del territorio sotto la propria sovranità. L'alternativa al pagamento è la conversione all'Islam o la morte. Non si tratta di una novità, ma dell'applicazione di un desueto istituto previsto dalla Sharia. Nel periodo islamico classico (VII-XVI secolo) infatti non potevano far parte della Umma - cioè della comunità islamica - i fedeli di altre religioni, che pertanto non avevano il diritto di risiedere nella terra dell’Islam. Tuttavia la stessa legge islamica prevedeva un’eccezione per i fedeli delle religioni monoteiste, principalmente per gli ebrei e i cristiani (ma anche per gli zoroastriani, i sabei, gli induisti e ogni altro seguace di culti basati su testi sacri considerati dall’Islam di origine divina), ovvero veniva loro riconosciuta la possibilità di risiedere nella terra dell’Islam; questa opportunità però era subordinata al pagamento di una imposta personale e di una fondiaria, che avrebbero assicurato agli individui gravati dai tributi anche una protezione. La jizya era il termine arabo che indicava questi gravami. Questo quadro normativo era compreso nella Dhimma o Dhimmitudine (Dhimma in arabo significa ‘accordo di protezione’), che pertanto in concreto era un patto tra un’autorità di governo musulmana e fedeli non musulmani - generalmente cristiani ed ebrei - tenuti anche a un comportamento di subordinazione ai soggetti con capacità giuridica piena, ovvero ai musulmani. I Dhimmi erano gravati anche dal divieto di proselitismo e dal massimo rispetto della fede musulmana; il Corano quindi non imponeva loro di convertirsi all’Islam, ma li penalizzava con il pagamento di un tributo. Questo principio venne osservato nei primi secoli che seguirono l’espansione islamica; successivamente, questo patto venne occasionalmente disatteso e i dhimmi furono forzati a scegliere tra l’Islam e la morte. La condizione inerente a questo istituto si perdeva a seguito di violazioni delle norme relative allo status (da esse poteva conseguire anche la pena capitale), o per la conversione all’Islam. Quest’ultima non era vista con particolare favore perché comportava la cessazione dall’esazione dei tributi conseguenti la dhimmitudine. Il fondamento dell’istituto della Dhimma era la convinzione dei fedeli musulmani della loro superiorità rispetto ai fedeli di altre religioni; l’eccezione prevista per gli ebrei e i cristiani aveva radici nel carattere monoteista delle due fedi e nella discendenza dal comune padre Abramo. Inoltre per gli islamici, convinti della superiorità della propria fede, l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza. Per ebrei e cristiani era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti alle violazioni delle condizioni imposte dalla legge islamica (da R. Rapaccini, 'Paura dell'Islam'). L'Isis, con il ripristino di questo istituto (la dhimmitudine), ha rimesso indietro l'orologio della Storia di alcuni secoli. RR 

ISLAM E DEMOCRAZIA - III parte - Alcune precisazioni. (3-9-2015)
Stabilire con chiarezza le relazioni fra religione e politica è la condizione essenziale per lo sviluppo di principi che sono il presupposto della democrazia nell'accezione occidentale, quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, nonché la libertà di culto. Corollario dell'inesistenza nella cultura araba di una demarcazione fra fede e politica è la mancanza di una  corretta elaborazione del concetto di 'laicità', al quale viene spesso erroneamente attribuito - come conseguenza dell'assenza di pluralismo religioso - il significato di 'ateismo'. Fino a qualche decennio fa in arabo la parola 'laicità' nemmeno esi­steva. Attualmente con un neologismo si dice al maniyya, ma  questo termine nel suo esatto significato è generalmente compreso solo dai musulmani che hanno avuto contatti con la cultura occidentale. Il difetto di laicità ha come conseguenza che i poteri dello Stato islamico sono considerati legittimi solo se sono rispettosi della religione, diversamente dallo Stato moderno che si fonda sul  principio di legalità, ovvero sulla sovranità della legge.  La parola 'libertà' aveva invece in passato solo un significato legale e non politico, in quanto indicava l'assenza di limitazioni o restrizioni individuali: il suo opposto era quindi la schiavitù. Il contrario della tirannia non era libertà e la democrazia, ma la giustizia, con la precisazione che al dovere del capo di amministrare equamente non corrispondeva il diritto del suddito di essere trattato giustamente. La libertà da un punto di vista politico era solo una condizione collettiva e non personale, e quindi coincideva con il concetto occidentale di 'indipendenza' dello Stato, che è cosa diversa dalla democrazia. Quando gli echi della Rivoluzione Francese giunsero nel mondo arabo la parola libertà assunse anche un'accezione politica, tuttavia con connotazioni negative in quanto gli autori musulmani la adottarono come sinonimo di libertinaggio, licenziosità ed anarchia, e quindi, in sintesi, come potenziale strumento di eversione dell'ordine morale religioso. Il principio della separazione dei poteri venne introdotto in alcuni Paesi islamici nei primi anni del Novecento (a partire dalla Turchia). Con il nazionalismo, per porre l'accento sulla necessità che la sovranità dello Stato fosse svincolata dalle tentazioni imperialiste di nazioni straniere, la libertà tornò ad essere sinonimo di indipendenza dello Stato. Il pluralismo partitico, presupposto della democrazia parlamentare, viene  tuttora considerato dal pensiero fondamentalista in contrasto con l'unità e la compattezza della Umma, la comunità musulmana; la libertà di opinione avrebbe infatti una connotazione negativa perché sarebbe causa di disorientamento politico e religioso, premessa di un ritorno al caotico mondo pagano precedente alla nascita dell'Islam. In ultimo, l'intangibilità della tradizione religiosa unita alla sua continua invasività sulla sfera politica costituisce un freno  all'iniziativa individuale e collettiva strumentale alla modernizzazione istituzionale. RR

ISLAM E DEMOCRAZIA - II Parte - Democrazia e libertà (1-9-2015 )
Il concetto di democrazia  è strettamente correlato a quello di libertà. La nozione di libertà nella tradizione araba è di recente acquisizione in quan­to storicamente l’aspirazione di questi popoli è sempre stata prevalentemente la giustizia. L’organizzazione tribale che è alla base delle società arabe infatti implica l’accettazione - come realtà ineludibile - dell’esistenza di un potere superiore a cui ci si sottopone pacificamente purché venga esercitato con equità.   Come corollario gli Stati arabi non hanno avvertito nel tempo la necessità di elaborare una struttura amministrativa decentrata in quanto era sufficiente al potere centrale - per poter governare - garantirsi l’appoggio delle comunità stanziate su specifici territori (le tribù), nelle quali - come già detto - si accettava che il potere centrale non fosse esercitato democraticamente, ma  amministrato secondo giustizia. La tribù, che aveva una specifica autonomia e omogeneità, era caratterizzata da propri stili di vita, da au­tosufficienza, da un forte legame con il  territorio e, in alcuni casi, da una sua lingua o dialetto. In essa mancava  qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa; l’attribuzione del potere era fondata su meccanismi dinastici, di anzianità o su forme pseudo-istituzionali che predeterminavano automaticamente il destinatario di funzioni di governo sulla comunità: era del tutto estraneo a questo modello organizzativo qualsiasi strumento che assicurasse facoltà di libera scelta. La società tribale pertanto  - e gli Stati arabi che ne ereditarono la cultura giuridica - non si fondava sui diritti di libertà e di uguaglianza prerogativa delle democrazie. Un membro della comu­nità tribale poteva aspirare a poteri di governo solo se ap­parteneva a una specifica linea dinastica o fosse titolare di aspettative di poteri di governo in virtù di meccanismi di automatica predeterminazione; la condizione di un qual­siasi altro individuo si esauriva invece nell’accettare pacificamente di essere governato purché tale supremazia venisse esercitata con equità. Gli Stati arabi, al momento della loro nascita, riconoscendo la preesistente struttu­ra tribale e demandando alle tribù la gestione locale del potere, ne ottenevano come corrispettivo la fedeltà e il sostegno. In questi ultimi anni si  assiste in molte aree del mondo musulmano a un processo di re-islamizzazione. Per poter avere un quadro completo della concreta rilevanza della normativa islamica nei Paesi musulmani non è sufficiente considerare l’eventuale promulgazione di principi laici, ma il modo in cui queste normative vengono applicate: ad esempio, anche laddove è stata proclamata la libertà religio­sa, tuttavia la concreta professione di atti di fede diver­si dall’Islam o la conversione di un musulmano ad altra fede vengono di fatto sanzionati in quanto equiparati ad atti contrari all’ordine pubblico. Fatta ecce­zione per la Turchia (in questi anni anche in Turchia è in atto un attacco allo Stato laico) in nessuno Stato musulmano viene tutelata sufficientemente la libertà di coscienza. La tolleranza per le scelte religiose e politiche individua­li nella cultura giuridica occidentale trova fondamento principalmente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 - clikka qui), che non è riconosciuta dagli Stati arabi i quali in maniera specularmente contraria ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali debbano es­sere sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica; pertanto, per rapportare i diritti e le libertà individuali alle esigenze religiose e culturali di quei Paesi, è stata elaborata una  Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo (proclamata il 19 settembre 1981 a Parigi - clikka qui). Un altro strumento attraverso il quale, pur essendo in corso un processo di modernizzazione, si è assicurata la vigenza dei principi della tradizione islamica, è stato quello di affermare la necessaria non contraddittorietà tra le nuove leggi e i principi fondamentali dell’Islam, non suscettibili di essere modificati dalla normativa positiva. In conclusione, il mondo arabo-islamico è sempre stato caratterizza­to da regimi autoritari e probabilmente la motivazione di questa caratteristica risiede nella genesi degli Stati arabi, nati con modalità storicamente diver­sificate dalla fusione di tribù. (da R. Rapaccini, Paura dell'Islam, 2012) RR

ISLAM E DEMOCRAZIA - I Parte - Premessa (31-8-2015) 
Il tema della compatibilità fra Islam e democrazia - così sensibile e complesso - sarà oggetto di più commenti. Preliminarmente è necessario precisare che il concetto di democrazia sarà considerato da un punto di vista 'occidentale', ovvero come quel sistema politico fondato sulla divisione dei poteri e che garantisce l'esercizio dei diritti di libertà a livello individuale e collettivo, nonché  la tutela delle minoranze. L'interesse per i sistemi politici islamici si evidenziò con l'ascesa del terrorismo jihadista culminato nei tragici fatti dell'11 settembre 2001: si ritenne infatti che la deriva fondamentalista e i conseguenti problemi di stabilità e sicurezza potessero essere arginati dal dialogo democratico all'interno dei regimi ad impronta teocratica musulmana. Inoltre, poteva così essere evitato quello 'scontro di civiltà' ipotizzato dal politologo Huntington, che già in un suo saggio del 1996 ('Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale')  aveva scritto: "...la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell'umanità e le fonti principali di conflitto saranno legate alla cultura". La questione e la sua analisi vanno esaminate obiettivamente, cioè - per quanto possibile - in modo scevro da preconcetti e pregiudizi influenzati da una visione 'etnocentrica'. In proposito, quale democrazia si auspica per i Paesi musulmani retti da regimi autoritari? Preliminarmente è infatti necessario  chiedersi se sia sufficiente - per definire democratici i Paesi islamici - l'esistenza di libere elezioni che garantiscano una adeguata partecipazione popolare, o invece debba essere assicurata una base politica, giuridica, culturale, sociale che consenta il rispetto dei diritti individuali e collettivi, l'eguaglianza tra i generi, la separazione tra i poteri, il pluralismo, la legalità integrata dalla supremazia del diritto positivo. Per quanto riguarda le libere elezioni questa strada è ormai percorsa da vari Paesi islamici (Tunisia, Egitto, Turchia, ad esempio); il problema è semmai garantire poteri all'opposizione, ovvero evitare la 'tirannia della maggioranza', cioè un autoritarismo 'legalizzato'. È più difficile invece  assicurare il rispetto di alcuni diritti e libertà civili, dal momento che  la religione 'codifica' forme di  disuguaglianza, come quella tra i sessi, e più in generale le aspirazioni laiche delle  istituzioni sono condizionate dall'ingerenza dei principi della Sharia. Come detto più volte, manca nell'Islam una versione 'ufficiale' in  quanto non c'è un'autorità religiosa gerarchicamente superiore -  come nella Chiesa cattolica - legittimata a decidere ciò che è dogma o meno. L'assenza di un'autorità centrale ha permesso la nascita di più ortodossie,  alcune delle quali violente e intolleranti. Quindi Islam e democrazia sono compatibili se il primo resta solo fonte di ispirazione etica per l'azione di individui e gruppi nella società e non ci sia sottomissione del potere statuale alla sovranità divina: così le sorti della politica e della religione rimangono distinte. Se, invece, l'Islam coincide con una concezione globale del mondo totalizzante, cui lo Stato deve ispirarsi assumendo un carattere etico e rinunciando alla laicità, la strada per la democrazia è segnata da ostacoli insormontabili. RR  

IL GILGUL EBRAICO (29-8-2015)
Sto leggendo il libro  'Scintille' di Gad Lerner. E' la storia dell'affascinante epopea  delle peregrinazioni della sua famiglia di origine ebraica, il viaggio di anime nomadi costrette ad un transito errante in molte patrie, emblematico del destino ancestrale di continuo esilio dell'etnia semita. In proposito, mi ha interessato molto il concetto di 'Gilgul', di cui Lerner parla in maniera poetica e personale nel secondo capitolo. Con il termine  'Gilgul' - questa parola significa 'ciclo', 'ruota' - o più  precisamente 'Gilgul Neshamot' parte della cultura ebraica indica la 'reincarnazione', o meglio la 'metempsicosi', cioè il frenetico movimento degli spiriti. Questo lemma poi avrebbe secondo Gad la stessa radice di 'Galuth', che significa 'diaspora'. Così, nella originale e lirica visione dell'autore, attraverso questa associazione, la condizione di permanente trasmigrazione delle anime è il correlato dell'ineludibile esilio dei corpi. Poi le anime si agiterebbero in maniera così violenta che il loro moto conseguente alla separazione dai corpi causerebbe delle scintille: da qui il titolo del libro. Dice a riguardo Gad Lerner: "Il mio intento qui è ricostruire il mio Gilgul e capire le scintille della mia anima, di coloro che mi hanno preceduto, di coloro che mi accompagnano in questa vita, di coloro che non ho mai conosciuto". È come dire, assolutizzando il senso di  questa precisazione, che la comune identità ebraica è il risultato di laceranti migrazioni che sono geografiche e culturali, ovvero è l'esito di componenti che la vivacità intellettuale individuale e le vicende personali fanno dialetticamente convergere e divergere costantemente. Su questo scenario si articolano le storie delle famiglie paterna e materna dell'autore, l'eco del dramma universale della Shoah, che ha coinvolto alcuni antenati, e il continuo atavico malessere dell'antisemitismo. Il libro sembra riconoscere alle anime erranti nel 'Gilgul' la possibilità di esigere di partecipare ancora alla vita con la loro memoria. RR

LA NUOVA POLITICA DELLE FATWA (24-8-2015)
Le fatwa (naturalmente si tratta di una parola araba) sono sentenze o pareri su una questione riguardante l’interpretazione o l’applicazione della legge islamica emessi da un’autorità religiosa. La fatwa normalmente contiene una motivazione che può essere anche ancorata a precedenti pronunce; questo non esclude che alcune fatwa possano essere in contraddizione fra di loro. La nota fatwa emessa dall’ayatollah Khomeini nel 1989 che disponeva la morte dello scrittore Salman Rushdie ha diffuso in Occidente la convinzione errata che tutte le fatwa contengano condanne o ordini di esecuzione. La condanna a morte è un caso raro: si emettono fatwa su argomenti di ogni tipo, dal matrimonio agli affari economici. In Egitto esistono dei call center dove si propongono fatwa quotidianamente su qualunque argomento. Alcune  fatwa hanno poi riguardato programmi televisivi: milioni di telespettatori, che seguivano un'edizione del 'Grande Fratello' trasmessa da un'emittente  libanese, hanno ricevuto una fatwa perché il programma è stato censurato in quanto ritenuto inadeguato. Il gioco del calcio ha ricevuto una fatwa perché sarebbe monopolio di ebrei e cristiani. Uno sceicco sembra che abbia  emesso una fatwa sul sesso dicendo che non lo si può fare da nudi; ma un altro sceicco avrebbe risposto che si può fare da nudi purché i partner  non si guardino fra loro. La mancanza nell’Islam di una gerarchia ufficialmente riconosciuta rende generalmente i contenuti delle fatwa non pienamente vincolanti per i fedeli, che dovrebbero valutarne il carattere cogente soprattutto dall’autorevolezza di chi la ha emessa. L'assenza, in ambiente sunnita, di un clero, com'è noto, è fondata sull’assunto che non si ritiene che possa esistere un intermediario fra Dio e le sue creature. Pertanto, non sono gerarchia religiosa gli imam, incaricati dalla comunità dei fedeli -  per le loro conoscenze religiose - di guidare la preghiera, gli ulema, studiosi esperti nell’applicazione pratica del Corano, i muftì, che formulano pareri sulle fattispecie giuridiche astratte e quindi senza entrare nel merito di una questione concreta, i qadì, che sono i giudici dei tribunali sciaraitici, che giudicano avendo come riferimento la Sharia - la legge islamica - e che oggi sono quasi integralmente sostituiti dai tribunali di Stato. Carattere  ufficiale hanno invece gli ayatollah, che in ambito sciita costituiscono un vero e proprio clero. Le fatwa purtroppo hanno svolto 'di fatto' anche una funzione di promozione del terrorismo. Il terrorista di matrice islamica, infatti, poiché i suoi atti sono ispirati dalla fede sebbene malintesa, deve essere rassicurato circa la conformità delle sue iniziative ai principi religiosi. In proposito, i contenuti delle fatwa, ampiamente discrezionali e talvolta arbitrari e in contraddizione fra di loro, consentono di trovare una giustificazione a qualsiasi condotta, anche la più violenta. Per quanto è stato detto si comprende l'importanza della notizia riportata qualche giorno fa nell'editoriale del quotidiano di lingua inglese 'The National' pubblicato a Dubai, negli Emirati Arabi. L'editoriale ha reso noto che la scorsa settimana al Cairo si sono riuniti esperti di diritto islamico e religiosi musulmani sunniti per dare ordine al mondo anarchico e spesso estremistico delle fatwa. È stata evidenziata innanzitutto l’importanza che le fatwa abbiano  un carattere moderato al fine di contrastare chi cerca di giustificare le atrocità  commesse in nome dell’Islam. Le fatwa dovranno pertanto enfatizzare gli insegnamenti islamici più moderati, ed essere espresse in modo da coinvolgere le persone più giovani, che normalmente sono l’obiettivo del reclutamento fondamentalista. Per ogni fatwa  ispirata al fondamentalismo violento dovrebbe esserci una contro-fatwa che metta in luce il vuoto morale della precedente. Analogamente per ogni sito internet creato dagli islamisti radicali dovrebbe essercene uno con un contro-messaggio. In questo modo - dicono gli esperti - si promuove la conoscenza del vero volto dell’Islam. Se gli esperti di diritto hanno un ruolo fondamentale nell’interpretazione del credo islamico, ogni fedele ha altresì il dovere di disseminare messaggi dai contenuti pacifici. Questa nuova politica delle fatwa ha un'ulteriore corollario positivo: contrastando l'anarchia interpretativa del Corano, si afferma l'immagine unitaria di un Islam moderato. RR

L'UNIVERSALISMO DI NAGIB MAFUZ (22-8-2015)
Uno  degli scrittori che negli ultimi tempi ho letto con maggiore piacere (e che consiglierei a chi è interessato ad essere introdotto alla realtà egiziana come estrema sintesi e precipitato del contesto storico e politico arabo) è il  premio Nobel cairota Nagib Mahfuz (11 dicembre 1911 – 30 agosto 2006), che avvia con dolce malinconia e con uno stile essenzialmente sobrio alla conoscenza della ricchezza della cultura, delle emozioni, dei rumori, dei colori e dei profumi del mondo musulmano. Le sue perfette coinvolgenti ricostruzioni storiche e ambientali mi fanno pensare ad un brillante scritto di Piero Dorfles, che vede nelle potenzialità del libro anche quella di essere un'efficace macchina che fa viaggiare nel tempo e nello spazio, e ad Umberto Eco che analogamente afferma che chi legge può vivere infinite epoche diverse. Nagib Mahfuz è stato anche uno sceneggiatore e uno dei maggiori intellettuali egiziani: devo ammettere che io lo conosco solo come scrittore avendo letto alcuni suoi romanzi. Nelle opere mi ha colpito particolarmente il senso dell'universalismo del mondo arabo. Mi spiego meglio. La contestualizzazione delle sue storie, anche mediante la componente religiosa, è molto intensa al punto che il realismo dell'impianto narrativo sembra superare la realtà. Tuttavia i personaggi arabi, che popolano i romanzi, nelle loro emozioni, nelle loro aspettative, nei loro affetti, nelle loro passioni, anche nella violenza interpersonale e nel fanatismo religioso, o nella disperazione della miseria, attingono ad un immaginario collettivo che è comune a tutti gli uomini, a significare che gli uomini, al di là delle differenze  di superficie, ovvero che siano bianchi o neri o gialli, chiari o scuri, cristiani o ebrei o musulmani, sono animati dalle stesse pulsioni che caratterizzano in generale la società umana. Contro l'intolleranza e i pregiudizi dell'etnocentrismo si deve ricordare che ogni verità, anche se circoscritta localmente ed etnicamente, è pur sempre una verità e perciò ha validità universale. Al di là del valore letterario e artistico delle sue opere, questo è quello che ho imparato da Nagib Mahfuz. RR

DEMOCRAZIA E ISRAELE (20-8-2015)
Ricordo che qualche anno fa Roberto Saviano venne da alcuni aspramente criticato per aver affermato il carattere democratico dello Stato di Israele. Credo che quelle censure fossero frutto di ignoranza se non di malafede. Infatti Israele è oggettivamente una democrazia, l'unica oasi di pluralismo in una regione caratterizzata da  regimi autoritari. Naturalmente affermare questo aspetto positivo non implica necessariamente la condivisione delle scelte di politica estera o interna della nazione israeliana  ma semplicemente riconoscere che queste sono l'esito di un libero dibattito in seno alla vita istituzionale. Ad esempio, personalmente mi sembra inopportuna e fuori tempo la rigidità politica di Netanyahu, che tuttavia è legittimamente ai vertici istituzionali del Paese in quanto è il leader del Likud, il partito che ha vinto le elezioni. Le perplessità sulla democraticità di Israele derivano anche da un pregiudizio sul suo diritto di autodeterminazione, sulle modalità attraverso le quali esercita le sue esigenze di difesa, nonché sull'approccio alla questione palestinese; più precisamente in quest'ultimo caso sono oggetto di critica l’insediamento di Israele nei territori arabi e l’atteggiamento nei confronti dei Palestinesi. In proposito, l’Onu ha adottato risoluzioni che chiedono il ritorno di Israele alle frontiere del 1967. L’avversione che alcuni nutrono nei confronti della politica del governo israeliano può essere fonte di antisemitismo per chi erroneamente identifica lo Stato di Israele con lo Stato degli Ebrei. In  realtà gli Ebrei in Israele sono poco più del 75% circa, mentre i rimanenti non ebrei sono principalmente arabi. Questi cittadini israeliani vengono definiti cittadini arabi di Israele. Si tratta per lo più di palestinesi di lingua araba e di religione generalmente musulmana o cristiana. Non vi è quindi coincidenza fra la parola israeliano - che esprime la nazionalità - ed ebreo, che indica l’appartenenza a un contesto religioso e culturale oltre che ad una etnia. La confusione fra antisraelismo e antisemitismo è evidente quando all’estero sono oggetto di insulti razzisti antiebraici le rappresentanze o i team sportivi israeliani: in teoria un team sportivo israeliano potrebbe anche essere composto da elementi di sola etnia araba. Il Gutman Center presso l’Israel Democracy Institute - un ente di studio indipendente - ha effettuato in passato un monitoraggio della società  israeliana  per stabilire, in base a oggettivi 'indici di democrazia', se vengono attuati gli ideali democratici fondamentali.  Nello studio comparativo con altri Paesi, Israele si piazza tra nazioni come Danimarca, Olanda e Finlandia e risulta quindi del tutto assimilabile alle democrazie occidentali. Va aggiunto che non è facile conservare una struttura democratica quando si vive in una condizione di costante emergenza. Un altro pregiudizio da rivedere è considerare un monolite antiarabo la società di quel Paese, che al contrario è composita, articolata e animata, sebbene condizionata dalle esigenze di sicurezza. A conferma, recentemente il Capo dello Stato Reuven Rivlin ha denunciato debolezze nella lotta delle autorità contro il terrorismo ebraico e condannato con grande determinazione l'uccisione del bimbo palestinese Ali Dawabseh. Per tutto questo le censure mosse a Roberto Saviano per aver affermato la democraticità dello Stato di Israele sono infondate. Per dovere di verità.RR


ALCUNI PUNTI FISSI NELL'EVOLUZIONE DELLE SITUAZIONI NAZIONALI NELLA REGIONE MEDIORIENTALE (16-8-2015)
Nella Regione Mediorientale (intesa in senso lato e quindi comprensiva di Iran, di Iraq, di Afghanistan, etc.) le situazioni si evolvono con grande velocità e quindi è necessario fissare alcuni punti per mettere un po' d'ordine e formulare previsioni sulle prospettive di sviluppo.
- La Turchia è sotto attacco da parte del  marxista Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo e del PKK, il Partito Curdo dei Lavoratori. Il recente dichiarato impegno contro l'Isis probabilmente è anche un modo per avere più libertà di azione nel contrastare questi nemici.  Il governo turco  - è stato autorevolmente rilevato  -   si fonda su valori etici, ma anche sul più cinico pragmatismo. La Turchia vive un momento di difficoltà: l'espansione dell'economia si è fatalmente arrestata, mentre ormai è palese l'inaffidabilità e l'ambiguità politica del leader turco Erdogan, che è strumentale al velleitario progetto di far assumere al Paese una centralità nell'ambito del mondo sunnita. L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea sembra definitivamente tramontato essendo ormai archiviata la possibilità dello Stato turco - non più laico, ma sempre membro della Nato - di svolgere una mediazione strategica fra l'Europa e la Regione islamica mediorientale: in proposito i pregressi sospetti rapporti di concreta connivenza con i  jihadisti  hanno compromesso le relazioni con gli alleati occidentali. 
- Sembra inarrestabile il processo che porterà nei prossimi decenni alla costituzione di uno Stato curdo, integrato dalle aree curde del nord della Siria e da quelle settentrionali dell'Iraq, mentre le regioni curde della Turchia e dell'Iran rimarranno presumibilmente sotto la sovranità dei rispettivi due Paesi.
- La Siria e l'Iraq sono attualmente Stati cuscinetto particolarmente deboli, e sembrano destinati ad essere smembrati in relazione all'avanzata dell'Isis e alla costituzione  dello Stato Curdo. Se riusciranno a conservare l'esistenza, la loro portata territoriale sarà fortemente ridimensionata. Se dovesse cadere il governo di Assad, tornerà ad essere attuale il coinvolgimento nel futuro della Siria  degli interessi dell'Iran e degli Hezbollah. .
- Nonostante l'attuale consolidamento, lo Stato Islamico, nella condizione  attuale, è destinato a soccombere: gli orrori che si consumano nel Califfato e gli atti di minaccia e di aggressione nei confronti dell'Occidente sono sempre più intollerabili. Tuttavia al suo posto, attraverso un processo di riconfigurazione interna, si potrebbe costituire un 'Sunnistan', ovvero uno Stato sunnita senza velleità terroristiche e quindi tollerato dalla comunità internazionale.
- L'Iran, che in passato ha supportato finanziariamente il terrorismo sunnita (Hamas) e quello sciita (Hezbollah,) ha bruscamente rotto i rapporti con Hamas, a causa dell'avvicinamento del movimento terroristico palestinese all'Arabia Saudita, grande avversario dell'Iran per l'egemonia regionale. Questo nuovo scenario potrebbe preludere anche ad un'intesa segreta con Israele per fronteggiare la comune minaccia saudita, e questo, a lungo termine, potrebbe influire positivamente sul processo di pace fra israeliani e palestinesi (è un'ipotesi molto ottimistica, ma possibile).
- In questo contesto la politica statunitense non si muove su linee coerenti, condizionata dalla necessità di salvaguardare interessi contingenti e incapace di una strategia  a lungo termine, anche per il contrasto interno fra il Congresso e le scelte del Presidente. Poi il gioco delle alleanze di fatto crea situazioni imbarazzanti. Ad esempio, Stati Uniti ed Hezbollah sono rivali ma, nella loro lotta comune contro lo Stato islamico e il Fronte Al-Nusra nella Siria occidentale, si trovano a combattere dalla stessa parte.
Questa complessiva situazione conferma il principio secondo cui la geopolitica è sempre una questione locale: infatti, le identità e gli interessi locali determinano situazioni che obbligano le potenze regionali e globali a reagire. RR 

La Darija e il dibattito sull'uniformità linguistica e culturale del mondo arabo  (11-8-2015)
 Sul sito arabo 'El Watan', dedicato alla stampa algerina, qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo di Soufiane Djilali - il politico presidente del Partito riformista Jil Jadid - sul dibattito suscitato in Algeria dalla proposta di introdurre nelle scuole la Darija, ovvero l’arabo dialettale. È noto che l’Islam non è una monade dai tratti definiti in quanto in esso convivono tante confessioni che assumono posizioni spesso divergenti fra di loro. Da un punto di vista culturale, a partire dall'aspetto linguistico, si riscontra la stessa mancanza di omogeneità: questo condizione è sintomatica della difficoltà dei popoli arabi di definire una loro generale uniformità.  Riflettendo sulla paradigmatica situazione dei Paesi del Maghreb, l'uso dell'arabo, la lingua ufficiale, al contrario di quanto si ritiene, non è così radicato nel comune patrimonio da poter essere utilizzato nei rapporti sociali di quotidiana abitualità. L'arabo ha una valenza unificante  ideologica, in quanto è la lingua sacra, ovvero l'unica lingua dell'Islam dal momento che si ritiene che qualsiasi traduzione del Corano in altre lingue esponga all’introduzione di elementi di ambiguità se non di un vero e proprio travisamento: ogni musulmano quindi, anche se non vive o non è nato in una nazione nella quale si parla l’arabo come lingua primaria o di minoranza, avrebbe il dovere di conoscere questo idioma. Accanto all'arabo classico esiste l’arabo moderno standard, che è una sorta di koinè  utilizzata nei consessi ufficiali e internazionali. La lingua araba originaria si è modifi­cata nel corso dei secoli nelle singole regioni interagendo con gli idiomi locali, dando luogo a lingue nazionali a matrice araba. La Darija è dunque la variante araba dialettale parlata nella zona del Maghreb (più precisamente con questo termine si indica comunemente solo il dialetto parlato in Marocco, sebbene sia molto simile a quelli diffusi in Algeria, Tunisia e Libia). Le varianti dialettali della lingua araba sono  talvolta molto diverse tra loro. Nonostante l’esistenza di un arabo ufficiale standard, usato per la comunicazione scritta e in situazioni formali, per la comunicazione informale vengono usati sempre i dialetti, alcuni dei quali sono solo parzialmente comprensibili agli arabi che provengono da regioni diverse. Anche se le persone con un discreto grado di istruzione sono in genere in grado di esprimersi nell’arabo ufficiale, la maggioranza usa e comprende generalmente solo la variante dialettale. Il tamazight, che è invece la lingua berbera, con le sue numerose varianti è usato in situazioni informali orali, ma ha una ridotta diffusione. Il francese è ampiamente conosciuto ma ha un uso elitario, e porta con sé una carica fortemente negativa essendo l'idioma dei colonizzatori.  La Darija, pur essendo la lingua  maggiormente radicata nel patrimonio etnico, è considerata volgare; con l'emancipazione e l'ascesa sociale individuale viene acquisita la padronanza dell’arabo classico e del francese, e l'utilizzo della Darija cede il passo. Questo processo di svalutazione dialettale crea una frattura fra  un’élite, che utilizza espressioni artificiose mutuate dal francese e dall'arabo standard, e il popolo che molto più pragmaticamente ha bisogno di uno strumento pratico per comunicare. Un atteggiamento di rivalutazione delle varianti dialettali dell'arabo non è contrario al Corano, che precisa che "...Tra i Suoi segni, c’è stata la creazione dei cieli e della terra, la diversità delle vostre lingue, dei vostri colori...". In conclusione, si è più volte constatato che non esiste un Islam ma tanti Islam; così un altro luogo comune da sfatare è quello della uniformità identitaria dei popoli arabi fondata sul potere unificante della lingua araba. RR
  
IRAN E RICONOSCIMENTO DI ISRAELE (10-8-2015)
Nonostante le buone prospettive dell'intesa sul programma nucleare iraniano, con un po' di coraggio e di scaltrezza politica si poteva provare di dare un ulteriore contributo alla 'distensione' mondiale. Nel pacchetto dell'accordo infatti si poteva inserire, ovvero tentare di ottenere, il riconoscimento di Israele da parte di un Iran desideroso di essere sollevato dalle sanzioni internazionali e di tornare ad essere un interlocutore dell'Occidente, o meglio, l'unico interlocutore affidabile del mondo islamico. Probabilmente il presidente degli Usa Barack Obama - di cui non vanno tuttavia disconosciuti i meriti nella circostanza  - ha temuto che sollevare questa problematica potesse compromettere le trattative in corso. Anche Israele, poco incline al dialogo con il governo dello Stato persiano non ha sufficientemente individuato questa opportunità. Va detto che l'Iran - probabilmente condizionato dal timore di perdere  il consenso della base popolare - non fa mistero di aspirare alla distruzione dello Stato israeliano. Tuttavia  la posizione fortemente antisemita dei vertici politici della Repubblica islamica, presa da più pressanti problematiche, sembra essere strumentale solo ad esigenze demagogiche interne, piuttosto che un reale interesse. In altri termini è un leit motiv per rassicurare gli iraniani  sulla fedeltà agli ideali politico-religiosi e sulla loro continuità. Il riconoscimento di Israele  sarebbe dovuto essere condizionato ad una soluzione accettabile della questione Palestinese, ovvero al riconoscimento dello Stato della Palestina, dando soddisfazione alla sempre più emergente esigenza di pacificazione che viene dalla base popolare delle due etnie, quella ebrea e quella palestinese. Fantapolitica? No, è semplicemente ricordarsi che l'obiettivo dell'attività politica - come precisò Giovanni Paolo II - è il benessere degli uomini, che richiede il rispetto dei diritti di tutti e il correlato generale adempimento dei doveri. RR

INTERNET NEI PAESI ARABI (5-8-2015)
Da tempo il mondo arabo ha scoperto l'importanza della Rete: tuttavia cresce la diffusione e l’utilizzo di Internet ma non la libertà di espressione. Secondo i dati dell’Anhri (l’Arabic Network for Human Rights, un'organizzazione non governativa con sede in Egitto che si occupa della promozione della libertà di espressione in Medio Oriente e nel nord dell’Africa) sono 157 milioni circa i 'cybernauti' nel mondo arabo, metà dei quali possiede un account 'Facebook'. In crescita è anche l’utilizzo dell’altro principale social network, cioè 'Twitter', che registra oltre 10 milioni di account solo tra Egitto ed Arabia Saudita; solo in Tunisia ed in Palestina il livello di libertà di informazione è sufficiente. Non potendo contenere l’interesse nei confronti delle potenzialità della Rete, alcuni governi islamici hanno promosso la creazione di un Web dai contenuti controllati. Basso è il livello di libertà in Paesi come l'Arabia Saudita e il Bahrain, protagonisti di eclatanti episodi di censura. Ad esempio, il blogger Raif Badawi è stato condannato dal regime saudita a mille frustate e dieci anni di carcere per insulti all’Islam. Nabeel Rajab, un attivista per i diritti umani, ha scontato due anni per dei tweet in cui commentava l’arruolamento nelle file dello Stato Islamico di agenti delle forze di sicurezza del Bahrein e la situazione precaria dei diritti umani nel suo Paese. Quello arabo è generalmente un Internet con siti che corrispondono agli omologhi occidentali, ma informati ai valori della religione musulmana e depurati da qualsiasi depravazione e immoralità. In questo modo ‒ si sostiene nel mondo arabo ‒ si eviterebbe il 'far west' che caratterizzerebbe la Rete in Occidente, laddove la libertà talvolta diverrebbe anarchia e licenza. Moralizzare, attraverso sottili operazioni di cosmesi ispirate al rispetto dei valori dell’Islam, spesso equivale a censurare, ad annullare le possibilità di Internet, che peraltro hanno avuto una considerevole importanza nell’avvio della Primavera Araba. Così è stata creata Dahsha, la Wikipedia dedicata interamente al mondo islamico e al servizio degli utenti di lingua araba; è in Rete Salamworld, l’alternativa araba a Facebook, che ha una particolare sensibilità per i precetti del Corano ed è strutturato - dicono i promotori - per consentire ai giovani di navigare in un contesto nel quale non debbano confrontarsi con idee lontane dalla loro cultura. Conformemente al concetto politico di Umma (ovvero di una comunità ideale che unisce tutti gli uomini di fede musulmana), Salamworld costituisce una parallela comunità virtuale islamica. Il primo quesito che viene naturale porsi è se i 'cybernauti' arabi fruiscano di libertà di espressione. Nelle nazioni islamiche condizioni sociali (ad esempio, l’omosessualità), cause politiche (la contestazione dei regimi al potere), motivi religiosi (l’appartenenza a fedi diverse dall’Islam) da sempre penalizzano le voci fuori dal coro, impedendo il loro accesso ai mass-media: Internet sembrava poter restituire le libertà in precedenza negate. Sono stati impiegati software di filtraggio, blocchi e sospensioni di Rete, esercitate pressioni sugli operatori delle telecomunicazioni nelle ipotesi in cui gli organismi statali non disponessero direttamente delle infrastrutture di connessione. Al fine di esercitare un diretto controllo sulle comunicazioni, alcuni Stati arabi, come l’Arabia e Tunisia, hanno concesso il monopolio della gestione dei servizi di Internet ad aziende di Stato. In aggiunta si è anche ricorso a soluzioni tradizionali, ovvero perseguire il titolare dell’utenza che viola il limite del lecito (secondo la legge locale), configurando le condotte sgradite come forme di diffamazione, di danneggiamento della reputazione dello Stato, o come violazioni della pubblica moralità. Altri governi hanno risolto il problema aprioristicamente, privando i cittadini di accesso a Internet con le più varie motivazioni. Nel 1991 la Tunisia è stata la prima nazione ad avere accesso a Internet, che invece è stato introdotto negli altri Paesi all’inizio della seconda metà degli anni ’90 ad eccezione dell’Arabia Saudita e dell’Iraq che hanno fornito i propri cittadini di questo servizio rispettivamente nel 1999 e nel 2000. All’inizio gli organismi governativi, non rendendosi conto delle potenzialità del nuovo strumento, hanno incoraggiato la diffusione dell’informatica. Da un po’ di tempo si è assistito a un aumento della trattazione dei temi religiosi nelle pagine web in arabo, che si limitano a favorire la diffusione della conoscenza dell’Islam o contengono note interpretative. La maggior parte di questi siti di ispirazione confessionale risultano ubicati principalmente nella regione del Golfo Persico, nella quale le disponibilità finanziarie consentono uno sfruttamento ottimale delle risorse tecnologiche. Generalmente queste pagine web sono di confessione sunnita: le pagine web di contenuto religioso sono il 65% di tutte quelle in lingua araba. Alcuni di questi siti hanno un contenuto fortemente integralista e sostengono anche la necessità dello scontro per motivi religiosi non solo con i non musulmani, ma anche con altri gruppi islamici. Pur essendo messi al bando dalle autorità, questi siti riescono a bypassare i divieti e i filtri predisposti dagli apparati istituzionali. Molti governi inoltre applicando una censura selettiva, che cioè valuta specificamente ogni singolo caso, considerano manifestazioni di libertà di espressione i siti che, pur essendo estremisti e fortemente integralisti, hanno un contenuto che i poteri al governo discretamente condividono. Questi siti hanno progressivamente adottato un linguaggio meno aggressivo e più formalmente corretto, soprattutto dopo l’11 settembre, a cui è seguito un più incisivo monitoraggio della Rete da parte degli Stati Uniti e dei governi di alcuni Stati arabi. I gruppi antagonisti dei regimi arabi hanno presto individuato in Internet uno strumento per infiltrare nel web articoli e notizie che esprimessero le posizioni critiche della dissidenza; la Rete è quindi di fatto un mezzo di propaganda alternativo ai più inaccessibili media tradizionali (giornali e canali radiotelevisivi). La conseguente attività repressiva delle istituzioni pubbliche ha portato all’adozione di rigide misure restrittive della libertà personale nei confronti di giornalisti e attivisti per la democrazia. La repressione non ha ridotto tuttavia l’opposizione che, non trovando più spazio nei rispettivi Paesi, ha cominciato a operare anche dall’esilio, utilizzando postazioni situate all’estero per mobilitare all’interno dei Paesi la dissidenza e diffondere all’estero la conoscenza delle pratiche antidemocratiche e inique dei governi. I regimi attualmente raddoppiano i loro sforzi per la repressione della libertà in Rete, anche se formalmente dichiarano di combattere solo la pornografia e gli atti contrari alla moralità pubblica. I software utilizzati per bloccare i siti dell’opposizione consistono in un servizio che numerose aziende informatiche offrono a pagamento. I primi filtri vennero utilizzati negli USA nei primi anni ’90 per evitare l’utilizzo improprio dei computer pubblici che poteva concretarsi nell’accesso a siti porno grafici. Oggi questo tipo di servizio viene utilizzato da Paesi come il Bahrein, lo Yemen, il Qatar, gli Emirati Arabi per bloccare le pagine web che criticano i rispettivi governi e provvedono al raccordo fra i manifestanti ai fini dell’organizzazione di iniziative di protesta. È paradossale che questi programmi siano per lo più prodotti da aziende statunitensi; in altri termini provengono dallo Stato che formalmente è maggiormente impegnato a promuovere la libertà di parola e di dissentire, e che finanzia inoltre massicciamente programmi per la diffusione di informazioni per aggirare i blocchi: una tipica schizofrenia occidentale. RR
           
LA QUESTIONE CURDA. ANALISI E PROSPETTIVE (3-8-2015)
La questione curda è tornata di stretta attualità a seguito della  decisione manifestata dalla Turchia qualche giorno fa di combattere l'Isis, dopo aver tenuto in    questo ambito un atteggiamento ambiguo. Nella circostanza il leader turco Erdogan ha affermato di considerare sullo stesso piano come minaccia alla sicurezza nazionale  l'Isis e il Pkk, il partito curdo dei lavoratori, il movimento politico clandestino armato che, ispirandosi al marxismo-leninismo, rivendica la fondazione di uno stato curdo indipendente  e che per i suoi metodi di lotta (assassinii mirati, uccisioni per rappresaglia, attentati - anche suicidi - in luoghi pubblici) è attualmente considerato un'organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Usa, dall'Unione Europea e dall'Iran. Si può argomentare che  la mutata strategia della Turchia nei confronti dello Stato Islamico potrebbe servire come schermo per nascondere il reale obiettivo, ovvero combattere le milizie curde stanziate oltre il confine. A conferma di questa ipotesi si evidenzia che qualche giorno fa (il 24 luglio u.s.) una missione aerea di Ankara, che aveva come obiettivo postazioni dell’Isis, ha bombardato soprattutto postazioni curde. Nello stesso giorno la polizia turca ha intrapreso un'operazione contro cellule jihadiste; tuttavia l'iniziativa ha avuto come risultato l'arresto di presunti appartenenti al Pkk. Come si è giunti a questa situazione  e quali sono le prospettive per la costituzione di uno Stato curdo? Il Kurdistan è una regione di  550.000 kmq circa abitata da più di 25 milioni di curdi. Pur avendo una propria cultura e una propria lingua i Curdi (di religione musulmana sunnita) non hanno un loro Paese in quanto il Kurdistan è diviso tra Turchia, Iraq, Siria e Iran. Il popolo curdo è la più numerosa etnia al mondo senza una nazione. Prevalentemente i Curdi vivono in Turchia dove sono 15 milioni circa. Il Kurdistan è ricco di petrolio e ha preziose risorse idriche: tuttavia la mancanza di un'autonomia governativa - o almeno amministrativa - unita alle divisioni territoriali è causa di povertà e sottosviluppo. La posizione geopolitica del Kurdistan, frammentato - come si è detto - fra più Stati, è causa attualmente della mancanza di unità politica. Dopo la Prima Guerra Mondiale con il Trattato di Sévres (1920) venne prevista la costituzione di uno Stato curdo; tuttavia il progetto fu abortito per l'opposizione turca. Con il successivo Trattato di Losanna (1923) i territori abitati dalla popolazione di etnia curda vennero divisi tra Turchia, Siria, Iran e Iraq; di fatto il popolo curdo fu disperso nei Paesi predetti, in ciascuno dei quali assunse lo 'status' di minoranza. A causa del conflitto tra Iran e Iraq (dal 1980 al 1988), 60 mila Curdi si trasferirono nel territorio turco divenendo oggetto di repressione da parte del governo centrale, dal quale venivano considerati un ostacolo all'unità del Paese. Questa situazione favorì  in Turchia la costituzione del già menzionato partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk); similmente in Iraq si costituirono il Partito Democratico Curdo (Kdp) e l'Unione Patriottica del Kurdistan (Kpu), e in Iran il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano e il Partito per la Libertà del Kurdistan (Pjak). L'associazione Human Rights Watch e la Commissione contro il Razzismo e l’Intolleranza del Consiglio d’Europa hanno più volte denunciato la condizione di sottosviluppo, di discriminazione  e di mancanza  delle libertà fondamentali dei Curdi che vivono in Turchia, oggetto fin dalla metà del secolo scorso di un processo di 'turchizzazione' al fine d negarne l'identità nazionale. Quali sono i possibili sviluppi di questo scenario? Il Kurdistan non può essere considerato unitariamente, ma si devono tenere presenti le sue diverse frammentazioni nazionali. Il Kurdistan iracheno per il suo impegno contro l'Isis sta guadagnando un credito nei confronti della comunità internazionale, per cui in concreto se si parla di un possibile Kurdistan indipendente, ci si riferisce al Kurdistan iracheno, che tra l’altro già è destinatario di ampi margini di autonomia concessi dal governo di Baghdad. Per quanto riguarda il Kurdistan turco e quello iraniano, è indubbio che né la Turchia né l’Iran consentiranno la perdita di proprie porzioni di territorio per la formazione di un Kurdistan indipendente. Pertanto fra le diverse componenti nazionali del popolo curdo manca unità di intenti. Queste divisioni e l'assenza di una comune strategia costituiscono un grande limite. Manca anche un consenso su chi debba essere eventualmente il rappresentante unico di tutta la nazione. Inoltre nessuno sembra avere interesse alla nascita di uno Stato curdo. Non ha interesse la Turchia, che da decenni combatte decisamente le rivendicazioni curde e che ora sembra valersi in questo ambito - come detto - dello schermo della strategia 'anti-Isis' per avere 'mano libera' ; non ha interesse l’Iraq che perderebbe una importante componente della propria ricchezza del sottosuolo; non hanno interesse le monarchie del Golfo, che temono una possibile destabilizzazione dell'area causata dalla comparsa nella regione di un nuovo attore 'sunnita' ma nella sostanza molto 'laico'. In conclusione, nonostante la questione curda sembra molto 'esplosiva' e sembra imporre a breve una soluzione, la costituzione di uno Stato curdo  è sempre più lontana, anche se la fiducia nella propria volontà e nelle proprie decisioni, presupposto dell'indipendenza, non mancano nel popolo curdo. RR  
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IMMIGRAZIONE, PREGIUDIZI E PROPAGANDA (1-8-2015)
Il dibattuto sui flussi migratori provenienti dall'Africa spesso è condizionato da approcci preconcetti che sono il precipitato di una cultura indotta. In proposito, il sociologo russo Sergej Hessen (1887-1950) nel saggio 'Ideologia e autonomia dell’educazione della pedagogia' (1938) evidenziò che la differenza tra propaganda e istruzione poteva essere così definita: "La propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all'uomo come dovrebbe pensare". Propaganda e pregiudizio sono termini simmetricamente opposti ma strettamente correlati fra loro. Mentre la conoscenza dovrebbe fornire un’immagine oggettiva, la propaganda produce una rappresentazione migliorativa e il pregiudizio ne elabora una peggiorativa. Etimologicamente il pregiudizio avrebbe un’accezione neutra, sarebbe soltanto un giudizio anticipato e superficiale, cioè non suffragato dal necessario approfondimento; tuttavia nella pratica il termine viene considerato solo in un’accezione negativa, ovvero come una rappresentazione preconcetta denigratoria. Esiste anche un’altra correlazione fra le due realtà: la propaganda per i suoi fini può enfatizzare un pregiudizio già esistente. Un esempio di questo rapporto può desumersi da una pronuncia della Cassazione Penale del 2012 (Cass. Pen. Sez. I, 11 dicembre 2012, n. 47894); nella sentenza si è riconosciuta la responsabilità, per il reato di propaganda di odio razziale, di un consigliere comunale che espresse nell’aula consiliare nei confronti di appartenenti alla comunità rom pregiudizi fondati su asserite qualità afferenti l’etnia, e, segnatamente, riferibili a una presunta condizione di inferiorità della cultura e delle tradizioni dei territori di provenienza, piuttosto che fondati sui loro comportamenti concreti. Gli effetti della propaganda e il loro rapporto con i media tradizionali sono stati approfonditi in alcuni saggi del linguista Noam Chomsky ('Manufacturing Consent: The Political Economy of the mass media') che ha evidenziato l’esistenza nel mondo occidentale di un monopolio delle idee di cui dispone il potere economico e politico attraverso l’influsso che è in grado di esercitare sui mass media. In proposito, la Rete potrebbe essere un’entità antagonista di questa situazione, perché ha la capacità di consentire a ognuno la libera espressione del proprio pensiero, senza filtri e a basso costo. Da questo punto di vista Internet è un insopprimibile baluardo della democrazia. È necessario pertanto che il mondo virtuale mantenga questa sua caratteristica, e che i legislatori  resistano alla tentazione di regolamentare questo spazio. Anche se c’è il rischio che nella Rete la libertà possa trasformarsi in licenza, si deve evitare che il Web perda, anche come effetto secondario di un’iniziativa normativa, le sue preziose peculiarità di indipendenza. RR

CHIESA E STAMPA ARABA. PRIME RIFLESSIONI (29-7-2015)
Nel 2013 una studiosa irachena Samar Messayeh ha approfondito il rapporto tra la stampa araba e la Chiesa cattolica sintetizzandogli esiti della sua preziosa ricerca in una tesi di dottorato dal titolo "La Chiesa nella stampa araba". Prioritaria nell'articolazione del lavoro è la distinzione fra mondo 'arabo' e quello 'islamico'. Il termine 'arabo' sottolinea solo l’appartenenza a una comunità etnico-lingui­stica: si definisce 'arabo' chi fa parte dell’etnia stanziata nell’area del vicino Oriente (la regione che si estende dalla sponda orientale del Mar Mediterraneo all’Iraq e alla Penisola arabica), in Africa del Nord e in Egitto, e che ha come lingua madre la lingua araba. In questo am­bito geografico tuttavia i componenti di gruppi etnici non islami­ci, come i cristiani maroniti, i copti in Egitto o gli ebrei di lingua araba, pur avendo come lingua madre l’arabo, rifiutano la definizione di 'arabi', in quanto la ritengono fondata non tanto sulla unità linguistica, ma piuttosto su dati culturali, religiosi e storici che non ritengono di poter con­dividere. In modo erroneo il termine è utilizzato quando è esteso a qualsiasi popolazione che si sia insediata in quest’area ma che non ha la lingua araba come lingua madre (come, ad esempio, i berberi del Maghreb). Politicamente sono considerati 'Paesi arabi' i Paesi che aderiscono alla Lega Araba. Il termine 'islamico' indica invece solo l’adesione a una fede religiosa: conseguentemente si può essere arabo e non islamico e viceversa. Non vi è quindi coincidenza fra 'mondo arabo' e 'mondo islami­co'; in concreto, tutti i Paesi arabi sono islamici ma non tutti i Paesi islamici sono arabi (come nel caso dell'Iran), in quanto in molti Paesi islamici l’arabo non è la lingua ufficiale. A conferma di questo, si precisa che i fedeli islamici arabofoni rappresen­tano solo il 10% circa dei musulmani. Peraltro la comunità islamica più numerosa del mondo si trova in Indonesia. Tornando alla ricerca, nella storia le relazioni fra cultura araba e occidente cristiano hanno avuto momenti di grande vicinanza e intensità sia nel versante umanistico che in quello scientifico, al punto tale da potersi affermare che la Chiesa fa parte della storia del mondo arabo. L'esempio più noto: la cultura greca è giunta fino a noi grazie al mutuo e complementare raccordo fra arabi e cristiani. È significativo inoltre che il primo arabo a fondare un giornale arabo nei primi decenni del XIX secolo sia stato proprio un cristiano. Lo studio prima di giungere al tema centrale della ricerca approfondisce l'attuale situazione in cui si trova la stampa araba: naturalmente mancanza di libertà, censura, connivenza con il potere, pregiudizi di genere sono gli aspetti caratteristici. La rivoluzione digitale e le potenzialità di Internet hanno inaugurato nuove prospettive. Internet è un mondo dove chiunque (e ovunque) può esprimere le proprie convinzioni, non importa quanto singolari, senza paura di essere costretto al silenzio imposto dal conformismo. Tuttavia i 'cybernauti' arabi non fruiscono di una libertà di espressione adeguata a supplire ai limiti imposti dai governi agli altri mezzi di comunicazione. Le autorità arabe hanno presto percepito che la Rete, svincolata dall’occhio vigile del potere, costituisce una seria minaccia, ed hanno perciò intrapreso iniziative per controllarne le attività. L'ampio campione di giornali esaminato dalla studiosa evidenzia che nei Paesi nei quali vi è una forte comunità cristiana, sebbene in condizioni di minoranza, i giornali si occupano della Chiesa talvolta anche come modello di riferimento istituzionale religioso; naturalmente non sono oggetto di informazione gli atti di ostilità che nel Paese subiscono i cristiani. Più precisamente - osserva la studiosa - non vi è cenno dell’aspetto negativo del comportano dei musulmani verso i cristiani; non c’è neanche un testo che parli dei diritti delle minoranze o della mancanza della libertà religiosa. Sembra che tutto sia perfetto. Nei Paesi nei quali è forte l'integralismo - come quelli della penisola araba - invece l'immagine della Chiesa è quella stereotipata delle Crociate. È chiaro che le differenze religiose sono quasi sempre strumentalizzate da interessi politici ed economici concreti, e che ci troviamo in un momento di recupero della giustificazione teologica dei conflitti: sembra che l'esame della stampa araba approdi a questa conclusione implicita. Si avverte inoltre, in qualche occasione, nei giornali esaminati l’esigenza di cambiamenti politici, più di stampo laico che religioso. Conclude amaramente la studiosa che sarebbe auspicabile andare oltre la diffusione di stereotipi; ogni giornalista ha le sue convinzioni, ma "non riesce ad andare aldilà delle sue posizioni e a descrivere la realtà così com’è senza essere influenzato dal potere politico e religioso" RR
 
IL 'RECUPERO' DELLA TURCHIA (26-7-2015)
Negli ultimi giorni si è registrato un cambiamento di rotta significativo nella politica estera della Turchia. In precedenza il governo turco aveva deciso di non prendere parte attivamente all'alleanza anti-Isis, giustificando implicitamente questa posizione con la volontà di non supportare indirettamente il regime alawita siriano dell'ex amico e ora nemico Bashar Al Assad (che dal 2013 combatte l'Isis), e di non trovarsi dalla stessa parte dei curdi (siriani e iracheni), molto attivi nella guerra allo Stato Islamico. Il carattere ambiguo della politica del presidente Erdogan si intuiva anche dal prevalente uso delle frontiere turche da parte di migliaia di 'foreign fighters' diretti in Siria per unirsi ai gruppi di ribelli o all’Isis. Il  confine  turco-siriano inoltre è impiegato anche per un fiorente contrabbando di petrolio che finisce per finanziare lo Stato Islamico. La politica poco chiara di Erdogan probabilmente era la conseguenza delle sue ambizioni di fare della Turchia - che in passato ha supportato a questo fine molti movimenti di rivolta anche vicini ai Fratelli Musulmani - la potenza leader nella regione mediorientale. La Turchia nei giorni scorsi sembra che abbia invece consentito alle forze statunitensi l'impiego futuro delle basi militari prossime al confine siriano per effettuare attacchi aerei anti-Isis. Il 24 luglio per la prima volta la Turchia ha inoltre bombardato  obiettivi dello Stato Islamico. La violenza dell'Isis non aveva  risparmiato la Turchia: il 20 luglio almeno 32 persone erano state uccise in un attacco suicida rivendicato dall’Isis in un centro culturale della città di Suruc. Resta da chiarire le motivazioni di questa svolta in favore degli alleati occidentali. Forse, considerate le ambizioni di Erdogan, la disponibilità militare di supportare le forze americane serve a bilanciare l'idillio nascente fra Occidente e Iran: la Turchia, infatti, essendo sempre alla ricerca di un ruolo centrale nella regione, teme l'ascesa persiana. Peraltro sarebbe opportuno dissociare il popolo turco da Erdogan, dal momento che nelle recenti elezioni l'opzione che avrebbe determinato una svolta  autoritaria in suo favore ha subito una bocciatura: come mi ha fatto notare un amico la Turchia nell'occasione ha dato un'importante (e inaspettata) prova di democrazia. Quindi potrebbe nuovamente tornare attuale il ruolo di mediazione geografica, politica e culturale della Turchia fra Europa e mondo arabo, e potrebbe esserci in futuro un ritorno di interesse per un suo possibile ingresso nell'Unione Europea, che negli ultimi tempi sembrava definitivamente archiviato. RR

IL SENSO DEI COMMENTI (25-7-2015)
Nel 2012 ho scritto un libro, Paura dell'Islam, che partiva da questo presupposto. Si andava profilando in Occidente, dopo i tragici fatti dell'11 settembre 2001, un confronto con l'Islam sempre meno pacifico. Il sottotitolo del libro così specificava i contenuti del saggio: "Il travisamento della cultura islamica nella genesi del terrorismo". Con questa precisazione volevo richiamare l'attenzione sul fatto che il ricorso alla violenza come strumento di affermazione di una malintesa fede religiosa è il prodotto di una deriva fondamentalista integrata solo da una ridotta frangia di musulmani. Dall'11 settembre 2001 infatti si era diffuso un senso di paura nei confronti del mondo islamico, che spingeva a vedere in ogni musulmano un potenziale terrorista. L’islam è un ordinamento allo stesso tempo religioso, politico e giuridico, e risulta difficile per un occidentale distinguere la norma religiosa da quella giuridica. Inoltre la ripartizione dell’Islam in un sistema nello stesso tempo religioso, politico e giuridico è un'applicazione delle nostre tentazioni sistematiche: per l'Islam la realtà è unitaria dal momento che la sfera religiosa e quella politica coincidono essendo disciplinate entrambe da una stessa legge, la Sharia. Tuttavia nel suo interno l’Islam è un mondo estremamente composito e disomogeneo. Nel mondo arabo circola un detto che precisa che gli Arabi sono d’accordo solo nel non essere d’accordo. Il comune riferimento all’Islam avrebbe potuto costituire la premessa per un profondo senso di solidarietà e di coesione fra i Paesi musulmani. Al contrario i nazionalismi che hanno animato le vicende storiche, soprattutto nel XX secolo hanno originato profonde divisioni. L’assenza di un magistero centrale e unico, le diversità fra scuole giuridiche e teologiche all’interno dell’ortodossia, gli scismi, l'influenza dei particolarismi, gli adattamenti alle varie realtà regionali, hanno contribuito a produrre tanti Islam, che sono tuttavia declinazioni di un unico principio ispiratore. In sintesi l'Islam è unito nella diversità: il fondamentalismo che degenera anche in atti violenti ne è un'articolazione marginale e minoritaria. Dire che i fenomeni degenerativi coincidano con l'Islam è come affermare che la pedofilia o altri episodici sporadici e patologici siano una caratteristica generale della Chiesa Cattolica: questa efficace ed acuta esemplificazione è stata pronunciata da una fedele musulmana nel corso di un'intervista televisiva. Alla base di tante incomprensioni ci sono anche i danni di una visione etnocentrica, che spinge ognuno a giudicare le altre culture e ad interpretarle in base ai criteri unilaterali mutuati dalla propria cultura. Poi, un difetto di conoscenza porta alla facile assimilazione fra islamici in generale e cellule fondamentaliste. È di centrale importanza considerare che le contrapposizioni fondate su fedi e idee diverse hanno carattere astratto in quanto si dimentica che dietro le ideologie, depurate dal fanatismo violento, nell'ordinario ci sono persone con affetti, timori e incertezze come le nostre, uomini che conducono una vita diversa nelle apparenze esteriori ma uguale nei contenuti esistenziali. Così l'obiettivo dei miei 'commenti' sul mondo arabo è essenzialmente divulgativo: entro i miei limiti vorrei fornire elementi che siano propedeutici a che ognuno possa maturare posizioni libere da preconcetti. In altri termini non intendo favorire un giudizio positivo o negativo sul mondo musulmano, ma, trasferendo sugli altri quello che in questi anni ho appreso, vorrei semplicemente integrare le premesse affinché detto giudizio sia informato, cioè supportato da un'adeguata formazione. RR


L'ORGANIZZAZIONE DELLO STATO ISLAMICO (22-7-2015)
Mentre i giornali si occupano prevalentemente della crisi greca, l'Isis (o Daesh in arabo) va consolidando la sua presenza. Abu Bakr Al Baghdadi, leader dello Stato Islamico, per motivi di sicurezza appare in pubblico raramente; nel giugno 2014, dopo aver unilateralmente proclamato da una moschea di Mosul la nascita di un califfato nei territori caduti sotto il suo controllo, ha esortato tutti i musulmani ad unirsi e ad obbedirgli. In questo modo nella strategia del jihadismo globale si è realizzato un profondo cambiamento rispetto al passato: l'integralismo islamico, rivendicando la propria sovranità su un territorio, rivelava fin da allora l'ambizione a divenire una vera e propria entità politico-statuale, nello specifico, un Califfato. Il Califfato è sorto come istituzione alla morte del Profeta Maometto con la designazione di successori chiamati a guidare la comunità dei fedeli, cioè la Umma, che doveva essere un riferimento per tutti i musulmani a prescindere dalle differenze di identità nazionale e dai confini geografici: un progetto irrealistico nell'architettura del mondo contemporaneo. Nel luglio del 2014 alcuni documenti sequestrati nella casa di un membro dello Stato islamico da militari iracheni hanno rivelato in dettaglio la struttura dello Stato Islamico. Al Baghdadi si avvale di una squadra di consulenti, di ministri e di preposti a specifiche aree di competenza secondo rigide gerarchie. Sotto Al Baghdadi due stretti collaboratori sono investiti delle responsabilità rispettivamente sul territorio che apparteneva alla Siria e su quello ex iracheno. Poi ai vertici delle questioni finanziare, dei trasporti, della sicurezza, delle esigenze logistiche e tecniche della guerra e di altre politiche rilevanti vi sono ministri con specifiche deleghe e retribuzioni; vi è pure un dicastero che si occupa del reclutamento all'estero di jihadisti. Al Baghdadi nelle materie belliche si avvale anche di alti ufficiali che hanno servito l'esercito di Saddam Hussein. Scendendo, ogni provincia ha il suo governatore responsabile dell'amministrazione della regione. L'organizzazione periferica ripete quella centrale. È evidente l'intenzione dell'Isis di accreditarsi come un'istituzione statale che controlla un territorio con sovranità piena, ed eroga alla popolazione i necessari servizi, come istruzione, assistenza sanitaria, ordine pubblico. Naturalmente vi sono tribunali per l'esercizio delle funzioni giudiziaria: in essi viene applicata integralmente la Sharia. Nella vita ordinaria la regola è la separazione fra gli uomini e le donne, che devono indossare il burqa. Alcool, tabacco e droghe sono vietati. Una temutissima polizia religiosa pattuglia le strade per vegliare sul rispetto della legge coranica. Tra le pene per le trasgressioni vi sono la fustigazione, le amputazioni, la morte anche mediante la pubblica crocifissione. Le atrocità che vengono consumate dagli organi di polizia sono oggetto di capillare propaganda in quanto il potere dell'apparato statale si fonda sull'intimidazione e su un diffuso sentimento di paura. L'organizzazione ha la punta di massima efficienza nella capitale Raqqa. Al Baghdadi si avvale di organi consiliari che forniscono consulenza e supervisione strategica nelle materie militari e dell'amministrazione civile. Il Consiglio della Shura (9/11 membri) ha prevalentemente una funzione esecutiva vegliando sulla catena di trasmissione delle direttive del Califfo e sulla loro attuazione. Il Consiglio della Sharia (6 membri) è direttamente controllato da Abu Bakr ed è l'organo più potente. I suoi compiti includono la sorveglianza ideologica, cioè garantire la conformità delle attività esecutive alle disposizioni della Sharia. Lo Stato Islamico si finanzia attraverso donazioni provenienti dai Paesi del Golfo (soprattutto dal Qatar), mediante la vendita del petrolio a un prezzo ribassato del 30%, con la tassazione imposta ai residenti dei territori conquistati, con i soldi provenienti dalle estorsioni e dai riscatti delle persone rapite, e con il  contrabbando di opere d'arte. Se Al Qaeda mirava a distruggere, l'Isis sta costruendo portando avanti  un progetto, suggestionando giovani disorientati con un'efficace propaganda. RR

L'IDEOLOGIA DELLO STATO ISLAMICO (ISIS) (20-7-2015)
L'analisi della deviante ideologia dell'Isis è fondamentale per la conoscenza dello Stato Islamico, per contrastarne l'avanzata e per ridurre il reclutamento di jihadisti. L'ideologia in generale viene correntemente definita come l'insieme delle idee, delle opinioni e dei valori che orientano le iniziative di un gruppo sociale. Vi è dunque un collegamento fra pensiero e azione. In proposito, l'ideologia dell'Isis viene definita  'salafita - jihadista'. Il momento teoretico è il Salafismo, cioè il ritorno all'antica purezza dell’Islam attraverso un'interpretazione letterale dei testi sacri, ripuliti dalle sovrastrutture e dalle integrazioni apportate nei secoli. La fase attuativa è il jihad, interpretato come il complesso delle condotte, anche belliche e di matrice terroristica, necessarie per attuare questo progetto. In termini più specifici l'Islam si sarebbe allontanato dall'autenticità originaria per colpa delle cospirazioni dell'Occidente, fonte di corruzione. La risposta è la 'dawa', cioè il proselitismo per la causa dell'Islam, che l'Isis interpreta con il reclutamento di adepti per la guerra santa avvalendosi, con aggiornata ed efficace professionalità, di tutte le  potenzialità multimediali. Le ideologie moderne si articolano in quattro fasi: acquisire la consapevolezza di una situazione, analizzarla, creare una base identitaria, formulare rimedi. Questi passaggi si riscontrano nel percorso motivazionale dell'Isis. Il mondo musulmano ha smarrito la retta via per colpa degli infedeli, ovvero degli ebrei, dei 'crociati', degli arabi 'apostati':  a loro dichiara guerra Abu Bakr al Baghdadi con  i suoi proseliti, che definisce 'eroi del jihad'. L'Isis offre ai suoi seguaci una nuova seppur discutibile identità, che si concreta nell'appartenenza ad una struttura sovranazionale, che si professa in grado di garantire ordine, organizzazione, sicurezza, certezza, motivazioni, stretta coerenza con l'impianto confessionale: questi  elementi hanno particolare effetto sui giovani neoconvertiti all'Islam, 'disorientati' dalla modernità e dalla democrazia; questo 'humus' genera il 'fard ayn' cioè la convinzione dell'esistenza di un dovere individuale di promuovere il jihad. Ci sono altri due aspetti che l'ideologia dell'Isis ha in comune con le ideologie moderne. Innanzitutto l'universalismo: analogamente all'utopia marxista, 'la chiamata alle armi' del  nuovo Califfato è rivolta a tutti i musulmani a prescindere dai confini nazionali. Entrambe le ideologie poi dividono il mondo in una dicotomia  inconciliabile: mentre il marxismo-leninismo insiste sulla divisione fra capitalisti e proletariato, il salafismo-jihadista contrappone ai veri credenti musulmani gli infedeli e gli apostati musulmani. L'impianto ideologico, per quanto coerente, non può mai giustificare chi si pone al di fuori della comunità civile, nè legittimare qualsiasi mezzo per raggiungere un obiettivo. RR

ISIS E DHIMMA (19-7-2015)
Lo Stato Islamico, a differenza di Al Qaeda, ha la direzione su un preciso territorio, che governa sottoponendolo a un diretto controllo anche fiscale; si è inoltre dotato di truppe formate da combattenti “regolari”. Osama Bin Laden voleva un Califfato, lo immaginava come il punto di approdo di un percorso, ma per la sua nascita attendeva che ci fosse nel mondo islamico la giusta unità. Abu Bakr al Baghdadi, leader dell'Isis, si è invece autoproclamato Califfo dopo aver preso il controllo di alcun zone tra Siria e Iraq. L'Isis ha un piede nel passato ed uno nel futuro: è un'evoluzione pratica del progetto dei gruppi fondamentalisti di matrice islamica, in particolare di Al Qaeda, ma si ispira a un desueto modello di Stato Islamico, vecchio di alcuni secoli. In questo contesto va considerato il ripristino della 'Dhimma'. La 'Dhimma' è un istituto che ebbe applicazione nel periodo islamico classico (VII-XVI secolo), ed è previsto dalla Sharia, ovvero dalla legge coranica, costituendo un correttivo al principio secondo il quale i fedeli di altre religioni non possono far parte della 'Umma', ovvero della comunità islamica, e cioè non possono risiedere nella terra dell’Islam. La stessa legge islamica tuttavia prevede un’eccezione per i fedeli delle altre religioni monoteiste, principalmente per gli ebrei e per i cristiani: per loro la possibilità di restare nella comunità islamica sarebbe consentita, ma sarebbe subordinata al pagamento di una imposta personale e di una fondiaria che assicurava loro anche una protezione. La 'jizya' era il termine arabo che indicava questi tributi, che gravavano sui sudditi maschi in grado di produrre reddito, mentre erano esentati gli appartenenti al clero. I cristiani e gli ebrei erano tenuti anche a un comportamento di subordinazione ai musulmani, nonché al divieto di proselitismo e al massimo rispetto della fede islamica. La 'Dhimma' è questa speciale disciplina, tecnicamente in concreto un patto individuale fra ebrei o cristiani e un’autorità di governo musulmana. La condizione di 'dhimmitudine' si perdeva a seguito di violazioni delle norme relative allo 'status', o per la conversione all’Islam. Il fondamento dell’istituto era la convinzione dei musulmani di essere superiori ai fedeli delle altre religioni; tuttavia, l’accettazione condizionata degli ebrei e dei cristiani era motivata dal carattere monoteista delle due fedi e dalla comune discendenza dal padre Abramo. La 'Dhimma' era considerato diversamente dai musulmani da una parte, e dagli ebrei e cristiani dall’altra: per i primi, convinti della superiorità della propria fede, l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza; per ebrei e cristiani era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti ad una possibile revoca. Come evidenziano numerose fonti video e pubblicazioni on-line, l'applicazione della 'Dhimma' come retoricamente 'riesumata' ed evocata dall'Isis si concreta esclusivamente nella concessione all'infedele di una tregua di sole 48 ore per compiere la propria scelta di abbracciare l’islam o di abbandonare le città: in mancanza dell'opzione per una delle due alternative il cristiano o l'ebreo viene giustiziato. Questo tradisce la reale volontà dei militanti del sedicente califfato, cioè quella di voler perseguire una politica di sterminio ed epurazione di cristiani ed ebrei, in quanto, di fatto, la conversione è l’unica via lasciata realmente aperta a queste comunità dallo sciagurato regime. RR
  
L'ACCORDO SUL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO (15-7-2015)
L'accordo firmato qualche giorno fa a Losanna dopo lunghe trattative fra i cosiddetti  5 + 1 (ovvero i Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu + la Germania) - mandatari della comunità internazionale - e l'Iran ha una grande portata storica. Come è noto, l'intesa ha come oggetto lo svolgimento del programma nucleare iraniano - fonte di tensioni nell'area mediorientale - che gli enti preposti saranno messi in grado di verificare che sia rivolto a scopi civili, e, come contropartita, la rimozione delle sanzioni che, fin dai tempi di Khomeini, gravano sullo stato persiano. La stampa di questi giorni contiene i dettagli delle disposizioni che naturalmente dovranno superare la prova dei fatti. I commenti sono spesso rivolti alle conseguenze  economiche dell'evento, che comporterà 'in primis' l'immissione di migliaia di barili di petrolio iraniano sul mercato, con caduta del suo prezzo ed altri effetti non del tutto al momento ipotizzabili: per quanto l'economia (quella finanziaria e non quella reale) governi con le sue regole il mondo, l'intesa ha un valore che va ben oltre le leggi della finanza. L'Iran infatti esce dall'isolamento nel quale lo avevano relegato l'embargo e l'interruzione delle relazioni commerciali, per tornare ad essere un interlocutore 'normale'. Nell'attuale contesto geopolitico si tratta di una grande novità: l'Iran potrebbe essere in prospettiva quell'alleato strategico nel mondo islamico di cui l'Occidente ha un bisogno vitale. Innanzitutto, la sua adesione all'Islam di tipo sciita lo rende un partner affidabile per contrastare l'Isis e soprattutto le ambiguità del mondo islamico sunnita, di cui non ci si può fidare completamente in quanto i suoi atteggiamenti di condanna dello Stato Islamico non corrispondono ai fatti: componenti delle monarchie sunnite del Golfo infatti forniscono un supporto economico,  militare e politico al fondamentalismo che ha la sua punta esponenziale nell'Isis. Inoltre l'attuale governo della Repubblica islamica iraniana è solido, moderato e riformista, e sta riprendendo in considerazione i progressi nel campo delle libertà civili  che furono obiettivi del passato leader Khatami, che con la sua presidenza fece pensare all'avvento di una possibile primavera iraniana, abortita con l'ascesa di Ahmadinejad. La popolazione persiana poi  nella sostanza è secolarizzata e conserva un substrato culturale occidentale. Tuttavia non si deve dimenticare che la complessa architettura  'a doppio binario' del Paese prevede al governo, oltre ad un vertice civile, il presidente Rouani,  un capo religioso, l'ayatollah Khamenei, espressione dello spirito conservatore teocratico, e reale freno al progresso. Israele, o meglio il leader del Likud Netanhyau, considera l'accordo un grave errore: l'Iran è oggettivamente per Israele una minaccia dal punto di vista militare. Tuttavia i tempi sono maturi per la stabilizzazione e la  normalizzazione delle relazioni di Israele con il mondo arabo attraverso l'implementazione degli accordi di Oslo, per il riconoscimento dello Stato palestinese e soprattutto per il riconoscimento di Israele anche da parte dei Paesi arabi e islamici. Le contingenze di questo  momento storico potrebbe consentire allo stato israeliano attraverso  scelte politiche coraggiose di uscire dalla condizione di assedio alla quale è costretto dai Paesi confinanti. Nell'aver condotto le trattative va riconosciuto a Barak Obama, destinatario di un premio Nobel per la pace assegnato 'a scatola chiusa', di aver portato a termine questo progetto nell'ostilità manifesta di Israele e in quella meno apparente delle tradizionali alleate monarchie saudite che temono l'ascesa della potenza iraniana nella regione medio-orientale. In ultimo l'Iran è stato in passato una centrale del terrorismo finanziando movimenti sciiti, in particolare Hezbollah, e sunniti, segnatamente Hamas: l'integrazione nel contesto geopolitico internazionale renderà difficili iniziative del genere. In conclusione, l'accordo sul nucleare con l'Iran, per quanto settoriale, è una pianta che va coltivata, perché dalla sua crescita possono nascere buoni frutti, in primo luogo da essa può dipendere la pacifica convivenza di monadi contrapposte. La pace si costruisce con i fatti, non con le speranze. RR 
LA UMMA, LA COMUNITA' ISLAMICA (13-7-2015) La lotta per l'egemonia nel mondo islamico, per l'istituzione di un nuovo 'Califfato' e per assicurarsi la sua guida presuppone la conoscenza del concetto di 'Umma'. Il mondo musulmano, nonostante le divisioni di ordine teologico e politico, sembra ai nostri occhi maggiormente coeso rispetto al mondo occidentale. Due fattori contribuiscono in maniera significativa a questa apparente concordanza: la conoscenza della lingua araba e l’appartenenza alla Umma, la comunità islamica. Umma significa comunità dei fedeli (la parola contiene la radice 'umm' che in arabo significa madre). Il mondo arabo è infatti unito dalla religione e dalla comune cultura; non è costituito da una sola etnia, ma da etnie diverse che si sono arabizzate, cioè hanno assunto medesimi riferimenti culturali e religiosi. Il carattere solidale dell’appartenenza alla Umma non annulla le divisioni dovute alle eterodossie e alle rivalità etniche e politiche. I progetti di unificazione di questo cosmo tuttavia sono falliti a causa delle rivalità, delle ambizioni nazionali, e della conseguente pretesa di ciascuno Stato di esserne guida. Nel mondo occidentale la fonte dei diritti e dei doveri dell’individuo è la legge dello Stato: la qualificazione giuridica di primaria importanza è la cittadinanza, che esprime l’appartenenza a una comunità nazionale e la conseguente piena subordinazione alla normativa del Paese. Nel mondo musulmano in teoria solo l’appartenenza alla comunità dei fedeli dell’Islam è fonte di diritti e doveri: pertanto, travalicando i confini nazionali, la legge islamica dovrebbe integrare l’unico fondamento delle qualificazioni giuridiche soggettive. Sempre in linea teorica, come corollario di quest’ultima premessa, conseguirebbe che, se si vive in un Paese arabo (o, più precisamente, islamico) e non si è musulmano, non si ha pienezza di diritti; specularmente, per il diritto islamico, qualunque musulmano, in qualsiasi Paese viva, ha in quanto tale una condizione giuridica di pienezza. Da queste premesse, segue che alcuni Paesi musulmani. A livello locale il concreto centro di riferimento della Umma è la moschea, nella quale principalmente si approfondisce la conoscenza dell’Islam; la frequentazione della moschea, anche in occasione di eventi conviviali e di svago, rafforza i sentimenti di solidarietà e di unione fra i musulmani. Il Califfato è la comunità musulmana come entità politico-temporale; il termine deriva dall’arabo khalifa (califfo), ovvero il successore di Maometto designato alla guida politica e spirituale della comunità. La figura del califfo non è prevista nel Corano; fu avvertita l’esigenza della sua istituzione dai primi compagni del Profeta dopo la sua morte. RR

ISLAM E TERRORISMO (12/7/2015)
Quando si parla di Islam, la discussione si focalizza sui rapporti fra religione e terrorismo. Il terrorismo può essere definito di matrice religiosa quando è animato da motivazioni che trascendono la realtà materiale, mentre gli obiettivi delle singole azioni sono mezzi per la progressiva affermazione di un progetto che si ispira a un ordine soprannaturale. Preliminarmente dovrebbe essere chiarito cosa si intende per terrorismo. Da un punto di vista linguistico, l’Enciclopedia Treccani precisa che esso consiste nell’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili. In proposito, in ambito internazionale non è stata elaborata una nozione universalmente condivisa. Il dissenso si è manifestato essenzialmente nella qualificazione di situazioni di conflitto armato (in particolare, in materia di guerre di liberazione) e di azioni di dubbia liceità poste in essere da eserciti regolari (il cosiddetto ‘terrorismo di Stato’). La questione della definizione di atto terroristico ha rilevanza pratica in quanto alcune misure preventive e repressive previste dalle Convenzioni internazionali non sono consentite nei confronti di illeciti comuni, ma sono legittime quando siano adottate in risposta o al fine di prevenire atti di terrorismo. Inoltre la relatività soggettiva con la quale viene valutato il movente ideologico - reale o semplicemente proclamato - dell’atto terroristico ha, come conseguenza, che chi per alcuni è definito terrorista, per altri è un combattente politico, mentre quelle che per alcuni sono azioni terroristiche, per altri sono atti di resistenza nei confronti di potenze occupanti o atti di popoli che lottano legittimamente per la propria autodeterminazione. Un aforisma inglese così esprime questo concetto: “One man’s terrorist is another man’s freedom fighter”. Il terrorismo di matrice religiosa ha sempre carattere radicale, poiché è mosso dalla fede in un ordine soprannaturale che si ritiene di dover affermare a ogni costo e non ammette alternative alla prevalenza dell’assetto socio-politico che costituisce un corollario del credo religioso. L’adesione a una fede religiosa, anche quando rimane confinata nella sfera individuale, ha rilevanza esterna, in quanto il credo religioso impone al fedele il proselitismo. In proposito, la fede religiosa può essere vissuta in due modi: o come rapporto individuale tra l’uomo e il trascendente, o come dimensione afferente la collettività. In questo secondo caso la fede produce gli effetti di un’ideologia in quanto diviene tensione per l’affermazione di un assetto sociale ispirato da un’etica confessionale. In questo caso la fede richiede un impegno collettivo rivolto a cambiare le strutture della società: il correlato delle iniziative di proselitismo (che generalmente hanno carattere individuale in quanto si articolano all’interno di una relazione personale) è la militanza, cioè la partecipazione a gruppi nei quali i fedeli si strutturano per promuovere con ogni mezzo, compreso il ricorso alla violenza, l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili siano sostituite da un ordinamento giuridico plasmato sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una degenerazione di questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia sono infatti una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai precetti del Corano. Il carattere ideologico dell’Islam ha come corollario un atteggiamento militante dei fedeli che è il correlato delle iniziative di proselitismo individuale che caratterizzano molte altre religioni. In realtà in molte religioni è presente l’aspirazione più o meno manifesta a sostituire ai principi laici della società civile una visione etica confessionale. Pertanto una conquista delle democrazie moderne è stata la laicità dello Stato: le iniziative di proselitismo ovvero l’avvicinamento o la conversione di un soggetto a una fede religiosa si devono realizzare solo attraverso relazioni individuali. Il fondamentalismo islamico e l’islamismo radicale sottolineano un modo di vivere la religione in maniera politicamente invasiva nei confronti della comunità civile: in altri termini l’adesione all’Islam in concreto travalica la dimensione individuale per assumere la valenza di un’ideologia che impone la trasformazione della società. Così per molti essere musulmani non è solo una scelta di fede, ma è un'opzione di vita totalizzante. Il Fondamentalismo, attraverso l’enfatizzazione dei valori religiosi, è anche un elemento di forte coesione sociale che rafforza la comune identità e consente di sopravvivere all’imposizione di altri modelli culturali. Nella visione fondamentalista l’invasività sulla società del credo islamico si spinge fino a prescrivere la sostituzione delle leggi dello Stato con i precetti del Corano. In questo caso l’osservanza dei principi religiosi si impone a tutti i cittadini: chi non si adegua è escluso dalla comunità sociale in quanto solo il fedele musulmano è soggetto giuridico a pieno titolo. Nello Stato forgiato da questi principi l’evoluzione sociale e normativa si può sviluppare solo nell’ambito della via tracciata dall’Islam. Non può esserci la formazione di un libero pensiero, che è il presupposto di un dialogo articolato e costruttivo; la cultura e la politica subiscono una cristallizzazione che può generare solo arretratezza. Pertanto nella realtà storica attuale l’islamismo spesso non è sentito solo come una religione, ma si manifesta come un’ideologia che non tollera l’esistenza di situazioni e assetti socio-politici diversi da quanto prescritto o scaturisce dai testi sacri. Questi principi male intesi costituiscono il presupposto del Fondamentalismo e delle derive terroristiche di matrice islamica. RR

LA FITNA (6-7-2015)
Meno conosciuto del termine 'jihad', ma molto noto a chi segue le vicende del mondo islamico è il concetto di 'fitna'. Questa parola in arabo (standard) significa 'caos', 'dissenso', 'discordia'; più specificamente gli storici indicano con essa le divisioni interne all'Islam - generalmente di origine dottrinale, ma con esiti di carattere politico - che sono una costante della vicissitudini dei Paesi musulmani. Infatti, mentre i rapporti fra mondo arabo e occidente 'cristiano' hanno avuto nella storia fasi alterne, le discordie interne all'Islam, spesso violentemente cruente, sono state ininterrotte. La contrapposizione fra Sciiti e Sunniti - che per alcuni aspetti ricorda la Guerra dei Trent'anni - è solo il caso più noto ed evidente. Questi dissidi non risparmiano la galassia del terrorismo. Ad esempio, attualmente l'Isis manifesta con grande acredine la sua contrapposizione ad Hamas, accusata di non aver imposto la sharia nei suoi otto anni di dominio nella Striscia di Gaza. Una fazione interna al sanguinario Jabat al Nustra, il gruppo integralista sunnita che opera in Siria, ha invece addirittura fucilato 18 presunti appartenenti allo Stato Islamico, accusati di essere coinvolti nella decapitazione di 3 suoi membri. Tutto si è svolto con un rituale macabro simmetricamente opposto a quello seguito dall'Isis nelle analoghe occasioni: nel video, girato per la circostanza, i carnefici erano vestiti di arancione - come i condannati a morte dell'Isis - e avevano il volto scoperto, mentre coloro che si trovavano negli insoliti panni di vittime indossavano la famigerata tuta e il passamontagna neri. Si ribadisce ancora una volta l'importanza che il terrorismo jihadista attribuisce alla documentazione della coreografia dei suoi crimini ai fini della propaganda strumentale alla diffusione del terrore e al reclutamento. In proposito nel libro 'The rise of Isis' di Jack Sekulow si legge che i soldati americani in Iraq, quando vedevano comparire qualcuno con una videocamera temevano un attacco terroristico. RR

IL JIHAD (4-7-2015)
Il terrorismo di matrice islamica costituisce sicuramente un modo per attuare il Jihad (per analogia con la lingua araba nella traduzione italiana si preferisce dare alla parola il genere maschile). La parola Jihad ormai è di uso comune. Il termine viene spesso frettolosamente tradotto 'guerra santa' intendendo con esso il ricorso collettivo alla violenza per la sottomissione degli infedeli. In realtà, jihad nell’arabo (standard) significa genericamente 'massimo sforzo' ed è seguito spesso dall’espressione fi sabil Allah, cioè ‘lungo il sentiero di Dio’; pertanto, con la locuzione dovrebbe rettamente intendersi la lotta interiore e individuale che il fedele sostiene in ogni momento della vita per predisporsi alla comprensione dei misteri divini e per resistere alle pulsioni estranee o contrarie alla morale religiosa. Peraltro 'guerra santa' in arabo non si dice  jihad ma 'al Harb al Qdsiyah'. Attribuendo al termine jihad il significato di una mobilitazione collettiva per la difesa dell’Islam, la fine  del Califfato nel 1924 ha posto il problema di quale autorità, in quanto guida della comunità musulmana, la po­tesse dichiarare.  In assenza di un Califfo, solo i leader politici musul­mani potevano essere depositari di questo potere; restava però problematica l’individuazione concreta di quale leader musulmano potesse essere considerato un primus inter pares. Scavalcando l’autorità politica degli Stati musul­mani o quella dei capi religiosi, Al Qaeda prima e ora l'Isis  sembrano essersi attribuiti il potere di proclamare il jihad contro i governi giudicati anti-islamici, filo-occidentali o semplicemente corrotti e miscredenti; le loro iniziative terroristiche infatti non hanno generalmente finalità localistiche (cioè strategicamente limitate all’impatto nel contesto regionale nel quale vengono compiute), ma si proclamano strumento di un progetto geo­politico più ampio. La maggior parte delle aggregazioni terroristiche di matrice islamica invece persegue fini limitati al territorio in cui si realizzano. RR

IL VENERDI' NERO (29-6-2015)
Gli attentati terroristici di venerdì scorso 26 giugno in Tunisia contro un resort turistico, nel Kuwait contro una moschea sciita, in Francia contro una centrale a gas non lontana da Lione, sono un segnale molto preoccupante, non solo per la cinquantina di morti che hanno causato, ma per la facilità con la quale i terroristi hanno agito, che evidenzia l'impotenza degli apparati preventivi. Essere tornati a colpire in Tunisia dopo l'attentato del Bardo e in Francia dopo i fatti di Charlie Hebdo contiene una sfida, in quanto dimostra che nulla è off limits per la minaccia islamica fondamentalista, che può agire senza apprezzabili difficoltà anche laddove ha già consumato cruenti delitti. Nel frattempo l'Occidente è disorientato, incapace di individuare nel mondo arabo le forze di cui fidarsi. Ad esempio, sono tradizionalmente amici dell'Occidente i sovrani del Qatar o dell’Arabia Saudita, ovvero di Paesi che più o meno indirettamente sponsorizzano l’estremismo sunnita e il terrorismo jihadista; in particolare la monarchia saudita probabilmente finanzia in Europa, in Asia e nell'Africa subsahariana le moschee più oltranziste dove viene diffusa l’ideologia wahhabita che è alla base delle derive islamiche salafite. I fatti di venerdì scorso riepilogano simbolicamente la strategia jihadista sunnita: sono stati colpiti interessi economici, ovvero energia e turismo, e antagonisti ideologici e religiosi, cioè l’Occidente e gli Sciiti in Kuwait. Oggi gli atti terroristici imputabili alla matrice integralista sono spesso realizzati da cellule indipendenti che si autoaccreditano come emissari di una data organizzazione. Si parla di franchising del terrorismo. In altri termini, il terrorismo di matrice islamica sembra strutturato verticalmente da un punto di vista decisionale e orizzontalmente da un punto di vista operativo ed esecutivo. Questa caratteristica trasforma di fatto un’organizzazione terroristica centralizzata con bersagli globali in pericolose agenzie nelle diverse aree del mondo con obiettivi locali e imprevedibili, i così detti soft target. Senza inutili allarmismi l'esposizione alla minaccia terroristica di matrice islamica è alta in questo momento: l'unico aspetto positivo è la professionalità dei nostri apparati di sicurezza, tra le più elevate in ambito europeo. Resta tuttavia l'erroneità di legare il concetto di terrore sic et simpliciter a tutto mondo islamico. RR

IL QUARTIERE EBRAICO (24-6-2015)
In Egitto la televisione di Stato in questi giorni sta lanciando sommessamente un importante  segnale politico: in occasione del Ramadan un canale televisivo ha inserito nel suo palinsesto una soap opera sulla condizione degli ebrei in Egitto negli Anni Cinquanta; il titolo è Haret al-Yahood (Il quartiere ebraico) e racconta le vicende di una comunità ebraica insediata al Cairo. In quel contesto musulmani, cristiani ed ebrei vivevano in pace e in armonia. Si tratta di una trentina di episodi che narrano l'amore tra un ufficiale dell’esercito egiziano con una giovane donna ebrea. Sullo sfondo si articolano le vicende storiche - dal conflitto arabo-israeliano alla crescita dei nazionalismi arabi - mentre viene evocata con nostalgia l'immagine della coesistenza pacifica tra etnie diverse. Emerge con enfasi la reputazione positiva degli ebrei egiziani in quegli anni insieme a quella di un Egitto aperto e tollerante.  Il messaggio politico è evidente: non ha fondamento l'ostilità della società civile nei confronti degli ebrei, mentre il vero nemico è il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani, combattuto dal regime attuale. In sintesi, l'Egitto dovrebbe tornare al clima laico nasseriano (più precisamente del primo Nasser), quando la religione non interferiva con la politica e con la vita pubblica. Rispetto all'antisemitismo militante che ha caratterizzato  la  televisione egiziana per decenni, si tratta di una svolta epocale. La serie televisiva va oltre un approfondimento della condizione degli Ebrei d'Egitto, descritti come convinti antisionisti, poiché suscita un dibattito globale sull'identità egiziana. Gli ambienti islamici invece evidenziano che il contesto degli episodi  riflette la tacita alleanza del presidente Al-Sisi con Israele contro le forze dell'Islam politico che si sono opposte alla deposizione del presidente Mohamed Morsi, sostenuto dai Fratelli Musulmani. Il revisionismo storico proposto televisivamente ha suscitato pertanto un'accesa discussione anche perché l'antisemitismo è stata una costante latente, quando non manifesta, della storia  egiziana (peraltro lo stesso Nasser fu responsabile dell'esodo di migliaia di ebrei). La televisione, come sempre, propone la sua verità, impedendo 'democraticamente' il libero pensiero. RR

LA STRATEGIA DEL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA (22-6-2015)
La pubblicazione in questi giorni del Rapporto Annuale sul Terrorismo nel Mondo  da parte del Dipartimento di Stato americano contiene un dato apparentemente banale: la brutalità dello Stato islamico pone il gruppo jihadista davanti ad al Qaeda come leader del terrorismo globale.  Questa affermazione offre lo spunto per alcune riflessioni sulle strategie dei gruppi violenti eversivi. L'iniziativa criminale dei movimenti di matrice islamica, che spesso ha carattere suicida, consiste in una potente deflagrazione che avviene generalmente in mezzo alla popolazione causando in maniera indiscri­minata molte morti innocenti. Questa modalità non è casuale:. queste iniziative, che generano un rischio al quale sono esposti tutti gli appartenenti alla comunità civile in maniera indifferenziata, creano un senti­mento generale di insicurezza e paura. Diversamente si è rilevato che molti movimenti terroristici di ispirazione non islamica pianificano atti criminali in modo da colpire solo obiettivi predeterminati (come, ad esempio, proget­tare l’uccisione di personalità istituzionali o politiche), evitando accuratamente il coinvolgimento indiscriminato di civili. Questa attenzione nei confronti della comunità è finalizzata a evitare che il movimento terroristico sia destinatario di una diffusa ostilità. In questo modo infatti l’organizzazione eversiva evita un generale dissenso, so­prattutto quello che proverrebbe dalla parte dell’opinione pubblica che ancora non ha maturato una posizione pre­cisa sulle questioni socio-politiche che sono alla base delle iniziative criminose eversive. Un esempio della fon­datezza di questa riflessione erano le modalità esecutive delle azioni dell’Eta, l’organizzazione terroristica che lotta per l’indipendenza del popolo basco e che ora sembra aver abbandonato la strategia violenta. Le iniziative eversive di questo movimento cercavano di evitare di colpire civili estranei  al fine di evitare di ge­nerare un diffuso sentimento di terrore che avrebbe avuto come conseguenza una generale avversione che avreb­be influito negativamente sui negoziati con le istituzio­ni. Un movimento terroristico, quando agisce con questa cautela, infatti evita di perdere il consenso delle persone moderate che simpatizzano o sono indifferenti alle fina­lità che esso si propone; nello stesso tempo però gli atti criminali continuano a esercitare una pressione sulle istituzioni governative al fine di conseguire un obiettivo pratico come l’indipendenza, o una maggiore autonomia della comunità, o una speci­fica composizione di interessi. Diversamente, l’iniziativa terroristica di matrice islamica crea un generale senso di paura che consegue all’ampio e indiscriminato coinvol­gimento di civili; questa modalità esecutiva radicalizza il conflitto con il mondo occidentale, manifestando una mancanza di interesse per il raggiungimento di una pacificazione; al contrario in alcuni casi gli attentati sono stati organizzati in prossimità di negoziati al fine di farli falli­re, enfatizzando così anziché ridimensionare, l’insanabi­lità del conflitto e della divergenza delle posizioni. Zygmunt Bauman, già un pò di anni fa profeticamente affermava che la minaccia terroristica si trasforma in ispirazione per un nuovo terrorismo, disseminando sulla propria strada quantità sempre maggiori di terrore e masse sempre più vaste di gente terrorizzata. RR

GERUSALEMME (20-6-2015)
Gerusalemme sembra con le sue vicende il paradigma della Storia moderna e della geopolitica attuale. Semplificando Gerusalemme fu governata dagli Ottomani quasi ininterrottamente per 400 anni fino alla Prima Guerra Mondiale, quando il generale Edmund Allenby conquistò la Palestina per conto del governo britannico, entrando a Gerusalemme come vincitore nel 1917. La città tornò ad essere l'importante capitale amministrativa della regione. La sua rilevanza per Ebrei e Arabi era motivo di ostilità tra i due popoli, anche in relazione alla sua futura sorte di territorio promesso ad entrambe le etnie. Questo contrasto crebbe dopo la Seconda Guerra Mondiale quando un gran numero di profughi ebrei fuggendo dalle devastazioni post belliche affluirono in Palestina. Al termine del mandato britannico Gerusalemme fu divisa: la metà orientale divenne parte del Regno hashemita di Giordania, mentre la metà occidentale venne dichiarata capitale del neo-Stato ebraico. La situazione è rimasta così fino al 1967, quando Israele con la guerra dei sei giorni lanciata contro Egitto, Siria e Giordania, ottenne il controllo delle alture del Golan, della penisola del Sinai, della Cisgiordania, e di tutta Gerusalemme. Oggi questo splendido crogiolo di culture vive un momento di prosperità, ma è in gran parte tristemente diviso in zone abitate da musulmani e cristiani nel suo est, e da ebrei nel suo ovest. Una massiccia barriera ora la separa dai suoi sobborghi orientali e dalla Cisgiordania. La parola Gerusalemme secondo alcuni sembra che derivi dal nome di un antico dio cananeo. Per altri  significa 'città della pace'. Possa vivere fino ad esserlo, un giorno. RR

IL RAMADAN (18-6-2015)
Oggi 18 giugno, per i musulmani, circa un milione e 200 mila in Italia e un miliardo e mezzo nel mondo, inizia il Ramadan, un periodo sacro che cade durante il nono mese del calendario islamico, e che si protrarrà fino al 17 luglio. Il calendario islamico è composto da 354/355 giorni (10/11 giorni in meno dell'anno solare); pertanto il mese di Ramadan annualmente cade in un momento differente dell'anno solare. Il Ramadan consiste principalmente in un digiuno dall’alba al tramonto - alla sera e prima dell’alba si fanno piccoli pasti - che favorisce la preghiera e il pentimento per i peccati commessi. È un periodo di purificazione ed ascesi: l’osservanza dei precetti di astinenza aiuta a temprare il corpo e lo spirito, rafforzando valori quali la pazienza e la modestia, e contribuisce a consolidare i vincoli di unità fra i fedeli; è anche richiesto di evitare di abbandonarsi all'ira. In particolare il significato spirituale del digiuno si concreta nell'insegnamento della dote dell'autodisciplina e nell'acquisizione della consapevolezza delle privazioni in cui abitualmente vivono i poveri. I Musulmani praticanti debbono astenersi  dall'alba al tramonto dal bere, dal mangiare, dal fumare e dal praticare attività sessuali. Sono esenti dal digiuno i bambini, i vecchi, i malati di mente, i malati cronici, i viaggiatori, le donne in stato di gravidanza o che allattano, le persone in età avanzata, nel caso che il digiuno possa comportare un rischio. Il Ramadan, per la stretta osservanza del digiuno diurno che ostacola il lavoro e per il carattere festivo delle sue notti, costituisce per i fedeli islamici nei Paesi a maggioranza musulmana un periodo dell'anno eccezionale. La sua sacralità è fondata sulla tradizione secondo cui in questo mese Maometto avrebbe ricevuto dall'arcangelo Gabriele la rivelazione del Corano come guida per gli uomini. In alcuni Paesi islamici il mancato rispetto del digiuno può essere sanzionato penalmente. Quando tramonta il sole il digiuno viene rotto: la tradizione prescrive che si mangino datteri, perché così faceva il Profeta, e si beva  acqua o latte. Le ore di digiuno cambiano di Paese in Paese, dal momento che l’intervallo di tempo che intercorre tra alba e tramonto varia in base delle diverse latitudini e longitudini. In Europa la Danimarca sarà quest'anno il Paese con il digiuno più duraturo, con una media di 21 ore al giorno. Analogamente in  Islanda, Norvegia e Svezia, dove la media è di 20 ore al giorno. Quanto al Regno Unito, il digiuno durerà quasi 19 ore, mentre in Germania circa 18 ore e in Italia e Francia circa 16 ore.  Nei Paesi nordici, dove il sole non tramonta quasi mai, si dovrebbe iniziare il digiuno prima che si levi il sole, all’alba, ma a Stoccolma, ad esempio, non esiste una vera alba nei mesi estivi. Negli anni passati si era stabilito che i musulmani residenti in città subartiche dovessero convenzionalmente praticare il digiuno nelle stesse ore di coloro che vivevano al sud. In proposito, sono in fase di elaborazione linee guida che dovrebbero permettere un allineamento con gli orari dei musulmani nel resto del mondo. Al termine del Ramadan viene celebrato la festa della interruzione del digiuno (Id al-Fidr), detta anche la festa piccola, che dura circa tre giorni nel corso dei quali ci si ricongiunge con amici e parenti, ci si scambiano regali e si organizzano pranzi di famiglia. Sarebbe opportuno il rispetto da parte dei non musulmani della pratica del digiuno, ovvero, in particolare, evitare nei Paesi islamici in questo periodo di fumare, bere, mangiare pubblicamente, anche se un comportamento diverso sarebbe tollerato, data la specificità di questa festività. Si deve tener presente che in alcuni Paesi islamici (ad esempio, in Algeria) è considerato illegale il consumo di alcol, tabacco o cibo nei luoghi pubblici durante il periodo di digiuno: la violazione del precetto è sanzionata con multe. Alcuni esercizi sono aperti unicamente dopo il tramonto, mentre nei ristoranti di alcuni hotel vengono allestite delle sale apposite per i commensali occidentali. Anche spostarsi, sia via terra, sia in aereo, può diventare problematico. Dopo il tramonto la vita si risveglia e si possono praticare molte attività che normalmente hanno carattere diurno. È possibile anche assistere a spettacoli e concerti. Negli ultimi anni la tecnologia è diventata un supporto per aiutare i fedeli musulmani a rispettare la tradizioni.  Sono state create applicazioni  per ricordare gli orari del mese di digiuno: dalle preghiere fino al momento di astensione dal mangiare e bere. È possibile impostare la città in cui ci si trova o attivare il rilevamento automatico.  RR

L'ATTENTATO  DI LUXOR (12-6-2015)
I fatti sono noti. Mercoledì 10 giugno le forze di polizia hanno sventato un attacco terroristico suicida in Egitto nella destinazione turistica di Luxor, nei pressi del tempio di Karnak. La polizia ha aperto il fuoco per fermare gli aggressori. Nel corso della sparatoria due terroristi sono morti mentre un terzo è stato arrestato. Le autorità hanno dichiarato che quattro persone sono rimaste ferite, tra cui due agenti di sicurezza, aggiungendo che gli aggressori stavano cercando di far saltare in aria un veicolo turistico. Un sito di informazione locale citando fonti ufficiali ha precisato che decine di turisti sono rimasti coinvolti. Anche se il fallito attentato non è stato oggetto di una rivendicazione attendibile, molti elementi inducono a ritenere che probabilmente autore del progetto criminale sia stato il gruppo Ansar Bait al-Maqdis (lett. i partigiani della casa santa tradotto anche con i sostenitori di Gerusalemme) che negli ultimi tempi è stato responsabile in Egitto - soprattutto nella regione del Sinai - di numerosi attacchi terroristici. Ansar Bait al-Maqdis, dopo aver affiancato dal 2011 la causa jihadista di Al Qaeda, nel novembre del 2014 ha giurato fedeltà e obbedienza allo Stato Islamico divenendone il braccio armato nella provincia del Sinai, a sottolineare la contiguità ideologica fra il movimento che guidò Bin Laden e il sedicente Califfato a prescindere dai loro reciproci controversi rapporti.  Ansar Bait al-Maqdis è il più spietato e cruento gruppo terrorista egiziano di matrice islamica. Ha sempre dichiarato di combattere le istituzioni di polizia e di sicurezza che controllano il Paese al fine di contrastare il governo del Cairo: con questa strategia il movimento vuole minare gli sforzi delle autorità per conquistare la fiducia dei turisti occidentali, una fonte vitale di valuta forte. I fatti di Luxor sono sintomatici della grave instabilità politica del Paese, che si è fortemente acutizzata dopo il Golpe militare del luglio 2013, che ha avuto come corollari la deposizione del Presidente Morsi, democraticamente eletto, l'insediamento del generale Al-Sisi, la messa al bando dei Fratelli Musulmani, vera anima dell'Islamismo militante. I Fratelli Musulmani erano - e sono tuttora seppur nell'illegalità - molto radicati nella società egiziana, ed integrano un’organizzazione  estremamente composita nella quale convivono  posizioni divergenti. Prevale una visione integralista, che si manifesta principalmente nella ferma opposizione alla secolarizzazione delle nazioni islamiche. Questo movimento, per la sua storia, per la sua diffusione nel mondo arabo e per l’ampio consenso e prestigio di cui ha sempre goduto, può essere considerato la madre di tutte le organizzazioni islamiche, sia moderate sia fondamentaliste. La Fratellanza Musulmana è sempre stata in Egitto il canale privilegiato   attraverso il quale si è espressa la componente integralista. Pertanto, probabilmente all'incremento negli ultimi tempi della minaccia fondamentalista non è estranea la decisione del regime di confinare i Fratelli Musulmani nell'illegalità. Più in generale l'Egitto continua ad essere uno scenario nel quale si confrontano componenti contrapposte, e segnatamente l’esercito, i fondamentalisti e il blocco laico, nessuna delle quali ha la forza sufficiente  per prevalere sugli altri e determinare nel Paese una svolta in grado di farlo uscire dalla profonda crisi economica e costituzionale. E un vecchio proverbio dice che tutto quello che avviene in Egitto, successivamente accade nel resto del mondo arabo. RR

LA PERMANENZA DELL'ITALIA NELL'EURO (10-6-2015)
In questo periodo, insieme agli immigrati, uno degli argomenti di cui si discute  maggiormente, con molta emotività e poca obiettività, è la permanenza o meno dell'Italia nell'Eurozona. La libertà del dibattito, che dovrebbe essere più tecnico che politico, è limitato da preconcette posizioni partitiche. L'argomento infatti è molto sensibile. Se l'introduzione della moneta unica concettualmente poté essere considerata un progresso verso un'Europa più solida politicamente e finanziariamente, tuttavia alcuni meccanismi perversi hanno in concreto fortemente penalizzato il nostro Paese. L’Euro è espressione di economie forti, come quella della Germania, nelle quali c'è una disoccupazione bassa e un maggiore tasso di crescita; la moneta unica, dovendo essere una media statistica che rappresenti Paesi in condizioni diverse, ha un valore di cambio nel sistema economico globale che non è relazionato ad economie deboli, come quella italiana e quella greca. Non possono comunque essere imputate all'introduzione dell'Euro la disoccupazione, il debito pubblico, la bassa crescita, in quanto queste sono deficienze strutturali del nostro Paese. Tuttavia i vincoli della moneta  unica impediscono la libertà di intraprendere le necessarie politiche correttive. Ad esempio, una moneta nazionale nella nostra attuale situazione interna e nel corrente contesto macroeconomico, si sarebbe deprezzata, e questo avrebbe favorito un incremento delle esportazioni. E allora, di fronte a questa premessa più o meno condivisa da tutti, quale soluzione? Uscire dall'Euro? A chi sostiene la necessità di questo rimedio per contrastare le attuali ristrettezze si obietta che l'uscita dal regime dei cambi fissi determinerebbe una svalutazione del valore reale dei salari, una crescita del tenore di vita insieme ad un incremento dell'inflazione: in concreto l'effetto shock di un grave impoverimento individuale. Una terza posizione, sostenuta da alcuni economisti controcorrente, ritiene che, piuttosto che permanere nell'attuale situazione di austerità ed incertezza,  si dovrebbe uscire dall'Euro supportati da una politica forte che sappia affrontare i gravissimi disagi che ne conseguirebbero, per poi far ripartire il sistema dopo che è passata la bufera causata dall'uscita dal sistema della moneta unica. Si tratta di una soluzione molto radicale che, anche se risolverebbe il problema, ha grandi rischi: primo fra tutti che il Paese non ce la faccia ad essere traghettato sulla sponda del dopo Euro. Il problema è aperto, in quanto ogni soluzione ha delle criticità; pertanto,  contrariamente a quanto detto all'inizio, la questione implica una scelta politica e non sono sufficienti valutazioni di tipo tecnico. C'è anche un errore di fondo: l'unità politica è il presupposto dell'unità monetaria; al contrario gli Stati che hanno supportato l'opzione per l'Euro miravano a raggiungere l'unione politica dell'Europa mediante l'unione finanziaria. RR   

LE ELEZIONI IN TURCHIA (8-6-2015)
Il risultato delle elezioni in Turchia ha il sapore di una sconfitta per Erdogan, anche se l'AKP ha ottenuto la maggioranza relativa. Erdogan, che di fatto si identifica con il suo partito, puntava ad ottenere due terzi dei voti (più precisamente più del 60%), cioè una maggioranza qualificata che fosse la premessa che consentisse alla compagine di governo la trasformazione della Repubblica Parlamentare in una Repubblica Presidenziale, possibile preludio di una svolta autoritaria verso un regime confessionale di tipo sunnita. Il progetto del partito islamico conservatore per la Giustizia e lo Sviluppo, l'AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi), è stato bocciato dalle urne, come pure l'ambigua condotta di Erdogan nei confronti dell'Isis. Conseguentemente sono state ridimensionate anche le ambizioni geopolitiche della Turchia di affermarsi come una potenza sunnita leader (in competizione di fatto con la monarchia saudita). È sintomatico della disfatta di Erdogan il suo notevole impegno per sostenere la campagna elettorale dell'AKP, nonostante la Costituzione prescrivesse la sua neutralità come presidente in carica. Si registra una novità importante: il partito di sinistra curdo dell'HDP, nato nel 2014 e quindi alla sua prima prova elettorale, ha superato la soglia del 10% (ha ottenuto il 13%) e quindi entrerà in Parlamento (con 80 seggi circa). Tuttavia, dai risultati complessivi si conferma che la Turchia è un Paese conservatore. Probabilmente il Partito di Erdogan non potrà governare da solo, ma non sarà facile ipotizzare delle alleanze dal momento che alcuni partiti conservatori sembra che non abbiano l'intenzione di governare con l'AKP; come anche non sembra possibile una coalizione fra i partiti dell'opposizione per la diversità di vedute sulla questione curda; come anche non sembra probabile un governo di minoranza, che dovrebbe ottenere una problematica fiducia dal Parlamento. Forse l'ipotesi più plausibile sono le elezioni anticipate. Sicuramente la Turchia sta entrando in una nuova epoca segnata dall'instabilità. In passato, in situazioni analoghe sono intervenuti i militari, ma questa ipotesi sembra ormai definitivamente archiviata. Speriamo. Nel 2013 il Premier turco, dopo aver autorizzato il velo islamico nelle scuole cancellando l'immagine di una Turchia laica e potenzialmente 'europea', aveva promesso la costruzione di piscine olimpioniche per soli uomini e sole donne. Con questa sconfitta elettorale tramonta il progetto di una 'islamizzazione rampante', come la definì allora l'opposizione. RR

GLI EURO - JIHADISTI (7-6-2015)
Il reclutamento di jihadisti in Europa è in aumento. È una questione complessa che non può essere sottovalutata riducendo questi casi a situazioni di mancata integrazione di nuovi immigrati. Infatti il fenomeno riguarda anche i neoconvertiti di  nazionalità occidentale, nonché i così detti 'homegrown', gli immigrati di seconda generazione, cioè quelli nati e cresciuti in Occidente. Risultano irrilevanti le classi sociali di appartenenza. In proposito, alcune ricerche sociologiche hanno evidenziato la falsità del luogo comune secondo il quale il terrorista sarebbe indigente o proveniente da classi disagiate: è emerso che alcuni responsabili di azioni criminose di matrice islamica avevano completato gli studi universitari, altri avevano un lavoro fisso, in alcuni casi di buon livello. In passato, l'arruolamento di potenziali terroristi avveniva attraverso l'avvicinamento al radicalismo islamico in seno all'ambiente familiare o mediante amici. Se il giovane si mostrava 'sensibile' veniva resa più incisiva la sua formazione al fine di farne un mujaheddin, cioè un combattente jihadista. L'ambiente privilegiato per queste iniziative erano le moschee, che non sono solo luoghi di culto, ma anche contesti nei quali a livello locale si articola una parte significativa della vita sociale, si svolgono eventi conviviali, e si rinforzano i sentimenti di solidarietà fra musulmani. La visione integralista, generalmente di tipo salafita, indotta nel giovane costituisce un terreno fertile perché si formi il convincimento dell'esistenza di un dovere di andare a combattere in Siria o in Iraq per sostenere l'Isis, punta esponenziale della jihad globale. A questa fase segue il contatto diretto con un membro attivo dell'eversione per dare seguito alle aspirazioni del neo-affiliato, fornendo anche il necessario supporto materiale. Attualmente questa prassi è divenuta più rischiosa e meno efficace a seguito delle attività preventive delle forze dell'ordine, e si è aggiunta la propaganda sul web di predicatori particolarmente carismatici. Più precisamente il contatto umano con esponenti dell'integralismo probabilmente continua ad avvenire nelle moschee o in ambienti collegati, ma i siti web e i social network assicurano efficacemente la promozione del radicalismo. Il ricorso ad Internet consente di estendere il reclutamento anche a giovanissimi. I siti sono preparati molto accuratamente, con video ed immagini finalizzati a suscitare il rifiuto della cultura occidentale, traditrice e infedele, e a considerare la guerra a sostegno dei fratelli islamici  in difficoltà un obbligo per il vero credente. La capacità dello Stato islamico di attrarre e motivare giovani disposti a morire deve essere elemento di riflessione e di autocritica per la realtà occidentale, senza ricorrere alla congettura di moda nel post-sessantotto secondo la quale ogni disfunzione, ogni disagio era imputabile 'alla società'. Il reclutamento di jihadisti non è un fenomeno di massa, è limitato a quei giovani particolarmente disorientati dal relativismo dominante, incapaci di compiere autonomamente scelte su cui costruire l'esistenza, nel quadro di un contesto entro il quale l'indifferenza viene spacciata per tolleranza. L'Isis, con il suo efficace apparato propagandistico fornisce come alternativa principi saldi che sono il precipitato della sua discutibile propensione alla certezza. Probabilmente, più o meno consapevolmente, alcuni giovani avvertono che l'insicurezza generata dalla crisi di identità possa superarsi attraverso l’inserimento in un gruppo coeso dalla fede.RR
  
GLI ESITI DEL VERTICE ANTI-ISIS (4-6-2015)
Si è tenuto il 2 giugno a Parigi il vertice sull'Isis, ovvero la riunione degli Stati (una trentina circa) e delle Organizzazioni Internazionali (segnatamente ONU, Unione Europea, Lega Araba) che aderiscono alla coalizione che si oppone allo Stato Islamico. Si tratta di un'alleanza più virtuale che reale, in quanto in concreto nelle operazioni militari sono coinvolti solo alcuni Stati, che generalmente limitano le loro iniziative a raid aerei e all'addestramento di reparti dell'esercito curdo e iracheno. Al vertice non hanno partecipato la Russia, la Siria e l'Iran. La cronaca riferisce che nella circostanza l'Iraq, che ha lamentato di subire 400 attacchi terroristici al mese, ha sottolineato l'importanza di un maggiore supporto internazionale anche al fine di combattere il così detto euro-jihadismo, ovvero il flusso di combattenti fondamentalisti reclutati all'estero. In concreto, come previsto, non è stata presa nessuna determinazione di rilievo. Viene il sospetto che ci sia un non dichiarabile interesse di alcuni Stati occidentali all'esistenza dell'Isis sebbene in termini territorialmente e militarmente contenuti (non a caso il vertice è seguito alle conquiste di Ramadi e Palmira, che, in questa logica, possono essere considerate uno sconfinamento). Nella complessa regione medio - orientale infatti la presenza dello  Stato Islamico sunnita può essere strumentale a contrastare e a bilanciare l'emergente potenza della Repubblica sciita dell'Iran, che in virtù delle trattative in atto sul nucleare ed al probabile ridimensionamento o alla cessazione delle note sanzioni è destinata in futuro a riacquistare tutto il suo pregresso peso politico. Forse questa è una delle possibili motivazioni  del carattere blando delle iniziative anti - Isis finora intraprese. Sullo sfondo c'è il ruolo ambiguo dell'ambizioso e dispotico leader turco Erdogan, che, se avrà un sufficiente consenso nelle prossime imminenti consultazioni elettorali,  aspira a trasformare il Paese in una Repubblica Presidenziale. In proposito recentemente un giornale turco ha pubblicato le foto di un veicolo con un presunto carico di armi che, attraverso la frontiera turca, sarebbe entrato in territorio siriano. La forte reazione di Erdogan ha portato all'arresto dei giornalisti responsabili della divulgazione della notizia, accusati di fare spionaggio contro i servizi di sicurezza turchi. In conclusione, tornando al vertice di Parigi, sembra che la comunità internazionale non consideri che il compito della politica è di risolvere i problemi prendendo decisioni piuttosto che limitarsi a discuterne. RR

LE ELEZIONI REGIONALI, UNA BREVE RIFLESSIONE (2-6-2015)
Volevo commentare i risultati di queste consultazioni elettorali, tuttavia non lo farò per due motivi: innanzitutto si tratta di una materia per la quale non ho molta passione, che seguo poco e nella quale sono del tutto incompetente; inoltre ho constatato come  molto facilmente ogni opinione venga travisata anche da chi mi conosce. In realtà, pur essendo chiari (almeno a me stesso) i miei ideali, non ho rinunciato alla libertà di pensiero e di critica e a valutare con ironia gli atteggiamenti che non condivido. Non mi va nemmeno di tessere elogi per chi è semplicemente meno peggiore degli altri. La politica di ogni schieramento e tendenza ricorre in vario modo alla demagogia. Pur stigmatizzando questo atteggiamento, devo purtroppo constatare che è vincente, in quanto molti, in virtù di un malinteso senso della militanza, hanno rinunciato all'obiettività, non tollerando nemmeno la satira quando ha come soggetto la parte politica per cui hanno simpatia, dimenticando che il libero pensiero è il cuore della democrazia.  RR

LA PROFEZIA DEL NEW YORK TIMES (1-6-2015)
Ne 2013 un esperto e noto pubblicista americano, Robin Wright, scrisse sul New York Times un articolo, Imagining a Remapped Middle East (clikka qui), nel quale ipotizzava che in futuro il Medio Oriente sarebbe stato oggetto di significativi smembramenti, che avrebbero riguardato in particolare la Siria, l'Arabia Saudita, la Libia, lo Yemen e l'Iraq. L'opinione, seppur interessante, sembrò una delle tante analisi su un'area geopolitica soggetta a rapide ed imprevedibili evoluzioni. Oggi, rileggendo quelle previsioni, si deve constatare che quella profezia si è in buona parte avverata. La Libia, come previsto, si è divisa in Cirenaica (sotto il governo laico di Tobruk, riconosciuto a livello internazionale), la Tripolitania (con l'ascesa dell'importanza di Misurata) e il Fezzan, l'area sud-occidentale per lo più desertica ma ricca di petrolio. Analogamente lo Yemen è travagliato da una guerra intestina, che di fatto lo ha diviso in due entità, un'area a nord di influenza scita e una a sud di influenza sunnita. Per la Siria e l'Iraq Wright ipotizzava la loro probabile disgregazione con la conseguente genesi di quattro zone autonome, ovvero il Kurdistan (dal confine turco al Kurdistan iracheno), lo Shiitestan, caratterizzato da una popolazione di  confessione Sciita e coincidente con il sud dell'Iraq, il Sunnistan, a prevalenza sunnita comprendente il vasto nord-ovest dell'Iraq e parte della confinante Siria, e l'Alawitestan, la rimanente area occidentale della Siria. Questa previsione  trova riscontro nella realtà attuale. Il Sunnistan coincide con il sunnita Califfato dell'Isis, che ormai è organizzato come un vero e proprio Stato, e procede nella sua avanzata territoriale. Lo Shiitestan include invece l'area che attualmente controlla il governo di Bagdad e che di fatto è limitata alle zone di quella regione a maggioranza sciita. L'Alawitestan è la parte della Siria che è ancora gestita dal governo di Damasco. L'Arabia Saudita, pur non essendo divisa, tuttavia vive un periodo di destabilizzazione; la sua egemonia nell'area è sempre più minacciata dall'Iran. Inoltre la monarchia saudita potrebbe subire i venti di una tardiva primavera araba, che potrebbe insidiare le frange del governo che sostengono l'estremismo sunnita e nello stesso tempo contrastare l'attuale politica conservatrice che va perdendo il pregresso indiscusso consenso. Il Kurdistan, pur non essendo uno Stato, è sempre più nazione, ovvero sta acquisendo una connotazione politica molto incisiva. In questo nuovo disegno geopolitico emerge in maniera chiara che le divisioni etniche e confessionali hanno assunto un ruolo determinante. Questo assetto è destinato a consolidarsi? Come diceva un noto statista  italiano, in politica i tempi del sole e della pioggia cambiano rapidamente e, aggiungerei, inaspettatamente. RR

PODEMOS, DUDA E L'ONDA POPULISTA (29-5-2015)
I recenti successi elettorali del movimento 'Podemos' e del leader polacco Duda sono la cresta emergente di un'onda populista che sta attraversando l'Europa. Podemos nacque nel 2014 proponendosi di sostenere a livello politico i temi delle proteste degli indignados, ovvero la lotta ai  privilegi della classe dirigente e alla corruzione; tra le sue proposte  vi sono il controllo pubblico delle banche, l'introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie, l'inasprimento delle pene per i reati fiscali, l'introduzione del reddito di cittadinanza. Tutto giusto, non c'è dubbio; ma la questione è  oltre. Andrej Duda è stato invece, alle elezioni presidenziali polacche,   il candidato di 'Legge e Giustizia', il partito della destra populista. Duda è euroscettico e contrario all'ingresso della Polonia nell'euro. L'attuale populismo è spesso contro l'Europa e l'Euro. Questo atteggiamento trova fondamento nella cattiva politica degli Stati Membri, nelle loro scelte economiche dettate esclusivamente dagli interessi nazionali, che minano la natura di ente politico e comunitario dell'Europa come era nelle intenzioni dei padri fondatori fin dal Trattato di Roma del 1957. Sicuramente non sono stati nemmeno sufficientemente meditati gli esiti ideologici della politica di allargamento dell'Unione Europea da 15 a 28 Stati.  L'Europa resta una grande opportunità, ma già il definitivo abbandono del progetto di una Costituzione europea  nel 2009 fu un segno abbastanza indicativo di una  disomogeneità politica sempre più evidentemente condizionata dagli egoismi nazionali. Tornando al 'populismo', il termine, a prescindere dalla sua origine storica, nell'uso comune ha un significato negativo in quanto con esso si indica un atteggiamento demagogico esclusivamente strumentale ad ingraziarsi il favore della gente. Attualmente sembra che questa parola di fatto abbia perso la sua accezione pregiudizievole: il populismo sarebbe infatti un modo per esaltare la sovranità del popolo, per farsi portatori delle istanze della 'base', che sarebbe depositaria di valori esclusivamente positivi, gli unici da perseguire in una democrazia realmente partecipativa. La politica in questo contesto viene snaturata. L'arte di governare infatti dovrebbe avere una lungimiranza che vada oltre le istanze - non raramente irrazionali e superficiali - della gente comune, che altresì dovrebbero essere decantate e private delle componenti istintive. Vengono in mente i tumulti di San Martino descritti da Alessandro  Manzoni nei Promessi Sposi, la sollevazione popolare motivata dalla grave carestia nel corso della quale la fondata rabbia del popolo si scagliò contro i forni, distruggendoli e peggiorando la situazione. Questo è un esempio eclatante, che tuttavia è indicativo di reazioni frettolose delle masse, che la buona politica (merce rara se non inesistente), a costo di essere invisa, dovrebbe contrastare, anziché assecondare per fini elettoralistici. In conclusione non bisogna dimenticare il monito di Aristotele che ai suoi tempi esortava i suoi concittadini a non lasciarsi suggestionare dall'arte di incantare le masse perchè questa non di rado genera la tirannide. RR

IL 'RISORGIMENTO ISLAMICO' (26-5-2015)
L'attualità ci ha abituato a considerare fisiologico il confronto politico con i Paesi islamici. In realtà i miei coetanei sanno che questa situazione ha un'origine recente. Fino agli anni '70 infatti la cultura musulmana era oggetto di attenzione solo per gli studiosi della materia, mentre la maggior parte delle persone, convinta del proprio etnocentrismo, guardava con distacco e con superficiale curiosità ad un mondo caratterizzato da consuetudini così diverse dalle nostre; il loro interesse si concentrava esclusivamente sulle apparenze, sulle sovrastrutture, sugli aspetti esotici. Inoltre gli arabi che allora immigravano nei Paesi europei cerca­vano di integrarsi abbandonando spontaneamente l’abitudine a por­tare indumenti tradizionali, mentre attualmente il ritorno all’uso del niqab, dello chador, del burqa e del qamis (la tunica maschile) è diventato un mezzo per manifestare il rifiuto all’omologazione occidentale. L'Islam in quei tempi non aveva una valenza politica; nella Turchia, fin dai tempi di Kemal Ataturk,  e nell'Iran, governato dalla famiglia Palhevi, erano in atto processi di modernizzazione e di occidentalizzazione, mentre nei Paesi arabi, a cominciare dall'Egitto di Nasser, si affermava un socialismo di stampo laico. La situazione è cominciata a cambiare nel 1979 con la Rivoluzione Iraniana di Khomeini, che indicava una via musulmana al futuro, che - come è stato autorevolmente osservato (Franco Cardini) - non coincideva con un ritorno al passato, ma al contrario aspirava a costruire "sulla base dell’Islam un domani politicamente, economicamente, finanziariamente, tecnologicamente e scientificamente alternativo".  Da allora per chi come me è cresciuto nel contesto politico della guerra fredda la contrapposizione che si andava delineando fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente sostituiva il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica. Diventavano familiari termini come jihad, sebbene nella erronea traduzione di guerra santa (dal momento che il termine arabo per 'guerra santa'  è  Al Harb al Qdsiyah mentre  jihad significa genericamente massimo sforzo, da identificarsi, secondo l'opinione prevalente fra gli studiosi del Corano, nella lotta interiore e individuale che il fedele sosterrebbe in ogni momento della vita per predisporsi alla comprensione dei misteri divini e per resistere alle pulsioni estranee o contrarie alla morale religiosa, adeguando così la propria condotta ai precetti dei testi sacri). Da allora l'Islam è divenuto una realtà geopolitica contrapposta ad un Occidente agnostico (impropriamente definito cristiano dalla propaganda fondamentalista). I Paesi Islamici uscivano da una pregressa eclisse del sacro. Questo cambiamento epocale, che, malinteso, è stato terreno fertile per la genesi della minaccia fondamentalista e terrorista di matrice islamica, dovrebbe essere occasione per un'autocritica dell'Occidente, per verificare l'esistenza di elementi di una propria responsabilità. Ma la Storia ha bisogno di tempo per riflettere su se stessa. Frettolosamente si dice che in passato i rapporti fra Islam e Occidente sono sempre stati difficili.  Se pure fosse così, non dobbiamo rassegnarci, ma   promuovere una nuova Storia, cosicchè nel comune interesse quello che non è stato possa essere. Roberto Rapaccini

LA DISTRUZIONE DI PALMIRA (23-5-2015)
La distruzione di Palmira - una poesia nel deserto, la Venezia delle sabbie, la porta dell'Oriente, com'è stata definita - ha colpito particolarmente l'opinione pubblica. Sembra che ci sia stato più risentimento per la decapitazione delle vestigia del passato che per la caduta delle teste dei molti civili che avevano la sorte di vivere in quelle zone. La morte degli uomini è un fatto naturale, fisiologico, accettato dalla nostra ipocrisia morale, mentre la distruzione dei segni della storia ci colpisce perché in essi il nostro immaginario proietta la convinzione di una presunta immortalità. L'Isis ha cercato di cancellare i segni di un passato pre-islamico, reperti che i nuovi barbari vorrebbero sottrarre alla memoria collettiva con il pretesto di una presunta iconoclastia. L'iconoclastia non c'entra. L'iconoclastia è una posizione ideologica che riguarda la rappresentabilità del divino. Piuttosto si tratta di una dannatio memoriae, una 'condanna della memoria', la pena che nel diritto romano consisteva nella cancellazione di qualsiasi traccia che potesse tramandare ai posteri il ricordo di chi veniva considerato un acerrimo nemico di Roma. La distruzione dei monumenti è anche estranea alla tradizione islamica. Alle conquiste musulmane di Gerusalemme nel VII sec. e a quella di Bisanzio nel XV sec. seguirono il rispetto e talvolta l'ammirazione per gli edifici e i luoghi di culto delle altre religioni del Libro. Per questo è sbagliato dire che l'Isis appartiene ad un presunto medioevo islamico. L'Isis - ed è inquietante - vive solo nel presente. Il passato che, sebbene in una luce critica, è così importante per noi e per la nostra civiltà, è un'identità che lo Stato Islamico vuole cancellare. Poi la caduta di Palmira ha dei risvolti strategici molto preoccupanti. Tra l'altro apre la via alla 'tollerante' Damasco, che è a 200 Km. Ma questo merita un altro approfondimento. È sempre più importante  che la comunità internazionale neghi il carattere religioso dello Stato Islamico, che trasforma la guerra all'Isis in uno scontro di civiltà e di religione, e questo è il presupposto che consente il reclutamento dei miliziani jihadisti.  RR

NOT IN MY NAME (19-5-2015)
Not in my name - non nel mio nome, e non nel nome dell’Islam - è una campagna lanciata nel settembre del 2014 che ha rapidamente fatto il giro del mondo. Musulmani di ogni parte di Europa si sono mobilitati per esprimere la loro dissociazione e la condanna nei confronti dello Stato Islamico, responsabile di agire nel nome dell'Islam, violandone i principi. Da allora si sono svolte manifestazioni nelle piazze e iniziative in Rete che si sono contrapposte alla propaganda dei miliziani dell'Isis-Daesh, che diffondono immagini di morte e terrore. Voi siete per la vita, noi siamo per la morte, diceva Osama Bin Laden.  L'associazione britannica Active Change, una fondazione che si impegna a promuovere l'integrazione e la solidarietà sociale al fine di prevenire qualsiasi forma di intolleranza e di estremismo violento, ha raccolto in un video (clikka qui) i messaggi di giovani musulmani, che possono essere sintetizzati in questa affermazione: "Basta uccidere innocenti in nome mio". È stato anche lanciato l'hashtag  #NotInMyName che ha avuto un considerevole successo. I giovani musulmani, stanchi dell'odio fondamentalista del Califfato e della sua propaganda nei social media, hanno voluto ricordare che l'Islam insegna il rispetto, la pace, la comprensione, e va difeso dall'estremismo e dal fanatismo. In altri termini l’Islam non coincide con  chi pratica il ricorso alla violenza come strumento di affermazione di una malintesa fede religiosa. La campagna è uno strumento particolarmente importante perché la guerra con l'Isis, prima di essere militare, è politica e culturale. In altri termini il Califfato ha saccheggiato il patrimonio dell'Islam per darsi una copertura ideologica, per trasformare l'odio e la violenza in jihad, per ridurre tutta la religione musulmana in Salafismo. È necessario ristabilire le distanze fra Islam e Isis, anche stimolando un dibattito all'interno del mondo musulmano per chiarire la vera natura dell'Islam e smascherare quelle ideologie che affermano di incarnarne l'autenticità. Il più grande vantaggio che l'Occidente può dare al terrorismo è quello di trasformare lo scontro con l'Isis in una guerra di religione.
Il video Not in my name-Muslims against Isis è su Youtube. Puoi vederlo clikkando qui. RR
                                                                                    
JE SUIS ILAN (13-5-2015)
La Rai in un momento di lucidità - per intervalla insaniae del palinsesto - la scorsa settimana, in collaborazione con il Progetto Dreyfus, ha dedicato una serata alla lotta al pregiudizio religioso. L'evento si è aperto con la proiezione in anteprima italiana del film “24 giorni”, che ricostruisce la drammatica vicenda di Ilan Halimi, il giovane ebreo francese rapito, torturato e ucciso nel 2006 da una banda di balordi guidata dall’estremista islamico Youssouf Fofana. Al termine del film si è svolto un  dibattito al quale hanno partecipato l'iman Pallavicini, il rabbino Di Segni, monsignor Paglia, oltre al filosofo Bernard Henry Levy e all'imam Hassen Chaldoumi. Nel corso della discussione sono emerse alcune riflessioni interessanti.
         Per contrastare i pregiudizi e la violenza fondamentalista è necessario che le tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) costituiscano un fronte comune e unito, attraverso il quale si evidenzi la loro dissociazione dalle degenerazioni, dal fanatismo, dall'intolleranza. È necessario un costante e continuo dialogo a tre.  (Paglia, Chalgoumi)
         L'antisemitismo è un torrente sotterraneo mai interrotto che ogni tanto riaffiora. Si deve restare vigili. Questa situazione costringe le comunità ebraiche ed i luoghi di culto  alla sottoposizione ad  una continua vigilanza e ad incisive  misure di sicurezza E' un sintomo del malessere della nostra società. L'attacco ad Israele oltre il legittimo diritto di critica è una delle forme del nuovo antisemitismo. (Di Segni)
         Viene spesso erroneamente ritenuto - anche negli ambienti islamici - che l'acredine per Israele e per l'Occidente integri  l'identità musulmana. Questa congettura da una parte alimenta le degenerazioni del fondamentalismo, dall'altra i sentimenti di islamofobia. È auspicabile uno sforzo per affermare una corretta immagine dell'Islam (Pallavicini)
         L'Islam non è la sola fonte del nuovo antisemitismo e non è nemmeno la fonte principale. Il neo-antisemitismo è un fenomeno composito. In proposito, la mobilitazione dopo gli attentati di Charlie Hebdo è stato un momento importante perchè si risvegliasse una ferma  coscienza europea. (Bernard Henry Levy)
Gadi Gaj Taché, fratello di Stefano, ucciso quando aveva due anni nell'attentato alla Sinagoga a Roma nel 1982, al termine dell'evento ha precisato che lui e la signora Ruth (la mamma di Ilan) hanno qualcosa in comune, ovvero portare avanti la memoria di Stefano e Ilan. E' un dovere di tutti continuare a ricordare. Per una sera la televisione non è stata una 'cattiva maestra'. Il dialogo contrasta l'ignoranza, mentre il difetto di conoscenza genera intolleranza. Il dialogo non è mai una concessione per occultare la verità.  RR

ISLAM, OCCIDENTE E BLASFEMIA  (8-5-2015)
Uno degli aspetti più emblematici delle differenze fra Islam e cultura occidentale all'origine di tragiche conseguenze, è la diversa valutazione della blasfemia. Sono significativi in proposito l'attentato alla sede parigina del giornale satirico Charlie Hebdo, gli incidenti avvenuti in varie parti del mondo seguiti alla pubblicazione su Youtube di stralci del film su Maometto Innocent of Muslims, le tante severe condanne emesse su queste condotte offensive dai tribunali sciaraitici. I dizionari precisano che la blasfemia coincide con la bestemmia, ovvero con quelle espressioni  ingiuriose e irriverenti nei confronti di chi o di quello che è considerato sacro da una religione. La qualificazione di un'esternazione come blasfema ha ovviamente un carattere relativo alle specifiche confessioni, in quanto quello che è oggetto di venerazione per una fede religiosa non lo è per un'altra. Tuttavia la libertà di espressione non può  mai integrare la licenza di irridere con leggerezza la sensibilità spirituale e religiosa altrui, anche se eventuali comportamenti irriguardosi non possono giustificare  come reazione omicidi o atti terroristici. Un acuto giornalista ha richiamato l'attenzione su questo passo contenuto in un testo sacro: "Chi bestemmia il nome del Signore deve morire: tutta l’assemblea lo deve lapidare. Straniero o cittadino, se bestemmia il Nome, sia messo a morte". Dalla premessa iniziale si potrebbe pensare che si tratti di un passo tratto dal Corano. L'inciso coincide invece con il versetto 16 del capitolo 24 del Levitico, e quindi,  trattandosi del Pentateuco, è contenuto nella Bibbia dei Cristiani e nella Torah degli Ebrei. Il Corano, invece, come precisano  molti intellettuali islamici, non prescrive sanzioni per chi offende Maometto anche se numerosi drammatici fatti sembrerebbero contraddire questa affermazione. Partendo da queste premesse, come è stato possibile giungere all'attuale realtà nella quale la libertà di espressione dispiega le sue potenzialità solo in Occidente? Probabilmente la risposta al quesito è nella  mancanza nella storia dei popoli arabi di un movimento analo­go all'Illuminismo, che ha stabilito con chiarezza le relazioni fra religione e politica, condizione essenziale e imprescindibile per lo svilup­po di principi quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispet­to della libertà di pensiero, la libertà di culto. A conferma di questa asserzione si ricorda che prima dell'Illuminismo la blasfemia e i movimenti ereticali erano duramente repressi anche in Occidente. La consapevolezza dell'importanza dell'apporto della ragione per orientare l’evoluzione della società ha contribuito a rendere il Cristianesimo una Fede ragionevole. Peraltro, come argomentato nell'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio, la Fede e la Ragione non integrano termini antinomici, ma sono...le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. Al contrario l'assenza negli Stati islamici dell'esperienza storico filosofica illuministica ha favorito lo sviluppo di società teocratiche nelle quali le libertà di pensiero e di espressione subiscono evidenti limitazioni. Tuttavia, anche il culto esclusivo della ragione può alimentare un atteggiamento fondamentalista, che, nel privilegiare la materialità tangibile, preclude alla spiritualità di forzare i limiti dell'oggettività e di trascendere la realtà sensibile. Albert Einstein amava ripetere che chi non ammette l'insondabile mistero non può essere un uomo di scienza. RR
                   
GLI STATI ISLAMICI E L'ISIS (6-5-2015)
Secondo l'ormai consolidato principio per cui ogni emergenza si sovrappone alla precedente tacitandola, in questo periodo, occupati da altre questioni - l'Expo, i flussi migratori, l'Italicum, la Coppa dei Campioni - abbiamo allontanato dai nostri pensieri l'attenzione per l'ascesa dell'Isis, che continua a consolidare il suo status. Per alcuni aspetti il silenzio dei media evita di supportare involontariamente le iniziative di propaganda di cui si avvale lo Stato Islamico nel reclutamento dei foreign fighters. L'Iran continua ad essere il vero alleato dell'Occidente contro il Califfato, supportando un esercito iracheno che va progressivamente sgretolandosi e perdendo ogni reale capacità difensiva e offensiva. Nello Stato persiano, peraltro, nonostante le apparenze, sono forti le istanze di modernizzazione e di apertura all'Occidente, anche a causa del sedimento lasciato dal laico e secolarizzato regime dello Shah. Alcuni Paesi Occidentali, Stati Uniti e Francia in testa, attuano in proposito una politica del doppio binario, cioè, da una parte negoziano sul nucleare con la sciita Repubblica Islamica, ma nello stesso tempo, soprattutto con forniture di armi, rassicurano della loro amicizia le monarchie sunnite del Golfo - soprattutto l'Arabia Saudita, superpotenza emergente della regione - che combattono Teheran in maniera indiretta in Siria, in Iraq e nello Yemen. Nei confronti dello Stato Islamico alcuni Paesi del Golfo, nonostante una dichiarata ostilità di facciata, mantengono un atteggiamento ambiguo e probabilmente di sostegno finanziario attraverso propri potentati. Peraltro il mondo sunnita anche per ragioni storiche è tutt'altro che compatto. Nel tempo si è costituita un'area turco-egiziana, caratterizzata da un Islam aperto ai commerci e quindi anche ai contatti culturali, e una regione integrata dai Paesi della Penisola Arabica, isolata e fertile terreno per il Fondamentalismo. Nella regione turco-egiziana (nella quale devono essere considerati di fatto i Paesi del Maghreb, la Siria, l'Iraq e il Libano) si sono affermati movimenti nei quali l'Islam si è coniugato con rivendicazioni nazionaliste di stampo socialista (con posizioni allora filosovietiche) e a carattere panarabo* (il panarabismo auspicava il potenziamento dei valori arabi comuni al fine della creazione di un califfato arabo). Da un punto di vista religioso ivi si è sviluppato il Salafismo, che coniugava Islam e politica, e dal quale ebbe origine la Fratellanza Musulmana. Al contrario le monarchie del Golfo maturarono un atteggiamento panislamico* (il panislamismo mirava all’unione politica di tutti i popoli islamici), dichiaratamente filo-occidentale; dal punto di vista confessionale, l'orientamento tradizionalista è stata la culla della dottrina Wahabita, che predicava il ritorno alla purezza dell’Islam originario e all’interpretazione letterale del Corano. Questa situazione composita e complessa forse è la ragione della mancanza di iniziative concrete di contrasto dell'Isis da parte degli Stati Uniti e dell'Europa, che pericolosamente temporeggiano, mentre in altre aree - Libia e Nigeria in particolare - vi è stata da parte di alcuni Paesi una inopportuna e mal coordinata tempestività nell'intervenire militarmente, dettata da interessi economici egoistici. Sullo sfondo la banale ma essenziale affermazione che i musulmani non possono essere ridotti ad un'unica identità. RR
* Le parole panarabo e panislamico traggono il loro significato dalla differenza fra arabo e islamico. Il termine arabo sottolinea l’appartenenza a una comunità etnico-lingui­stica. Politicamente sono considerati Paesi arabi i Paesi che aderiscono alla Lega Araba. Il termine islamico indica invece solo l’adesione alla fede religiosa islamica.

GLI INCIDENTI A MILANO DEL PRIMO MAGGIO (4-5-2015)
Come spesso accade in Italia, su ogni questione manca un dibattito serio e ci si divide fra Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, Romanisti e Laziali. Così è avvenuto anche in occasione dei recenti scontri a Milano per l'inaugurazione dell'Expò. Non è giusto criticare gli operatori delle Forze dell'Ordine che svolgono un lavoro difficile e rischioso senza avere strumenti normativi adeguati, condizionato da un'eccessiva, e talvolta morbosa, attenzione demagogica e incompetente da parte dei media, che ospitano opinioni di politici e di esperti di tutto, che non di rado emettono giudizi temerari e tecnicamente disinformati. Ad esempio, da un tuttologo onnipresente nei talk show televisivi ho sentito dire in questi giorni che non esistono mezzi che consentano lo scambio di informazioni su facinorosi e malintenzionati provenienti da altri Paesi. In realtà, la cooperazione di polizia info-operativa fra gli Stati dell'Unione Europea per l'acquisizione di notizie su individui e gruppi che possano costituire una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubblica - oltre ad essere disciplinata da numerosi atti normativi comunitari - è particolarmente avanzata e consolidata. Quindi si poteva eventualmente solo obiettare che questa collaborazione transnazionale nella circostanza probabilmente non ha funzionato in maniera adeguata. Tuttavia, se mi sento di solidarizzare con le Forze dell'Ordine ingiustamente censurate e ormai parafulmine di un apparato preventivo e repressivo inefficiente, mi sembrano poco opportune le dichiarazioni di alcuni vertici amministrativi e politici che si sono compiaciuti degli esiti delle turbative  in questione asserendo che sono stati limitati i danni. Innanzitutto il centro di Milano ha subito ogni genere di devastazione, in particolare danneggiamenti di negozi e uffici, incendi di autovetture e cassonetti, imbrattamenti vari. Dire che sono stati limitati i danni ha il senso di una resa del sistema, di una impotenza di fronte ad una violenza che non può essere adeguatamente arginata. A chi, a causa di una frustrata e meschina insoddisfazione in un angolo recondito della sua mente simpatizzasse per questo tipo di contestazioni e per i black bloc, vorrei dire che queste azioni sono animate da un vuoto, insensato e sterile nichilismo, che sa solo distruggere ed essere aprioristicamente e immotivatamente contro tutto. Queste forme di contestazione sono espressione di totalitarismo, perché limitano in maniera brutale il pieno esercizio delle libertà  che esprimono le loro potenzialità democratiche nelle forme di aggregazione riconosciute.   Pier Paolo Pasolini nella famosa lirica sugli incidenti di Valle Giulia profeticamente così scriveva:"... Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti!". RR

IL DIALOGO FRA LE CULTURE DEL MEDITERRANEO (30-4-2015)
Lo strumento principale attraverso il quale si realizza un’osmosi fra culture è la traduzione dei libri: le pubblicazioni in altre lingue trasmettono  all’estero la propria civiltà. Le traduzioni sono  pertanto un importante ponte fra  i Paesi occidentali ed il mondo arabo; riflettono anche il livello  della circolazione delle idee e sono sintomatiche dell’entità del dialogo interculturale.  L’Europa non traduce molto. La Francia, per ragioni facilmente intuibili, è il Paese che traduce il maggior numero di libri dall’arabo; tuttavia, si tratta solo di una sessantina di volumi l’anno,  che corrispondono allo 0,6% di tutti i libri stranieri tradotti in francese. Negli Stati europei complessivamente considerati la media è di circa un libro arabo ogni mille traduzioni. Escludendo i libri sacri - il Corano  in particolare - o i classici  - come le Mille e una Notte - o le opere di scrittori noti - come quelle di Khalil Gibran e di Naguib Mahfouz - i libri tradotti dall’arabo hanno scarsa visibilità nei  media, nelle librerie e nelle biblioteche. In Israele le traduzioni in arabo sono rare nonostante gli arabofoni siano il 25% della popolazione: questo è indicativo di una scarsa comunicazione fra le due etnie. Anche la lingua turca è poco tradotta: sono turchi lo 0,15% dei libri tradotti in francese, lo 0,06% di quelli tradotti in italiano, lo 0,05 di quelli tradotti in spagnolo. Queste cifre evidenziano una modesta considerazione degli Stati europei per la cultura degli altri Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, nonostante l'Europa abbia condiviso parte delle sua storia con i popoli arabi e quello turco. La maggior parte delle traduzioni di libri arabi nelle lingue dei Paesi dell’Europa orientale o settentrionale transitano per lingue terze, principalmente per il francese e per l’inglese. La letteratura araba e turca è pressoché sconosciuta nell’Europa dell’est e nell’area balcanica; vengono infatti tradotte prevalentemente le pubblicazioni religiose destinate alle minoranze musulmane.  La saggistica in materia di scienze sociali è raramente oggetto di traduzione dall’arabo: questo elemento è indicativo dell’assenza di un dibattito di idee sui temi sociali. L’Europa, prigioniera del proprio etnocentrismo, non sembra  apprezzare la produzione intellettuale che proviene dal mondo arabo e dalla Turchia. Sembra inoltre fondato dedurre da questi numeri che tutto quello che sappiamo sul mondo arabo lo apprendiamo da autori europei, soprattutto francesi, mentre solo in piccola parte le nostre conoscenze provengono da fonti autentiche e dirette. Il mondo arabo invece, attraverso la traduzione di opere letterarie, manifesta a piccoli passi un crescente interesse per la cultura occidentale. Le traduzioni riguardano prevalentemente la narrativa, ma si traducono anche dizionari, opere scientifiche, saggi, libri per ragazzi  e per bambini. In Egitto ed in Libano si pubblicano ogni anno dai 350 ai 400 libri stranieri (non arabi). Queste iniziative sono favorite  anche dalla partnership fra case editrici, come quella nata fra l’egiziana Shourouk e la britannica Penguin, che ha consentito di proporre al lettore mediorientale opere come ‘l’Odissea’, ‘Il Principe’ di Macchiavelli, ‘Pigmalione’ di George Bernard Shaw, ‘Furore’ di John Steinbeck.  L’inglese è la lingua più tradotta: solo in Egitto dal 2000 al 2006 sono state pubblicate 1700 opere originariamente in lingua inglese; questo dato  equivale a più del 75% di tutte le traduzioni.  Un’altra fertile partnership è in atto fra la Bloomsbury Publishing e il Qatar; l'iniziativa ha consentito la diffusione in arabo di numerose opere inglesi e francesi. L’inglese funge spesso da lingua di transito di altre lingue verso l’arabo; ad esempio, in questi casi non si traduce in genere un libro direttamente dal finnico, dal giapponese, dal cinese o dallo svedese, ma si utilizza la corrispondente edizione britannica o americana.  La seconda lingua più tradotta è il francese, che rappresenta il 30% delle traduzioni in arabo. Solo in Libano - che ha una popolazione francofona del 38% - sono 1054 le edizioni di opere francesi pubblicate in arabo fino al 2008. Gli autori più tradotti sono classici e moderni, come Jean Paul Sartre, Molière, Victor Hugo, Albert Camus e André Malraux, o scrittori vicina alla cultura araba e islamica come Roger Garaudy, o autori arabi di lingua francese,  come Mohammed Arkoun, Amin Maalouf, Samir Amin, fra i quali alcuni, privilegiando come scenari les bainlieau, descrivono l’atmosfera della periferia parigina, e quindi le problematiche delle etnie arabe nei Paesi di immigrazione. La terza lingua più tradotta in arabo è il persiano, mentre la quarta è il tedesco: i lavori di Hermann Hesse e di Bertold Brecht sono i più ‘gettonati’.  Poco tradotte sono le opere in lingua spagnola: solo 35 l’anno. Gli ispanici più popolari nel contesto letterario arabo sono  Gabriel García Márquez, Jorge Luis Borges, Miguel de Cervantes, Isabel Allende, Federico García Lorca, Mario Vargas Llosa, Julio Cortázar. Le opere italiane tradotte in arabo sono circa 350, delle quali più del 30% sono opere letterarie. L’italiano si attesta intorno alla terza o quarta posizione. Gli autori più tradotti sono Italo Calvino, Alberto Moravia, Luigi Pirandello e Umberto Eco. Generalmente le traduzioni avvengono direttamente dall’italiano, con poche eccezioni di opere tradotte tramite l’inglese. Un valido contributo  alla diffusione della letteratura italiana viene dalla creazione di specifici dipartimenti in alcune  Università arabe, come a Manouba in Tunisia, ad Ain Shams e Helwan in Egitto, e a Damasco.  Alcune personalità  arabe hanno contribuito molto alla diffusione della conoscenza di classici italiani: in particolare, il giordano Issa Al Naouri, il libico Khalifa Tillisi e Hassan Osman. Tilissi è autore di un importante dizionario arabo-italiano, mentre Osman ha curato una traduzione in arabo della Divina Commedia dalla quale ha però omesso i versi che descrivono le pene subite da Maometto, considerate offensive nei confronti del Profeta dell’islam. Il Libano è il Paese che ha orizzonti culturali più ampi. Nelle librerie di Beirut possono essere acquistati libri sulla Siria, sullo  Sciismo nel Golfo, sui documenti di Wikileaks relativi al Libano, oltre a classici in arabo di autori di fama internazionale: Gabriel García Márquez, Orhan Pamuk e Amin Maalouf. Nel complesso l’interesse arabo per l'Occidente ha un trend in ascesa: la cultura getta ponti fra terre separate dal mare dei pregiudizi e dell’ignoranza. Nei libri c'è la nostra storia, anche la memoria di un passato di cui ci siamo dimenticati. RR

IL CONSIGLIO EUROPEO STRAORDINARIO PER L'IMMIGRAZIONE - Bruxelles, 23 aprile 2015 - Una prima riflessione (26-4-2015)
Com'è noto il 23 aprile scorso si è svolta una sessione straordinaria del Consiglio Europeo nel corso della quale i leader dei Paesi Membri hanno discusso dell’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. Nonostante il premier italiano Matteo Renzi giudichi l’esito del vertice un successo, in realtà non sono state prese decisioni di rilievo. In particolare, non è stata affrontata in maniera seria, a parte qualche affermazione di massima, la difficile questione della riduzione della pressione migratoria attraverso mirati interventi presso i Paesi di origine dei flussi. Tuttavia, questo non significa che la riunione sia fallita nei suoi intenti. È normale che nei Consigli Europei, considerato il livello dell'assise, siano fissati solo principi di massima, che servono a dare copertura alle determinazioni più concrete e operative da adottare nei periodici incontri ministeriali a livello europeo. In questo caso il naturale ambito per sviluppare le iniziative concordate nell'occasione dai Capi di Stato e di Governo dovrebbe essere il Consiglio dei Ministri Europei della Giustizia e degli Affari Interni. Peraltro è un momento in cui di fatto si è fortemente ridotta la valenza di ente politico dell'Unione Europea (e quindi la conseguente capacità di vincolare realmente le scelte degli Stati Membri), e la politica europea è tornata ad essere definita prevalentemente dagli accordi - più o meno espliciti - a livello intergovernativo. Questo segna una grave regressione nel cammino comunitario. In estrema sintesi è stato convenuto quanto segue. Saranno compiute azioni in linea con il diritto internazionale e il rispetto dei diritti umani per individuare e distruggere le imbarcazioni dei trafficanti prima che siano usate. Speriamo che i motoscafisti non abbiano l'idea di mettere scudi umani sopra i barconi. Il governo di Tripoli (uno dei tre presenti in Libia) ha fatto sapere attraverso il proprio ministro degli Esteri che non saranno tollerati bombardamenti su presunte basi di trafficanti. Europol avrà un ruolo primario nella cooperazione contro le reti dei trafficanti, mentre saranno schierati funzionari esperti di problematiche di immigrazione in Paesi terzi. Praticamente un'affermazione bizantina e priva di significato pratico. Ci si augura che gli operatori sappiano tradurla in attività di contrasto concrete ed efficaci. Saranno triplicati i finanziamenti alla missione di sorveglianza e salvataggio 'Triton', il cui mandato non sarà modificato: la maggior parte dei Paesi ha precisato l'opportunità che l'operazione non privilegi la ricerca ed il salvataggio (questo potrebbe incoraggiare i migranti), e resti finalizzata al controllo delle frontiere. Significativa in termini negativi in quanto espressione dei particolarismi egoistici nazionali la posizione del premier britannico David Cameron che offre un aiuto condizionato, ovvero una nave portaelicotteri, tre elicotteri e due pattugliatori, allo scopo di svolgere attività di soccorso e salvataggio, in stretto contatto con Frontex e le autorità italiane, ma al di fuori di Triton, e a patto che le persone salvate siano portate nel Paese sicuro più vicino, probabilmente in Italia, e che non chiedano asilo nel Regno Unito. Sarà limitato il flusso dell’immigrazione irregolare e si eviterà che le persone mettano a rischio le loro vite attraverso la collaborazione con i Paesi di origine e di transito e soprattutto con i Paesi attorno alla Libia. In che modo? Non viene specificato. Sarà rafforzata la protezione dei rifugiati. L’Unione Europea aiuterà i Paesi di arrivo dei migranti e organizzerà la ricollocazione degli stessi negli altri Paesi membri su base volontaria. Chi non otterrà lo status di rifugiato sarà rimpatriato. Sembrano clausole di stile piuttosto che provvedimenti. Senza dubbio la problematica è di particolare complessità: al di fuori di specifiche critiche si registra solo che il Consiglio Straordinario non ha apportato nulla di nuovo. La questione resterà - ci tranquillizzano i massimi burocrati comunitari - una priorità dell’Unione europea e i Paesi membri ne riparleranno a giugno. Comunque il Consiglio Europeo è servito a qualcosa. È servito a tamponare l'onda emotiva umanitaria. È servito a rassicurare la sensibilità delle nostre coscienze. Nell'attesa della prossima strage di disperati. Quando avverrà, ci indigneremo di nuovo...per qualche giorno. RR
                                   
RADICI CRISTIANE DELL'EUROPA, LAICITA' E CRISTIANESIMO (18-4-2015)
Nel 2003 venne istituita una commissione 'ad hoc' per dotare l'Unione Europea di una Costituzione; questo documento di fatto era un formale tentativo di revisione dei Trattati fondativi dell'istituzione comunitaria. L'iniziativa fallì a seguito della mancata ratifica del testo da parte di alcuni Paesi, in particolare della Francia e dei Paesi Bassi che si pronunciarono negativamente in adesione ai risultati dei referendum popolari indetti sulla questione; il progetto venne definitivamente abbandonato nel 2009. All'esigenza di aggiornamento che si proponeva la Carta Costituzionale si supplì - per quanto possibile - con l'Accordo di Lisbona entrato in vigore nel 2009. Uno dei punti più discussi della bozza di Costituzione fu la prospettata introduzione nel preambolo di un riferimento alle comuni radici cristiane dei popoli europei, fortemente voluta da Giovanni Paolo Secondo. Probabilmente ci fu un equivoco alla base dell'acceso dibattito sulla proposta. Infatti questo riconoscimento non intendeva attribuire all'Europa un carattere confessionale rinnegando la laicità progressista post illuministica, ma semplicemente affermare un incontrovertibile dato storico e culturale. La questione mi richiama alla mente l'opera di Pier Paolo Pasolini 'Il Vangelo secondo Matteo', recentemente definito dall'Osservatore Romano 'il miglior film su Gesù mai girato'. Pasolini, probabilmente uno dei maggiori intellettuali italiani del Novecento, pur essendo uno spirito profondamente religioso, non era cristiano - almeno secondo il comune punto di vista - ma era un convinto marxista, sebbene non raramente...fuori dal coro. Tuttavia dalla sua posizione 'atea' seppe percepire l'universalità del messaggio evangelico. Mi piace molto che nel suo film Cristo, lontano dalle rappresentazioni dell'iconografia tradizionale, sia spesso rappresentato di spalle, o nell'atto di voltarsi. Questo sottolinea l'importanza della sequela: Cristo è l'uomo da seguire perché i suoi insegnamenti sono patrimonio di tutti. E' significativo che questo tributo venga da un intellettuale non cattolico. In questo senso le nostre radici cristiane sono comuni a prescindere dalla fede di ognuno. Il film è anche un chiaro monito a favore dell'ecumenismo in quanto indirettamente sottolinea che il Vangelo si impone come casa comune di tutti i Cristiani indipendentemente dalle controversie dottrinali (ma questa considerazione è fuori tema). A proposito di radici comuni europee deve essere verificata la fondatezza del pregiudizio che ritiene l'esistenza di un irriducibile conflitto fra laicità e Cristianesimo. In realtà il Cristianesimo ha dato un contributo alla distinzione fra Religione e Politica. Innanzitutto, è nota la frase di Gesù "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", richiamata spesso come indicazione di una separazione fra Stato e Chiesa, anche se il senso del passo evangelico probabilmente va oltre il suo significato letterale e, non ponendo sullo stesso piano Dio e Cesare, va correlato anche con l'affermazione "Il mio regno non è di questo mondo...". Inoltre, nella corretta visione cristiana il potere politico non è lo strumento attraverso il quale si deve dare diretta attuazione ad un auspicato ordine: la religione deve naturalmente con il suo contributo migliorare la realtà ispirando le scelte politiche, ma non deve costituire la giustificazione diretta ed immediata di esse: quindi il Cristianesimo non si pone come obiettivo la trasformazione dello Stato in senso confessionale. Questa caratteristica si chiarisce se al contrario consideriamo l'invasività sulla società dell'Islam, che tende invece ad imporre una teocrazia. Laicità inoltre non significa relativismo: uno Stato che funziona correttamente deve optare fra diverse scelte politiche, e i principi di validità universale o che si fondano sul diritto naturale (su cui spesso si radicano le posizioni cristiane) possono essere generalmente condivisi, senza necessità che siano giustificate con posizioni confessionali. In altri termini l'opzione politica cristiana non è fondata sul principio che 'Dio lo vuole', ma sulla ragionevolezza e sulla conformità al conseguimento del bene comune. Peraltro, il riferimento al diritto naturale, che spesso si oppone ad un relativismo laicista, prescinde dalla fede in quanto integra una piattaforma comune che abbiamo ereditato dalla tradizione greco-romana; peraltro i diritti fondamentali della persona spesso fanno riferimento al diritto naturale. In maniera lapidaria ma efficace è stato precisato[1] che un laico sente le acquisizioni del Cristianesimo dentro la laicità. RR          [1] Andrea Riccardi.

LA PROFEZIA DI HOUELLEBECQ E L'ESPANSIONE DEMOGRAFICA MUSULMANA (15-4-2015)
 Il tema dell'espansione demografica in Europa delle etnie di religione islamica è stata nuovamente sollevato dal romanzo 'Sottomissione' di Michel Houellebecq. L'autore  immagina che nel 2022 la Francia sia governata da un presidente musulmano: senza particolari sconvolgimenti si instaura un nuovo ordine sociale che prevede la poligamia e donne che restano in casa a occuparsi di mariti e figli. La cultura islamica  diviene l'espressione ufficiale della maggioranza. Il romanzo offre molti spunti di riflessione sull'attuale società occidentale, in particolare sul nichilismo consustanziale alla fine della nostra civiltà, che diviene un fertile terreno per l'affermazione di etiche religiose fondamentaliste, che si pongono come alternativa ad un relativismo morale che produce mostri come "la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale" ed altro. Queste espressioni non sono di un pensatore 'conservatore' cristiano, ma del filosofo Michel Onfray, che ha scritto un trattato di ateologia. In altri termini il libro di Houellebecq non è una riflessione su un possibile futuro, ma su ciò che è già. Tornando al tema principale, è credibile la profezia circa una progressiva inesorabile islamizzazione dell'Occidente? Nella questione le proiezioni demografiche hanno un ruolo fondamentale. Nel 2009 suscitò reazioni contrastanti la pubblicazione in Rete del video Musslim Demographics, un cortometraggio della durata di 7 minuti circa. Dopo aver premesso che la cultura globale che i nostri figli erediteranno sarà molto diversa da quella odierna, e dopo aver precisato che stiamo per essere testimoni di un cambiamento demografico a livello mondiale, il video diffonde l’idea di un’Europa che sarà presto musulmana. Questo avverrebbe a causa dell’ingente flusso migratorio, proveniente soprattutto dai lidi del Maghreb, e a seguito dell’alto tasso di natalità e fertilità delle famiglie islamiche, che in Francia sarebbe dell’8,1, mentre quello medio delle famiglie dell’Unione Europea supererebbe di poco l’1,3. L’elaborato omette di fornire le fonti dei tassi di natalità che tuttavia vengono prospettati come inconfutabilmente oggettivi. In proposito, le istituzioni di molti Paesi europei vietano di raccogliere notizie sull’appartenenza religiosa della popolazione; quindi dovrebbe escludersi che le informazioni sulla base delle quali si fondano le tesi del filmato possano provenire da statistiche ufficiali. Nell’ottobre del 2012 il cortometraggio venne presentato al Sinodo dei vescovi dal cardinale ghanese Peter Turkson, il quale si difese dalle accuse di allarmismo suscitate dalla sua iniziativa sostenendo che quel materiale era già presente in Rete e quindi era già fruibile liberamente. Non è stato posto il problema della fondatezza delle affermazioni contenute nella clip. Nonostante le difficoltà non rare di verificare la credibilità di quanto presente nel Web, si osserva che in generale le tesi, benché non riscontrabili, se sono ben confezionate, possono suscitare un’impressione di oggettività e veridicità. Qualora le informazioni fossero riscontrabili, le conclusioni a cui il video giunge sarebbero tuttavia contestabili, in quanto sono la conseguenza dell’applicazione della logica della previsione, mentre oggi le proiezioni dello sviluppo di aspetti relativi alle realtà umane si ottengono in maniera più attendibile ricorrendo alla logica della prospettiva. La previsione infatti si fonda esclusivamente sui dati estrapolati dal passato, sui quali si radica la simulazione per la previsione degli scenari futuri. La logica della prospettiva si articola invece su uno scenario più ampio, che considera l'incidenza in concreto anche di fattori esterni alla problematica che possono interagire con essa determinando discontinuità o rotture con il passato. Quanto segue renderà più chiari questi concetti.  È stato rilevata che a distanza di una generazione i modelli riproduttivi tra le popolazioni ospiti e quelle ospitanti convergono su medesimi valori: se nel mondo contemporaneo il vantaggio riproduttivo degli immigrati di prima generazione sugli autoctoni è sensibile, per le successive generazioni è, però, vicino allo zero in quanto la componente di origine immigrata tende a crescere alla stessa velocità della popolazione di origine autoctona. Possono favorire questa tendenza l’acquisizione della cittadinanza e l'omologazione ai modelli familiari autoctoni, la concessione del voto amministrativo, i matrimoni misti, la mobilità e le particolarità insediative, l’istruzione scolastica, l’occupazione femminile. Inoltre sulla base dell'esperienza si afferma che la migrazione favorisce l'esodo di donne con tendenza alla riproduzione più moderata rispetto alla media del Paese di origine. In Francia, ad esempio, nel periodo dal 1991 al 1998 il numero medio di figli per le donne immigrate dal Maghreb fu di 2,8 contro il 3,3 nei Paesi di origine, per quelle provenienti dal resto dell’Africa era di 2,9 (contro 5,9), per quelle provenienti dall’Asia 1,8 (contro 2,9). Secondo le stime dell'autorevole Pew Center,  la popolazione musulmana è aumentata  in Europa da 10,4 a 19,1 milioni tra il 1990 e il 2010 (solo in Italia, da 0,8 a 1,5), con un tasso medio di incremento molto alto, pari al 3%. Nel ventennio 2010-2030, i musulmani crescerebbero a 30,2 milioni, con un incremento che scenderebbe a 1,5%. L’alto incremento nel ventennio trascorso è dovuto sia ad un alto flusso di immigrazione destinato - si spera - in futuro a diminuire  per la crisi economica, per il venir meno della molla demografica nei Paesi di partenza, per le legislazioni più restrittive, sia ad un alto incremento naturale della popolazione immigrata, alimentato sia dall’alta natalità, sia dal suo carattere 'giovane', due fattori che vanno però rapidamente riducendo la loro incidenza. Potrebbe perciò essere fondato ritenere che il ritmo d’incremento vada gradualmente riducendosi nel corso dei prossimi decenni. Resta la sinistra profezia del defunto leader libico Gheddafi che pronunciò nel corso di un discorso nell'aprile 2006: "Ci sono segni che Allah concederà la vittoria all’Islam in Europa, senza spade, senza armi, senza conquista. L’Europa si trasformerà in un continente musulmano in pochi decenni". RR

IL CIELO SOPRA BERLINO (13-4-2015)
Ieri ho rivisto 'Il cielo sopra Berlino'. Non ho mai nascosto la mia passione per quest'opera. 'Der Himmel uber Berlin' (è il titolo originale),  con il successivo 'Così lontano, così vicino' porta a compimento la rappresentazione della seduzione che opera l'esistenza sulle anime non ancora affrancate dal coinvolgimento policromo della vita. Non si tratta solo di un film, o di un magnifico capolavoro, ma di una profonda esperienza spirituale che non può lasciare indifferenti. Sulla monocromia di un'eternità nella quale si è liberati felicemente da qualsiasi peso ma che tuttavia relega al ruolo di emarginati spettatori, si impone il vigore della vita, che prorompe coinvolgendo con la forza della  precarietà e dell'anarchica imperfezione. Da questa tentazione è sedotto l'angelo Damien, che abbandona la solidità monolitica dell’Assoluto e assume una nuova identità, che richiede l’iniziazione al mondo sensibile e all’incertezza delle forme, e impone la rinuncia alla possibilità di testimoniare per l’eternità la monotonia aurea del solo spirito. Vita e morte fisica, pur essendo agli antipodi, non sono in conflitto. Al contrario, in questa visione la morte è il normale epilogo dello slancio etico della vita. Così Wim Wenders spiega il senso delle sue opere:  "È una caratteristica della vita il fatto di essere tutti impauriti dalla morte, e ovvio, anch'io lo sono. Ma quando ricordo il momento della mia vita in cui l'ho affrontata, e questo è capitato una volta, non mi ricordo di aver avuto assolutamente paura. Tra tutte le persone con cui ho parlato e che hanno visto la morte in faccia, nessuno ricorda di aver avuto paura, neanche per un secondo, mentre tutti parlano di pace e ne ricordano la bellezza. Così ho pensato che magari fosse solo questione di immagini e che noi dovevamo correggere l'immagine della morte, così da non essere solo impauriti da essa, ma anche per capire la bellezza interiore e la possibilità che ci fornisce di apprezzare maggiormente le nostre vite." Queste parole sono più di un progetto artistico: sono la constatazione di una condizione che accomuna gli uomini senza differenze di razze e religioni, ovvero quella di essere oggetto di uno stesso destino nei confronti del quale ci si deve preparare in maniera adeguata e con  di spirito solidarietà. RR

LA BANALITA' DEL MALE DEL FONDAMENTALISMO DI MATRICE ISLAMICA (11-4-2015)
Massimo Introvigne sul sito del CESNUR - il Centro Studi Sulle Nuove Religioni (http://www.cesnur.org) - già qualche anno fa osservò che i cristiani uccisi nel mondo per la loro fede erano 105.000 all'anno, uno ogni cinque minuti. Allora vennero sollevati dubbi su questa affermazione che a prima vista sembrava eccessiva. Queste reazioni - come lo stesso Introvigne osservò - dimostrano che il problema dei cristiani perseguitati è talmente sottovalutato che, le relative cifre, quando sono citate, sembrano a prima vista incredibili (la fonte di questi 'numeri' era il Center for Study of Global Christianity, molto accreditato nel mondo accademico). In proposito, nella statistica si considerava martire cristiano il credente in Cristo che aveva perso la vita prematuramente per testimoniare la sua fede; questo non implica alcun giudizio sulla santità del martire, ma comporta solo che questi sia stato ucciso perché cristiano, e non come vittima di una guerra o di un genocidio con motivazioni prevalentemente politiche o etniche e non religiose.  Le persecuzioni dei cristiani, poiché spesso hanno come scenario il Medio Oriente e sono opera delle frange violente del fondamentalismo islamico, vengono spesso considerate nel quadro di una guerra di religione, o inserite nel contesto del più ampio scontro di civiltà evocato dal politologo Huntington in virtù della scontata ma non più realistica identificazione fra il  Cristianesimo ed un  Occidente in realtà sempre più laicista e meno spirituale. Una chiave di lettura di queste contingenze può essere fornita dalle riflessioni di Hanna Arendt (a conferma dell'universalità del suo pensiero). Queste violenze infatti possono essere stimate come  manifestazioni della perenne lotta fra il bene e il male, nella quale il carnefice perde la sua identità e diviene di fatto anch'egli vittima, in quanto volontario - ma non del tutto consapevole - esecutore di una volontà superiore, attraverso meccanismi che hanno la loro sede nei regimi che monopolizzano ogni scelta. L'individuo, in questo processo di spersonalizzazione,  accetta come  naturale che sia rimessa ad una intelligenza superiore ogni opzione, anche morale. In altri termini, la suggestione del fanatismo religioso ('di Stato' nel caso dell'Isis) opera sulle masse la stessa sottile coercizione dei regimi totalitari. L'autoreferenzialità dell'integralismo di matrice islamica seduce  i musulmani, che così ritengono normale che il loro mondo sia monoliticamente contrapposto alla diversità; paradossalmente poi l'uguaglianza - o la convinzione della sua esistenza - opera come un meccanismo vizioso di annullamento della possibilità di maturare un pensiero alternativo alla  barbarie.  In proposito, la cancellazione della memoria della Storia attraverso la distruzione delle vestigia del passato operata dall'Isis è strumentale ad evitare qualsiasi interferenza che possa condizionare la presunta purezza della nuova ideologia, che condanna indiscriminatamente qualsiasi diversità corruttrice, anche quelle che emergono nel cosmo islamico. Tuttavia, il meccanismo è più complesso di quello che caratterizzò la follia nazista: la spettacolarizzazione della violenza dell'Isis, come bruciare vivo un prigioniero o sgozzare in riva al mare un gruppo definito di persone per tingerne di rosso le acque è agli antipodi di una mera banalizzazione, o, più precisamente,  mira a far accettare la sistematicità di uno sterminio che si consuma con modalità sanguinarie, inquietanti e scioccanti, ovvero finalizzate a comunicare con disprezzo e odio che non esiste altra possibilità allo scontro. Resta come corollario di queste amare considerazioni che l'uomo è spesso intrappolato in dinamiche che rendono necessaria non solo la condanna dei fatti, ma anche una riflessione sulle reali responsabilità degli autori. C'è  da sperare, parafrasando Hanna Arendt, che il totalitarismo religioso, al pari della tirannide, racchiuda in sé i germi della propria distruzione. RR
                  
UN PO' DI ORDINE NELLA CONFUSIONE (8-4-2015)
Lo schema delle alleanze nell'area mediorientale è molto contraddittorio. Nello Yemen il conflitto ha natura locale. I ribelli Houthi agiscono con l'appoggio dell'l'Iran, che solidarizza con la minoranza dei ribelli sciiti non solo per motivi religiosi, ma al fine di assicurarsi un ruolo  nell'area del Golfo e, attraverso lo Yemen, di conseguire una posizione privilegiata per gestire i propri interessi in Africa. Contro gli Houthi, e soprattutto contro il 'nemico' iraniano, si sono mobilitate le monarchie del Golfo ed altri Paesi sunniti (segnatamente l'Egitto, gli Emirati, il Qatar), guidati dall'Arabia Saudita. Gli Stati Uniti sostengono logisticamente questa coalizione inviando scorte di armi e munizioni. Di fatto gli Usa nello Yemen sono indirettamente contrapposti all'Iran, con il quale tuttavia sta nascendo un possibile idillio politico ed economico conseguente all'accordo sul nucleare; inoltre l'Iran è di fatto un alleato degli Usa contro l'Isis in Iraq.   Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) approfitta del caos per gestire il proprio potere. Il movimento terroristico, se poi - come preannunciato - confluirà nell'Isis, di fatto diverrà  un suo emissario ed il suo referente nella regione. Nello stesso tempo la fazione yemenita di Al Qaeda sostiene Al Shaabab, il gruppo di miliziani fondamentalisti di matrice islamica sunnita che in Kenya ha recentemente trucidato 150 studenti cristiani. Gli stati sunniti del Golfo (soprattutto il Qatar), partner finanziari dell'Occidente, probabilmente sono tra i finanziatori dell'Isis. L'Iran non ha abbandonato l'ostilità nei confronti di Israele, anche se forse questa posizione è uno strumento per consolidare il consenso interno dal momento che il Paese, nella sua proiezione geopolitica esterna, sembra maggiormente interessato all'egemonia nel mondo islamico, contrastando l'attuale leadership della monarchia saudita. L'Iran è inoltre  alleato del presidente siriano alauita (e perciò di area sciita) Bashar al Assad, valendosi anche del gruppo Hezbollah; la Repubblica Islamica però ha sempre finanziato in funzione anti-israeliana le attività del gruppo palestinese e sunnita di Hamas, originariamente ideologicamente legato ai Fratelli Musulmani. In Libia la situazione è ancora più confusa; l'Egitto, impegnato nello Yemen contro gli sciiti Houthi, ha bombardato alcune basi dei sunniti dell'Isis, mentre le potenze occidentali, in particolare la Francia ed il Regno Unito, dopo che con le loro attività belliche e la rimozione di Gheddafi hanno originato l'attuale caos,  sono incapaci di qualsiasi iniziativa, preda di un insano e pavido immobilismo. Vige un pericoloso e incontrollato caos e le minacce dell'Isis nei confronti dell'occidente sono sempre più concrete. Conseguentemente ai tragici fatti dell'università di Garissa in  Kenya viene da chiedersi: e i cristiani? Il loro martirio ad opera della violenza fondamentalista di matrice islamica ha  assunto dimensioni inquietanti,   ma i media, con il loro effetto narcotizzante, ci hanno abituato alle notizie di fedeli sgozzati o eliminati in massa, e ad  un senso generale di indifferenza. Inoltre, le notizie provengono da un  mondo lontano; e poi  ad alcuni sembra quasi che con questo sangue si paghino le colpe del colonialismo e di un'intrusione indebita in un mondo culturalmente remoto, dimenticando che il proselitismo religioso, affrancato da interessi politici ed economici, nasce dal semplice desiderio di condividere una testimonianza senza i limiti geografici. RR

LA SHARIA (6-4-2015)
Il precedente breve commento sul concetto di laicità nei Paesi mediorientali richiama come corollario i rapporti fra la Sharia e la legge civile, nonchè la  generale prevalenza della prima sulla seconda. La Sharia è il complesso delle norme religiose, giuridiche e sociali che sono fondate sulla dottrina coranica, perciò, secondo i fedeli musulmani, direttamente ispirate da Dio. Più in particolare le fonti della Sharia sono il Corano (in pic­cola parte in quanto solo un decimo dei 6237 versetti di­sciplina relazioni fra individui), la Sunna, che contiene la tradizione sacra, ovvero la giurisprudenza religiosa, e le opinioni espresse da Maometto (i cosiddetti Hadith). Inoltre, sono considerate fonti della Sharia anche l’opi­nione concorde della comunità, che si esprime principal­mente nella dottrina dei giuristi teologi, che si ritiene sia il precipitato del comune sentire. In ultimo, per colmare una lacuna giuridica vi è l’interpreta­zione analogica, ovvero l’estensione di una norma a una fattispecie non disciplinata ma simile. Nel diritto penale il concetto di reato coin­cide con quello di peccato. I reati più gravi sono quelli contro Allah e la religione islamica (ad esempio, la bestemmia e l’apostasia, che vengono generalmente per­seguite d’ufficio); le sanzioni per i crimini sono previste dal Corano e dalla Sunna e vanno dalla pena di morte e la flagellazione a forme meno gravi rimesse alla discrezio­nalità del giudice. Per la mancanza nel mondo sunnita di una autorità religiosa unanimamente riconosciuta, la definizione delle fattispe­cie giuridiche e il loro trattamento sanzionatorio possono variare da luogo a luogo. La Sharia trovava applicazione pressoché uniforme nell’Impero Ottomano; tuttavia dal XIX secolo in ma­niera più o meno generalizzata è iniziato negli Stati mu­sulmani un processo di modernizzazione che ha portato a ridurre l’applicazione delle istituzioni giuridiche e del corpus legislativo della Sharia a favore dell’adozione di normative influenzate dalla tradizione europea. Un impulso particolarmente forte alla modernizzazione si ebbe dal 1923 con la caduta dell’Impero Ottomano e la costituzione degli Stati nazionali. Questo processo fu particolarmente forte in Turchia che adottò una costituzione repubblicana laica, mentre la modernizzazione in maniera più timi­da riguardò altri Stati musulmani. Tuttavia si ebbero due rilevanti eccezioni: la prima è relativa al diritto familiare che così come concepito dalla fede islamica continuò la sua applicazione (tranne che in Turchia); la seconda è costitui­ta da alcuni Stati che ribadirono in maniera categorica il loro attaccamento all’ortodossia islamica (ad esempio, l'Arabia Saudita, l’Oman e altri Stati del Golfo Persico). In alcuni Paesi, in particolare in Iran e in Sudan, intorno agli anni ’70 e ’80 si sono avute rivoluzioni islamiche che hanno ripristinato la vigenza della Sharia. L’applicazione della Sharia è as­sicurata anche dall’abituale ricorso, per l’integrazione delle lacune giuridiche, al diritto consuetudinario, che si ispira generalmente al Corano. Per poter avere un quadro completo della concreta rilevanza della normativa islamica nei Paesi musulmani non è sufficiente considerare la promulgazione di principi laici, ma il modo in cui le normative vengono applicate: ad esempio, anche laddove si proclama la libertà religio­sa, tuttavia la concreta professione di atti di fede diver­si dall’Islam o la conversione di un musulmano ad altra confessione vengono di fatto sanzionati in quanto equiparati ad atti contrari all’ordine pubblico. Un altro strumento attraverso il quale si è assicurata la vigenza dei principi della tradizione islamica è stato quello di affermare la necessaria non contraddittorietà tra le nuove leggi e i principi fondamentali dell’Islam, non suscettibili di essere modificati dalla normativa positiva; così ad esempio, in alcuni Stati, come l’Egitto, la giuri­sprudenza non ha ammesso l’applicazione dei principi di uguaglianza giuridica della donna rispetto all’uomo pro­prio in virtù di questa contraddittorietà. L'applicazione della  Sharia  contribuisce in generale al potere di mobilitazione dell'Islam, ma, quando una religione si compromette troppo con le vicende umane e i particolarismi, perde il suo valore di messaggio universale. RR

AL SHABAB E LA STRAGE DEI CRISTIANI (4-4-2015)
In Kenya si è consumato giovedì scorso l'ennesimo martirio di cristiani. La gravissima strage induce alcune riflessioni. I fatti del campus di Garissa, seppur preoccupanti, non possono essere considerati un episodio di un conflitto in atto fra Cristiani e Islam. Infatti, pur non negando che esista un inquietante confronto con risvolti geopolitici fra le due religioni senza arrivare ad evocare i foschi scenari dello scontro di civiltà prospettati dal politologo statunitense Huntington, attribuire finalità confessionali alle azioni di Al Shabab significa dare un senso - seppur negativo - a fatti di grave e bassa criminalità commessi da scellerati e spregiudicati predoni. Le iniziative di Al Shabab, nonostante gli intenti del movimento di nobilitarsi accreditandosi come attore del jihadismo globale, in realtà si esauriscono nel conflitto regionale fra Somalia e Kenia. Allora perché questa iniziativa delirante così sottilmente finalizzata all'uccisione di cristiani? Perché con queste modalità i fatti hanno avuto una più ampia risonanza mediatica di quella che avrebbero avuto se l'uccisione degli studenti fosse stata indistinta. Inoltre, nell'immaginario islamico vi è assimilazione fra Cristianesimo e Occidente: attaccare i cristiani significare punire l'Occidente. Peraltro, incidentalmente, osservo che questa identificazione è superata, in quanto l'Occidente sembra caratterizzato da un dilagante laicismo che va progressivamente emarginando ogni forma di spiritualità, sia laica che confessionale. Al Shabab ha sempre operato sotto la sfera di influenza di Al Qaeda, la cui strategia attribuisce priorità all’attacco contro il nemico esterno, cioè l’Occidente, in particolare contro gli USA; questa scelta ideologica differenzia Al Qaeda dall'Isis, che rivolge la sua attenzione ad un progetto di omologazione dell'universo musulmano secondo i propri dettami. Di questi giorni è la notizia di una possibile fusione fra Al Qaeda e Isis (o meglio Al Qaeda confluirebbe nell'Isis). È una cattiva notizia perché le due realtà, per le loro differenze strategiche e strutturali, sono complementari e quindi ne uscirà uno Stato Islamico potenziato. Resta sullo sfondo il martirio dei cristiani e l'allarmante e amara profezia di Huntington, che già da più di un decennio affermava che nei prossimi anni avremmo assistito alla persistente ascesa del potere e della cultura non occidentali, e allo scontro di popoli non occidentali sia tra loro sia con l'Occidente. RR

L'INTESA SUL NUCLEARE (2-4-2015)
L'intesa con l'Iran sul nucleare è un grande successo per la sicurezza del Medio Oriente. Ora l'accordo ha una valenza statica; per la sua efficacia è necessario che sia fissato il suo aspetto dinamico, la sua attuazione, ovvero, in pratica, le modalità e i tempi dei controlli e della fine delle sanzioni. L'Iran voltando pagina sta progressivamente avvicinandosi all'Occidente. Probabilmente in futuro la Repubblica Islamica sarà un prezioso alleato per il contrasto dell'Isis, anche in relazione ad un atteggiamento delle potenze arabe sunnite non chiaro e ambiguo sulla questione della condanna della Stato Islamico. Netanyahu ha manifestato la sua avversione. È comprensibile il suo atteggiamento, seppur non condivisibile: in questi anni spesso la pace è stata assicurata con la forza e la minaccia. E l'intesa con l'Iran gli sembra una pericolosa debolezza e una concessione fatta al nemico. Ma anche Israele, pur rimanendo come sua priorità la sua pacifica ed incontestata esistenza, dovrebbe avere il coraggio di voltare pagina, abbandonando posizioni preconcette e ormai desuete. Netanyahu, se persiste con le sue rigidità, rischia l'isolamento internazionale. E questo sarebbe un grave danno per tutti. Non si deve dimenticare che Israele, come ha detto Amos Oz, è un Paese che nasce dai sogni e dalla speranza. RR

LE ELEZIONI IN NIGERIA E BOKO HARAM (1-4-2015)
Si sono concluse con la proclamazione della vittoria del leader dell'opposizione le elezioni presidenziali in Nigeria. In proposito, può considerarsi positivamente l'esito di queste consultazioni; non mi riferisco alla scelta di Buhari come capo dello Stato, in quanto non credo che con certezza si possa affermare al momento chi dei due candidati sia in grado di affrontare meglio le emergenze del Paese. Penso altresì al fatto che le elezioni si sono svolte pacificamente anche in virtù del non comune senso di responsabilità dei due contendenti. Il Presidente uscente sconfitto, il cristiano Jonathan Goodluck, al termine delle operazioni elettorali ha riconosciuto senza riserve la vittoria dell'avversario, evitando così eventuali rimostranze delle frange violente del suo partito, il Partito Democratico della Libertà; il neoeletto, l'islamico Muhammadu Buhari, leader del Congresso di tutti i Progressisti, si è affrettato a riconoscere i meriti del suo predecessore. Ora vengono avanzati, in sede internazionale (soprattutto da Gran Bretagna e Stati Uniti), dubbi sulla regolarità delle consultazioni; ci sarebbero state 'interferenze ai seggi'. Purtroppo eventuali brogli rappresentano una patologia fisiologica delle giovani e precarie democrazie: si deve considerare infatti che le elezioni politiche non sono il momento iniziale di una democrazia, ma sono l'approdo finale di un processo di democratizzazione, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico e una ben formata coscienza civica. I problemi con i quali si dovrà misurare il neopresidente sono la frattura fra il Nord del Paese (islamico) e il Sud (cristiano), la corruzione, la povertà endemica - più correttamente si dovrebbe dire la disuguaglianza nella ripartizione delle ricchezze in quanto la Nigeria è un Paese potenzialmente ricco - nonchè il contrasto del movimento terroristico di matrice islamica Boko Haram, che recentemente ha compiuto un importante salto qualitativo: da gruppo eversivo locale, aderendo all'Isis sta divenendo parte dell'ambizioso ed inquietante progetto dello Stato Islamico di ricostituzione del Califfato. L'ascesa di Boko Haram si è realizzata in pochi anni. Il ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e della Jihad’, meglio noto come Boko Haram, si costituì nel 2001 come reazione alla corruzione del regime federale e al malessere sociale dovuto alla disoccupazione. Boko Haram in lingua Hausa (l’idioma maggiormente diffuso in Nigeria del Nord e in Niger) può essere tradotto 'l'educazione occidentale è sacrilega'. Questo nome evidenzia l’obiettivo della setta fondamentalista: una dura opposizione alla cultura occidentale, corruttrice della purezza dell’Islam. Pertanto originariamente il Gruppo, per il suo carattere regionale, non poteva essere associato al 'jihadismo globale' dell’AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) o di Al Shabab in Somalia. Anche i rapporti del movimento con il terrorismo internazionale non sono mai stati sufficientemente provati. L’incerta linea gerarchica, la struttura poco chiara, la divisione in fazioni, una catena di comando non univoca, rendono difficili eventuali ‘contatti costruttivi’ con le istituzioni governative nigeriane: esiste quindi anche un problema di rappresentatività, cioè di individuazione di chi possa parlare a nome della setta. L’acredine nei confronti della cristianità era anche dovuta alla fede (cristiana) dell'allora Presidente Goodluck Ebele Jonathan. I membri di Boko Haram per il loro violento e sanguinario integralismo vengono anche definiti da una parte della stampa internazionale 'talebani nigeriani'. Il nuovo Presidente è un rigido ex militare: per questo da alcuni ottimisticamente è stato precisato che saprà affrontare con fermezza ed efficacia l'emergenza terroristica, meglio del suo predecessore. RR

LE RECENTI ELEZIONI IN ISRAELE (2-4-2015)
Dopo aver seguito sondaggi ed interviste preelettorali, non immaginavo la vittoria del Likud e di Netanyahu. Mi sembrava che ci fosse una frattura fra la gente comune, desiderosa di vivere in pace e stanca delle rigidità e delle posizioni preconcette governative che costringono ad una vita in trincea e sotto assedio, e la politica militante. A rifletterci bene, c'è una spiegazione all'inaspettato successo di Netanyahu: la base popolare, spaventata dalla novità di un possibile salto nel buio, ha preferito optare per un usato sicuro, cioè per una linea politica già sperimentata. Tuttavia, resta la percezione di tanti segnali che provengono dalla società civile che esprimono il desiderio di un'operosa pacifica convivenza interetnica e interreligiosa. In proposito, mi colpisce molto l'iniziativa Saxum (clikka qui). Saxum è un'area multimediale per famiglie, gruppi e singoli e un centro residenziale che sta sorgendo ad alcuni chilometri da Abu Gosh, ritenuto il luogo nel quale 6000 anni fa venne depositata l'Arca dell'Alleanza e sulla via per Emmaus, il villaggio in cui Cristo si è rivelato dopo la resurrezione. Nel Centro di Saxum i fedeli di tutto il mondo e di tutte le religioni potranno rendere più profondo il loro desiderio di spiritualità, trovando anche le loro radici comuni. È significativo che all'edificazione del centro partecipino, lavorando fianco a fianco, ebrei, musulmani e cristiani (clikka qui). Se non si fa l'esperienza della vita comune spesso si è vittima inconsapevole di barriere e pregiudizi. Mi viene in mente il cortometraggio 2men 1war, visibile online su Youtube (clikka qui), che mostra come le vicende belliche possano inconsapevolmente manipolare le esistenze, contrapponendo individui altrimenti destinati all’amicizia. Nel documentario un cristiano e un musulmano, dopo aver combattuto ignari l'uno dell'altro su fronti opposti durante la guerra civile libanese, si ritrovano dopo 33 anni ed intraprendono la via del perdono e della conciliazione. Nel cortometraggio i due uomini raccontano le loro storie parallele, caratterizzate da un vuoto etico che è l'unica motivazione delle divisioni e che ci rende impermeabili a qualsiasi razionale impulso di pacificazione. I due uomini ora sono amici e lavorano insieme rinnegando il loro passato di morte. L'ospedale pediatrico Caritas Baby invece si trova a pochi chilometri dal muro che divide Gerusalemme da Betlemme (clikka qui); un muro che separa due popoli, due culture, che, fino a poco tempo fa, cercavano di convivere pur nelle loro diversità. L'ospedale ha accettato la sfida e l’impegno di curare tutti i bambini, senza differenze fra musulmani, cristiani, ebrei. Potrebbe sembrare normale prestare assistenza a malati non tenendo conto dell'appartenenza etnica o religiosa, ma non lo è in quella terra dilaniata dall'odio. Le attività sanitarie dell'ospedale, compreso il pagamento mensile dei salari, sono sostenute dalla generosità di singoli cittadini, da associazioni, da organizzazioni, da parrocchie, da diocesi, da gruppi che mostrano la loro solidarietà in maniera tangibile. Virtualmente l'ospedale sta abbattendo il muro. Il motto di queste iniziative - che si aggiungono a tante altre di questo genere - potrebbe essere sintetizzato con questa affermazione latina: 'Adsum!', o - se preferiamo l'inglese - 'I am here, we are here!', 'Ci sono!', 'Ci siamo!', a lottare per la pace, per la solidarietà, per la convivenza, ognuno nella propria posizione sociale, ma cercando di superare i propri limiti. RR

LA BARBIE ARABA (31-3-2015)
Le vicende della bambola Barbie nel mondo arabo possono essere utili per fissare i caratteri del modello di donna islamica. L'attenzione delle autorità nei confronti dei giocattoli indica la volontà di farne un uso strumentale all'educazione ai valori dell'Islam, anche attraverso l'abitudine e la familiarità con la tradizione. Nei Paesi arabi la 'formosa' Barbie non ha avuto vita facile. In particolare, dal settembre del 2003 la vendita della bambola fu proibita in Arabia Saudita. Segnatamente, il Comitato per la Diffusione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dichiarò che "le bambole 'ebree' Barbie, con i loro vestiti e le loro pose da sgualdrine" erano "un simbolo della decadenza del perverso Occidente". Il divieto di vendita della Barbie determinò il successo di Fulla, l'equivalente islamica. In realtà Fulla era prodotta da un'azienda di Dubay fin dal 1999, ma solo il bando della Barbie segnò la sua diffusione, anche in Cina, in Brasile, nel Nord Africa, in Egitto e nell'Indonesia. Le argomentazioni pretestuose del Comitato saudita contengono dunque riferimenti antisemiti; la Barbie, nella sua insana leggerezza, avrebbe come modello la donna ebrea nella vita reale, che, con i suoi abiti e con i suoi atteggiamenti, sarebbe simbolo del degrado occidentale. Già nel 2001, alcuni leader religiosi arabi denunciarono l'immoralità dei Pokemon affermando che le figurine erano parte di un complotto sionista che spingeva la gioventù, occultamente corrotta, verso il gioco d'azzardo ed altre illiceità. Probabilmente, all'iniziativa contro la Barbie non furono estranei intenti commerciali, soprattutto quello di ricordare ai genitori, in coincidenza con l'inizio dell'anno scolastico, la valenza negativa del giocattolo, e dei suoi accessori ancora in commercio. In passato erano state prodotte altre bambole vestite con il velo, come Razanne o la Barbie del Marocco, ma nessuna raggiunse la popolarità di Fulla, che rappresenta un modello di comportamento per i musulmani, ovvero è come i musulmani vorrebbero che fossero educate le proprie figlie. Non è dotata di costumi da bagno o abiti succinti. È significativo che non esistano bambole Fulla abbinate a carriere e mestieri. Per uscire in pubblico usa come abito il classico abaya (si tratta - nella versione usata dalla bambola - di un camice nero che copre anche la testa e si chiude sotto il mento); ha anche un tappeto rosa che usa per pregare. Ci sono poi prodotti con quel marchio, come lo zainetto per la scuola, ombrelli, orologi, biciclette, e perfino i cereali per la prima colazione. Non esiste una controparte maschile, cioè l'equivalente di Ken: Fulla è destinata ad essere single. Inoltre non può mai rimanere nuda: sotto agli abiti indossa un costume 'intimo' intero che non può essere rimosso. Fulla e Barbie si somigliano molto: stessa altezza e stesso faccino. Fulla però è mora, con gli occhi scuri, e naturalmente, in quanto musulmana osservante, è coperta dalla testa ai piedi. È onesta, rispetta i genitori, ama leggere. Ha due amiche (Yasmeen e Nada), un fratellino e una sorellina. Negli spot pubblicitari trasmessi in Arabia Saudita, Fulla è mostrata mentre prega, prepara una torta per un’amica e legge un libro. Si può concludere che, mentre Barbie vive pubblicamente in quanto pratica sport e frequenta ambienti di ogni genere, Fulla al contrario vive nell'intimità della casa. Viene così promosso il modello arabo femminile. Se questo modello può essere considerato non più attuale, tuttavia anche la Barbie non è esente da critiche in occidente: uno dei più noti addebiti che le sono stati mossi è quello di diffondere un'immagine della donna anatomicamente poco realistica, con il rischio conseguente che le bambine aspirino ad avere quel tipo di corpo e siano indotte all'anoressia; per questo dal 1997 Barbie è stata modellata con un bacino più ampio. RR

IL CONCETTO ARABO DI LAICITA' (26-3-2015)
Gli scontri nell'attuale scenario mediorientale sono spesso motivati da contrapposizioni di carattere religioso (in particolare fra Sciiti e Sunniti). Nella sostanza tuttavia questi contrasti hanno come reale obiettivo il conseguimento o la conservazione di un'egemonia politica. A prescindere da questa realtà concreta dietro l'apparenza spirituale, resta una particolare natura teocratica della società islamica, caratterizzata da politiche governative che o coincidono o sono fortemente influenzate da principi religiosi. Questo aspetto può essere imputato sia a peculiarità dell'Islam, segnatamente invasivo della dimensione collettiva e sociale, sia alla mancanza, nella storia di questi popoli, di un movimento analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha ridimensionato gli elementi religiosi riducendoli a semplici valori culturali, enfatizzando la necessità dell'uomo di ricercare la verità affrancato da schemi preconcetti e guidato esclusivamente dalla ragione. Va tuttavia ricordato che nella storia dei Paesi arabi ha svolto un ruolo centrale il Partito Socialista Ba'th, fondato in Siria, ispirato anche da elementi illuministici e di estrazione non confessionale. Questa dimensione è sottolineata dalla eterogeneità dell'appartenenza religiosa dei fondatori: Al Arsuzi, alauita (e quindi sciita), Aflaq, cristiano ortodosso e Al Bitar, musulmano sunnita. Tuttavia il Partito Ba'th è un'eccezione apparente. Infatti il panarabismo materialista che caratterizzava l'ideologia del movimento era permeato di elementi islamici, mentre in essa l'ateismo era pressoché assente. Corollario dell'impronta confessionale della società musulmana è la mancanza della percezione della necessità di stabilire con chiarezza i confini e le relazioni fra religione e politica, condizione essenziale per lo sviluppo di principi quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero e quella di culto. Poiché non esiste alternativa alla Fede musulmana - l'unica ed il coronamento dei precedenti monoteismi del Libro (Ebraismo e Cristianesimo) - è di difficile comprensione il concetto di laicità; il termine 'laico' pertanto viene spesso confuso con il termine 'ateo'. Più precisamente nella lingua araba fino a qualche decennio fa non esisteva la parola 'laicità', che attualmente si dice 'al maniyya'. Questo termine però è generalmente compreso nel suo esatto significato solo dai musulmani che hanno avuto contatti con la cultura occidentale. Mancando la nozione di laicità, è del tutto sconosciuta la distinzione fra secolare e religioso. Non bisogna confondere il rispetto e la valorizzazione delle tradizioni con il rifiuto di laicità. Mentre negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei cercavano di integrarsi abbandonando spontaneamente l’abitudine di portare indumenti tradizionali, attualmente il ritorno all’uso del niqab, dello chador, del burqa e del qamis (la tunica maschile) non trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. Il Corano non prescrive nulla di preciso con riferimento all’abbigliamento: l’uso del burqa, diffuso principalmente in Afghanistan e in alcune regioni del Pakistan, è un obbligo legato solo a tradizioni locali. RR

NON SOLO MONDO ARABO (24-3-2015)
Lo scenario politico italiano è monopolizzato dalla questione delle dimissioni del Ministro Lupi e di quelle, solo auspicate, dei Sottosegretari indagati. Non ho seguito particolarmente le iniziative e le attività politiche del Ministro, ma a prescindere da questo, non è mia abitudine 'emettere' sentenze extragiudiziali. In ogni caso mi sembra apprezzabile che il Ministro, nemmeno indagato, si sia fatto da parte togliendo il Governo da una situazione di imbarazzo. È stata anche una soluzione intelligente, in quanto, se risulteranno responsabilità penali, sicuramente l'effetto mediatico sarà meno amplificato da quello che sarebbe conseguito dall'attualità dell'investitura ministeriale. Se risulterà innocente, gli elettori lo riabiliteranno adeguatamente anche in relazione alla correttezza del suo comportamento pregresso. La stessa condotta sarebbe auspicabile da parte sottosegretari indagati. È vero che essere indagati non è di per sé indice di colpevolezza, ma, se l'interesse prevalente non è quello personale ma quello istituzionale, sarebbe meglio per il momento mettersi da parte in attesa dei chiarimenti che verranno dalla sede giudiziaria. Obiettivamente, proprio perche un avviso di garanzia non equivale ad una condanna, non credo che il Capo del Governo Renzi possa 'd'autorità' dimissionarli o esercitare pressioni. Sta al senso di responsabilità dei Sottosegretari dimostrare la loro sensibilità istituzionale. Stamattina ho letto un articolo con questo titolo: Scontro su Twitter fra Gassman e Barracciu. Lui: “Lasci la poltrona”. Lei: “Impari a recitare” . A conferma del carattere apartitico di queste riflessioni, non conosco a quale schieramento appartenga il Sottosegretario Barraciu, né gli orientamenti politici  di Alessandro  Gassman. Ma questo è un dettaglio, l'omologazione riguarda oggi anche la politica. RR

YEMEN - Un conflitto religioso o politico? (23-3-2015)
Il conflitto, che rapidamente ma non inaspettatamente si è sviluppato nello Yemen, rischia di dilaniare il Paese come è avvenuto in Libano, e successivamente in Siria e in Libia. Gli scontri hanno un'origine religiosa in quanto si inseriscono nel più ampio quadro di una resa di conti fra Sciiti e Sunniti. Generalmente sono i dissidi religiosi che generano contrasti politici: al contrario la controversia fra Sciti e Sunniti in origine è stata storica e politica, in quanto riguardava chi avesse il diritto di succedere al profeta Muhammad come capo della Umma, ovvero della comunità musulmana. Poi la questione, nata da questa divergenza politica, è diventata un problema religioso, cioè di interpretazione di testi; la discordanza si concentrò in particolare sul ruolo  dell'Iman, che per gli Sciti è un elemento di collegamento fra l'uomo e Dio. Pertanto per questa confessione l'imam integra un'istituzione religiosa che al contrario è inesistente nella teologia sunnita, per la quale non esiste nessun elemento di mediazione fra l'uomo e Dio. Oggi le controversie sono tornate ad essere principalmente politiche. In proposito, l'esame delle vicende del mondo islamico (e non solo) dimostra il carattere dinamico dell'identità religiosa, non raramente subordinata a logiche di potere. Cinque secoli fa l'Iran, oggi saldamente sciita, era a maggioranza sunnita, mentre la Tunisia era sciita come anche l'Egitto. L'Università di Al Azhar del Cairo, oggi prestigiosa istituzione sunnita, è stata fondata dagli Sciiti. In altri termini, il fronte sciita e quello sunnita non sono stati mai statici in relazione a tempi di consistente durata. Tornando allo Yemen, che rapidamente si avvia verso la guerra civile, il conflitto ha natura locale, anche se con una forte proiezione regionale. I ribelli Houthi agiscono autonomamente: non sembrano avere l'ambizione di impadronirsi del potere, ma reclamano che vengano considerati i loro interessi nel processo in corso di stesura della nuova Costituzione. Tuttavia sullo sfondo vi è l'Iran,  che ovviamente solidarizza con gli sciiti Houthi non solo per motivi religiosi, ma aspirando ad assicurarsi, attraverso lo Yemen, una 'presenza' nell'area del Golfo ed una 'testa di ponte' verso l'Africa (in questo contesto riveste una particolare importanza strategica lo stretto di Bab Al Mandeb, che congiunge il Mar Rosso, il Golfo di Aden e quindi l'Oceano Indiano, e che nel tratto che separa lo Yemen da Gibuti misura solo 30 km). Dalla parte dei ribelli sono schierate naturalmente le milizie fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, deposto nel 2012. Contro gli Houthi e soprattutto contro il 'pericolo' iraniano vi è l'Arabia Saudita e le monarchie del Golfo.  Da questa situazione di fatto trae vantaggio Al Qaeda nella Penisola araba (AQAP) che ancor più indisturbata può gestire i propri interessi nelle aree sotto il proprio controllo. Tuttavia, se il conflitto dovesse montare non può escludersi un coinvolgimento diretto dell'Iran da una parte, e delle potenze del Golfo dall'altra, che già lamentano le interferenze e lo sforzo dello stato persiano di fomentare contrasti religiosi fra gli Stati arabi. Per ora la contrapposizione regionale è solo potenziale. L'Isis, inviso per motivi diversi da entrambe le parti, e le sue appendici terroristiche non possono che rimanere in disparte. Questa è la buona notizia. L'unica. RR

L'ACCORDO SUL PROGRAMMA NUCLEARE DELL'IRAN (22-3-2015)
In questi giorni l'interesse per il mondo islamico è monopolizzato dall'attacco terroristico in Tunisia, dalle tragiche vicende dello Yemen, dalle inquietanti evoluzioni dello Stato Islamico. Viene pertanto collocato in un secondo piano il possibile accordo sul travagliato programma nucleare dell'Iran, che può avere epocali ripercussioni internazionali e instaurare nuovi equilibri geopolitici. I fatti sono noti. L'accordo - per il quale sta spendendo molte energie Barak Obama che ha l'occasione di terminare il suo mandato con un prestigioso successo - dovrebbe riconoscere alla Repubblica Islamica la possibilità dell'arricchimento dell'uranio solo per uso civile (e non per uso militare), con conseguente sospensione delle sanzioni per sei mesi durante i quali si tratterà un'intesa definitiva. E' sicuramente una voce fuori dal coro (questa volta uso la formula in senso negativo) quella di Netanhyau che afferma: "Reagiremo da soli alla minaccia nucleare". L'accordo consentirebbe all'Iran di uscire dall'attuale isolamento e marginalità nel mondo arabo - islamico conseguente alla rafforzata centralità - anche a seguito dell'ascesa dell'Isis - della componente sunnita (com'è noto, in Iran il 90% della popolazione è di fede islamica nella variante sciita). Le complesse vicende siriane hanno inoltre di fatto determinato il fallimento dei tentativi dell'Iran di inserirsi - attraverso lo stretto rapporto con Hezbollah (una specie di longa manus) - nello scacchiere del vicino Medio Oriente e dell'area del Golfo per imporre la sua presenza di potenza regionale. Insomma l'accordo sarebbe per lo Stato persiano una preziosa opportunità di rilancio internazionale. Per l'Occidente invece l'Iran potrebbe essere in futuro un prezioso alleato per la composizione di nuovi equilibri, soprattutto dopo che la Turchia è sempre più lontana e sbilanciata verso alleanze con gli Stati leader nel mondo sunnita (in particolare con i Paesi del Golfo per costituire un fronte idoneo a contrastare le politiche dell’Iran e avere un ruolo di primo piano tanto in Siria quanto in Iraq). E' significativo inoltre che la Turchia abbia creato con l'Arabia Saudita e l'Indonesia un asse islamico all'interno del G20, con l'obiettivo non solo di stimolare la crescita economica, ma anche di sostenere una società giusta sulla base dei valori musulmani. Aspettiamo con fiducia gli sviluppi della politica, senza disprezzarla, perchè - ha scritto lo scrittore egiziano Naguib Mahfouz - la politica, è la metà della vita, o la vita intera se si considera che la saggezza e la bellezza sono al di sopra della vita stessa. RR

L'ATTENTATO IN TUNISIA, IL GIORNO DOPO (20-3-2015)
A distanza di poco più di 24 ore dall'attentato in Tunisia ancora molti elementi non sono chiari. Non è evidente la rivendicazione dell'atto, ma questo aspetto nello specifico caso non rileva molto. In precedenza stabilire a quale movimento  appartenesse il commando autore di un fatto eversivo significava individuare l'organizzazione di cui i terroristi costituivano un'articolazione. Oggi gli atti terroristici imputabili alla matrice jihadista sono realizzati da cellule indipendenti che si autoaccreditano come emissari di una data organizzazione. Si parla di franchising del terrorismo. Io avevo già usato questo termine a proposito di Al Qaeda nel 2012 nel libro 'Paura dell'Islam. Al Qaeda, fin dalle sue origini, manifestò dei ca­ratteri peculiari, ovvero la verticalità da un punto di vista decisionale e l’orizzontalità da un punto di vista opera­tivo ed esecutivo. Questa caratteristica strutturale pertanto contribuì a trasformare nel tempo questo movimento in una sorta di franchising del terrorismo. Al Qaeda, che inizialmente era un’organizzazione terroristica centralizzata con bersagli globali, si ramificò infatti progressivamente in agenzie nelle diverse aree del mondo con obiettivi locali.  La mobilitazione interna­zionale successiva all’11 settembre 2001 rese difficoltosi i colle­gamenti tra le cellule dislocate nelle varie realtà nazio­nali e la sede centrale; queste entità hanno cominciato ad operare autonomamente. Le iniziative dei lupi solitari - per usare un termine giornalistico di moda - autori dei gravi fatti di Tunisi sono uno sviluppo di quella pregressa situazione. L'attentato di ieri, a prescindere dagli approfondimenti necessari nell'analisi dell'intelligence internazionale, ha una forte valenza simbolica. E' stato colpito l'unico Paese nel quale la Primavera Araba ha avuto un esito positivo. L'apparato di prevenzione e di sicurezza tunisina ha dimostrato tuttavia la sua sensibile fragilità. Paradossalmente la Tunisia è anche il Paese con il maggior numero di jihadisti (almeno 3000; più di un migliaio sono recentemente rientrati da campi di addestramento, probabilmente in Siria, per essere destinati ad attentati in Tunisia o altri Paesi), mentre una gran parte di terroristi di matrice fondamentalista ha quella nazionalità. Se l'obiettivo dell'attentato era il museo del Bardo, l'atto è coerente con l'intento del jihadismo di distruggere le tracce e le origini della civiltà. Se l'obiettivo era invece il Parlamento (non credo), si voleva colpire il cuore democratico di quello Stato. Destinatario della pianificazione criminale è stato un Paese  sunnita moderato, a significare che il fondamentalismo violento ha come primo obiettivo i regimi arabi moderati. L'evento criminoso produrrà un grave ritorno negativo sul turismo che costituisce il 40 % delle entrate del bilancio tunisino. La lotta torna ad essere  all'interno del mondo arabo - islamico per il raggiungimento di una posizione egemonica, ovvero fra Sciti e Sunniti e fra Sunniti moderati e quelli  fondamentalisti. In proposito, nel mondo arabo circola una massima anonima che precisa che gli Arabi sono d’accordo di non essere d’accordo.  RR

MONDO ARABO E LIBERTA' (15-3-2015)
E' stato pubblicato recentemente online un interessante documento dell'Isis in italiano, destinato a finalizzare il reclutamento di aspiranti jihadisti. Lo scritto - di poco più di 60 pagine ed elaborato con raffinata sintesi - fornisce, per evidenti fini propagandistici, un'immagine edulcorata ed idilliaca dello Stato Islamico. Si parla di giustizia applicata in piena aderenza alla Sharia, di economia, di ordine e sicurezza sociale, ma non si accenna alla libertà. Non è un caso. Il concetto di libertà nella tradizione arabo - islamica è di recente acquisizione, in quanto storicamente l’aspirazione di questi popoli è sempre stata prevalentemente la sola giustizia. L’organizzazione tribale infatti che è alla base delle società arabe presuppone l’accettazione come realtà ineludibile dell’esistenza di un potere superiore a cui ci si sottopone inevitabilmente, ma dal quale, come contropartita, si pretende l’esercizio di ogni potestà secondo equità. Gli Stati arabi peraltro non hanno elaborato nel tempo una struttura amministrativa decentrata; conseguentemente il potere centrale, per poter governare, deve sempre garantirsi l’appoggio delle comunità stanziate su specifici territori, ovvero le tribù, nelle quali - come già detto - si accetta che il potere non venga esercitato democraticamente. Questi Paesi, che hanno ereditato la cultura giuridica della società tribale, non possono quindi fondarsi sui diritti di libertà e di uguaglianza come vengono intesi nella nostra tradizione illuministica. Le Primavere Arabe, a prescindere dallo loro genesi controversa e dagli esiti deludenti, hanno aperto una breccia, anche se è presto per un obiettivo giudizio storico globale. Tuttavia, come diceva Leonard Cohen, dalle crepe entra la luce. RR
                      
POSTDEMOCRAZIA (10-3-2015)
Il termine postdemocrazia è il titolo di un noto fortunato libro del politologo britannico Colin Crouch, pubblicato nel 2003, che contiene un'analisi dello sviluppo delle democrazie occidentali all'inizio del terzo millennio. Nel saggio si legge: "Anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall'integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici ". In effetti c'è un esponenziale rassegnato generale disinteresse per la politica. Aumenta l'astensionismo, i cittadini sono stanchi di votare il meno peggio. I tempi della Grecia Classica, nella quale la politica era l'otium dei migliori, sono lontani: la gestione di tutto da parte di una oligarchia di tecnici è la negazione dell'agorà, nella quale la democrazia consisteva nell'amministrare non rispetto ai pochi, ma con riferimento alla maggioranza. Si può fare politica in molti modi: smascherando la demagogia, denunciando la corruzione, il malaffare e l'attaccamento ai privilegi sempre ingiustificati, stigmatizzando l'inefficienza amministrativa e il paludoso terreno che alimenta l'odiosità della burocrazia; ma lo strumento tipico per partecipare al governo della comunità è il voto, ovvero un informato diritto-dovere di elettorato attivo e passivo. La vera rivoluzione sarebbe il ritorno ad una democrazia partecipativa nella quale ognuno segua le proprie inclinazioni politiche, qualsiasi esse siano, ma con convinzione, in maniera informata, e, soprattutto nell'interesse del bene pubblico. RR

L'ISLAM POLITICO (7-3-2015)
L'ayatollah Khomeini diceva che "...l'Islam  o è politico o non è". Effettivamente la locuzione Islam politico è una tautologia, in quanto la religione musulmana è pervasiva sul consorzio umano; la militanza mira infatti all'instaurazione di una comunità teocratica che si sostituisce a quella civile, alla piena vigenza della Sharia, alla convergenza fra morale religiosa ed etica dello Stato. In realtà anche il Cristianesimo ha come obiettivo la trasformazione della società  ma, diversamente, questo avviene dal basso, ovvero mediante un capillare rapporto individuale di confidenza e amicizia con il prossimo. Parafrasando un'efficace metafora di un Santo del  Novecento, il cristiano è come un pesce nel mare inquinato, deve purificare l'acqua (fuor di metafora, l'ambiente) che è intorno a sé. Il carattere politico dell'Islam è emerso con tutta evidenza nel 1979 con la rivoluzione in Iran: il popolo musulmano sembrò aver scelto di essere governato dall'Islam sciita, l'unica vera incarnazione della giustizia e della sapienza. Così la Primavera iraniana si impose sui fallimenti e sulle incertezze di quei movimenti più o meno direttamente ispirati dal pensiero di Sayyid Qttb, caratterizzato dalla commistione di elementi politici di stampo riformista e socialista con quelli che auspicavano un riscatto di matrice religiosa; questi movimenti avevano impresso  nel XX secolo alterne vicende ai Paesi arabi, in particolare all'Egitto. Successivamente, a prescindere dallo loro controversa genesi, le Primavere arabe,  cominciate tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011, hanno esitato in un evidente Islam politico. Nel corso di quei tumulti è stata richiesta l'instaurazione di sistemi politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia, quasi a reclamare l’avvento di quell’Illuminismo che ha segnato  così profondamente l’Occidente e che è mancato nella storia arabo-islamica. Nella pretesa di questi diritti, non si potevano avere come modello le democrazie occidentali, da sempre considerate corrotte e lontane da valori spirituali e religiosi. Il nuovo Stato non poteva che essere fondato su una piena applicazione dei valori dell’Islam, considerati gli unici in grado di assicurare un regime perfetto, oltre che giusto. Che valore hanno queste considerazioni? Se si sceglie la via del dialogo è necessario conoscere il proprio interlocutore e spogliarsi delle tentazioni etnocentriche che spingono verso un'emotiva e indimostrata superiorità dell'Occidente. Nello stesso tempo il confronto necessita della disponibilità al dialogo dell'altra parte; non ci può essere dialogo con l'Isis, e più in generale con un fondamentalismo spinto e violento, animato da un cieco fanatismo. La scelta del dialogo è un'opzione opportunistica, non etica: nessuno sulla terra è autosufficiente. RR

DONNA E CINEMA ARABO (1-3-2015)
Si avvicina l'8 marzo e vorrei condividere una riflessione su donna e cinema arabo. In realtà non ho mai avuto simpatia per la festa dell'8 marzo, ipocritamente retorica e consumistica. Come è noto, nella società araba la donna ha in generale un ruolo subordinato rispetto a quello maschile. Eppure uno sguardo sommario alla cinematografia dei Paesi arabi, islamici, o mediorientali evidenzia che spesso protagonisti sono personaggi femminili. Cito alcuni film: 'Caramel' e 'Ora dove andiamo?' della regista libanese Nadine Labaki, 'Il Giardino dei Limoni' dell'israeliano Eran Riklis, nel quale la positività viene solo da figure femminili, o 'Il cerchio' dell'iraniano Jafar Panahi che contiene otto storie di donne, o il film iraniano di animazione 'Persepolis' di Marjane Satrapi, e 'Donne senza uomini', del persiano Shirin Neshat, nel quale la vita di quattro donne si intreccia con drammatiche congiunture storiche. Paradossalmente sarei tentato di dire che le società di quelle aree geografiche hanno in concreto un'impronta matriarcale. Infatti anche in esse la donna sopporta i pesi e gli oneri dell'esistenza. RR

ISLAM, ISIS E TERRORISMO (24-2-2015)
Nel degrado del dibattito politico ogni posizione viene emotivamente radicalizzata senza possibilità di momenti di mediazione e di riflessione. Così accade quando si parla della religione musulmana. Premesso che sarebbe già inesatto parlare di Islam come se si trattasse di una realtà monolitica in quanto è facile rilevare che ci sono tanti Islam fra i quali non è possibile individuare un interlocutore che possa rappresentare tutti i fedeli (in ambito sunnita per la sua autorevolezza una voce ufficiosamente ufficiale è l’Università del Cairo di al-Azhar), l'opinione pubblica, come se si trattasse di un derby calcistico, si divide fra chi ritiene che si debba distinguere un Islam moderato dalle frange fondamentaliste e violente, e chi invece vede nella cultura islamica un pericolo per l'occidente evocando gli scenari di un millenario scontro di civiltà. I due punti di vista sono inconciliabili in quanto sono il precipitato di due diversi approcci ideologici che hanno come presupposto l'attribuzione di valore a priorità diverse. Chi attribuisce importanza al dialogo con i musulmani moderati, viene spesso 'accusato' di 'buonismo' e di favorire, inconsapevolmente con questo atteggiamento di apertura, l'avanzata della violenza fondamentalista. In realtà è vero il contrario. Attraverso il dialogo con i moderati - non con i terroristi con i quali non è possibile né opportuna nessuna apertura di credito - di fatto si emarginano le frange violente, che diventano vulnerabili. Ad esempio, isolando i violenti dalla parte 'politica' è stato possibile neutralizzare in passato forti movimenti secessionisti di matrice terroristica (l'ETA in Spagna, per citare un caso). Al contrario non distinguere favorisce uno scontro indiscriminato dagli esiti incerti. Gli scontri di civiltà innescano spirali incontrollabili e sono in questo momento il più grave pericolo per la pace mondiale. RR

LA CALATA DEI LANZICHENECCHI (20-2-2015)
Probabilmente negli incidenti di ieri a Roma non ha funzionato molto la cooperazione europea di polizia. Normalmente, grazie a questa collaborazione, si programmano i charter dei tifosi stranieri - soprattutto quelli con gruppi convenzionalmente definiti di categoria 'B' (potenzialmente pericolosi) e di categoria 'C' (violenti) - in maniera che arrivino poche ore prima della partita. Arrivati, con pullman 'ad hoc' e scortati, vengono portati direttamente allo stadio. A fine partita sono portati direttamente in aeroporto. Si tratta di linee convenute in seno all'Unione Europea e al Consiglio d'Europa, in applicazione del generale principio per cui prevenire è meglio che reprimere. Anche i dispositivi a protezione della città non sono stati efficienti. Forse c'è anche stato un difetto di informazione o errate valutazioni. Anche il Comune di Roma credo che non sia stato impeccabile nell'occasione. Nonostante il giusto divieto di vendita degli alcolici stabilito dal prefetto, sembra che gli hooligans si siano potuti rifornire di birra presso indisturbati venditori ambulanti abusivi. I vigili urbani erano tutti malati? Gli hooligans olandesi sono stati definiti vandali. Questa attribuzione non è veritiera. I vandali, sebbene in termini negativi, ragionano, decidono, agiscono. I tifosi olandesi - naturalmente quelli autori degli scontri - sono espressione di un'umanità inebetita regredita ai primi stati dell'evoluzione, incapaci di capire l'Arte che avevano di fronte sensibili solo alla violenza dello scontro tribale e alla suggestione del gruppo. I popoli nordeuropei che talvolta ci guardano con un senso di superiorità fondato solo su decenni di sterilità culturale e artistica, dovrebbero riflettere...I barbari sono ancora fra di noi. Qualcuno dice 'Sono animali!' La mia gatta, prima di salire sul divano, per non sporcare aspetta che qualcuno metta una copertina a protezione della tappezzeria, e finché la copertina non viene messa, non sale. RR

GRECIA (28-1-2015)
L’accordo fra Siriza e la destra greca non mi scandalizza, né – come è stato ‘autorevolmente’ scritto - può essere assimilato al famigerato patto del Nazareno. Anche se si deve essere cauti e prudenti sui suoi esiti, sembra che questo accordo rappresenti un’importante novità in quanto vengono messi da parte gli schematismi obsoleti e preconcetti ‘destra’, ‘sinistra’, per privilegiare le intese sugli obiettivi concreti: prioritario in questo momento, per contrastare la grave condizione economica della Grecia che è la punta avanzata di una più generale situazione preoccupante e stagnante, è combattere l’ostinata e ottusa politica di austerità imposta dalla Germania, che confonde i principi dell’economia mondiale con i fondamenti dell’economia domestica della massaia. RR

PARIGI, una settimana dopo (14-1-2015)
Come ogni onda emotiva, anche quella seguita all’attentato di Parigi comincia ad attenuarsi. L’emotività è intensa, ma ha vita breve. Tutto ritorna alla normalità. L’attacco a Charlie Hebdo nei media sarà rimpiazzato da storie di veline, gossip, Sanremo, calcio, crimini efferati nostrani ai quali si attacca la morbosità popolare.  Charlie Hebdo tornerà alle sue tirature ordinarie. Nei bar si discuterà per un po’di Islam fondamentalista o moderato, di accoglienza o ‘tutti nei loro Paesi’. Hollande, brillante nella circostanza, tornerà al suo basso gradimento presso i francesi. Non sarà più come prima solo per le famiglie delle vittime. Forse la Storia,  per poter continuare – ma non è un bene – si nutre del suo oblio. RR

PARIGI, UN PO' DI GIORNI DOPO (11-1-2015)
Per gli amici di Facebook – qualora fosse di qualche interesse – vorrei precisare che, pur unendomi e solidarizzando con chi ha scritto Je suis Charlie, non condividevo la linea editoriale della rivista C. H. che conoscevo da tempo. Infatti, non sono d’accordo con Dario Fo' – che stimo per il suo impegno civile e sociale, e la sua sensibilità artistica – che afferma che il diritto di satira non ha regole. Il primo - e forse unico limite - è non diffamare e non offendere ingiustificatamente. Aggiungo che è opportuno non irridere con leggerezza la sensibilità spirituale e religiosa. Tuttavia nulla giustifica il grave fatto criminale che si è consumato a Parigi e quindi con ‘Je suis Charlie’ volevo dissociarmi con chi più o meno velatamente ha pensato e scritto “se la sono voluta”. RR

PARIGI TRE GIORNI DOPO (10-1-2015)
L’attentato di Parigi continua a farmi venire in mente le iniziative delle BR e il noto dilemma iniziale di allora della gente comune “né con le BR, né contro”. Sono sicuramente due realtà lontane. Tuttavia, mentre nel caso dell’11 settembre 2001 l’attacco veniva dall’esterno, gli autori dell’attentato di Parigi sono cresciuti in Francia. Perciò si è concretizzata una minaccia interna al sistema, come fu quella delle BR in Italia. Poi gli attentati cruenti delle BR portarono la gente a solidarizzare con lo Stato che rispose democraticamente. Meglio una democrazia imperfetta e contaminata dagli interessi privati di alternative autoritarie e liberticide. Così l’attentato di Parigi è stato uno spartiacque che ha dimostrato che il terrorismo non ha né religione, né colore politico. Chi contribuisce alla conoscenza - dagli insegnati ai giornalisti - ha un delicato compito. Informare in maniera corretta e oggettiva. La conoscenza è il presupposto di un’opinione libera, l’ignoranza emotiva ne è la negazione. RR

PARIGI, IL GIORNO DOPO  (8-1-2015)
Nei fatti di ieri la Polizia francese è apparsa un po’ maldestra. L’intelligence poi si è dimostrata inefficace. Sarebbe opportuno che tutti gli Stati – almeno quelli europei – mettessero a disposizione reciprocamente il proprio patrimonio informativo attraverso la costituzione di un intelligence sovrannazionale. Una vera intelligence e non un organismo burocratico. Come sanno gli esperti del settore, questa è una strada quasi utopistica, difficile da percorrere fino in fondo. Forse basterebbe potenziare soprattutto Europol, Interpol ed Eurojust. Almeno per ora. La risposta operativa è un problema dei singoli Stati, anche se lo scambio di best practices può aiutare molto. I francesi nella circostanza mi sono sembrati un po’ incerti e confusi. I terroristi al contrario erano molto addestrati e sicuri. Hanno anche loro commesso alcuni errori e incertezze. Forse alcuni erano solo grossolani tentativi di depistaggio. Purtroppo poi il network informativo del fondamentalismo islamico è efficace e impenetrabile, complice una lingua che nelle varianti dialettali è compresa bene solo dai madrelingua. Nonostante questa analisi non benevola, credo che la minaccia del terrorismo di matrice islamica possa essere efficacemente contrastata. In Italia all’inizio le BR colsero di sorpresa lo Stato, che seppe poi reagire organizzandosi efficacemente, ricostituendo anche un consenso e una solidarietà intorno a sé. Ora è importante evitare un emotivo odio indiscriminato per l’Islam, un risentimento figlio dell’ignoranza, della disinformazione e della superficialità. Ad un pregiudizio non se ne deve sostituire un altro, all’intolleranza non si può rispondere con analoga intolleranza. Molti islamici e imam stanno dando segnali di dissociazione. Mi sembrano importanti le parole di Nasrallà, leader degli Hezbollah, che ha dichiarato: "I terroristi offendono l’Islam più delle vignette”. Sembra però che in occidente, molti, per continuare a sostenere le proprie tesi, non vogliano tenerne conto. La via del dialogo con l’Islam – non con i terroristi - è lo strumento per isolare il terrorismo di matrice islamica, e quindi è la premessa di un suo efficace contrasto.” RR

Roberto RAPACCINI