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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

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☺ Perchè VOCI FUORI DAL CORO? Generalmente durante la settimana leggo quello che viene pubblicato online in merito ad argomenti di mio interesse, ovvero, in particolare, news, aspetti di geopolitica, rapporti fra mondo occidentale e mondo islamico, novità in ambito culturale e nell'Arte. Alcuni scritti sono particolarmente illuminanti perché diradano le nebbie create dalle tante affermazione arbitrarie che incautamente vengono espresse anche nei media. Sperando di fornire un servizio utile ho pensato di raccogliere ogni settimana su questo blog in una RASSEGNA STAMPA i link degli articoli e dei post per me più significativi. Con gli stessi principi vengono formulati COMMENTI. Ho chiamato queste web-pages VOCI FUORI DAL CORO semplicemente perché oggi chi si esprime in maniera corretta, informata e serena è una voce 'fuori dal coro' delle opinioni affrettate, faziose, demagogiche, disinformate e urlate, ovvero che si impongono per i toni della prevaricazione verbale piuttosto che per i contenuti. Buona Lettura! webmaster - Roberto Rapaccini ☺

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COMMENTI...FUORI DAL CORO...II (da luglio 2016) di Roberto Rapaccini

SIRIA, LA SITUAZIONE ATTUALE (4/3/2018)
Le principali città siriane - Aleppo, Latakia, Tartus, Hama, Homs, Damasco, Palmira, Abu Kamal - sono tornate sotto il controllo del governo centrale. L’influenza  dello Stato Islamico è invece ridotta ad una piccola area a sud est, circondata da forze governative a ovest e forze curde a est. Il controllo curdo si esercita su un’ampia area a nord del Paese ed include le città di Afrin, Raqqa, Qamishli, Hasakah. Al momento il conflitto in Siria si sviluppa su due fronti. Innanzitutto nella parte orientale di Ghouta, un distretto che si trova a 10 km. dal centro di Damasco. Per la sua prossimità alla capitale è di particolare importanza per le forze governative la riconquista di questa enclave, al momento in mano ai ribelli. Si tratta di un’area di 104 km2, che ospita 400.000 civili metà dei quali sono giovani che hanno meno di 18 anni, che è sottoposta a violentissimi bombardamenti da parte dell’aviazione siriana e russa. Il bilancio delle vittime è molto grave perché i raid aerei continuano anche durante i momenti quotidiani di tregua (cinque ore) concordati per introdurre gli aiuti destinati alla popolazione. I corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili non sono né sicuri né praticabili. Il 24 febbraio scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato (con il consenso anche della Russia) una risoluzione - che non ha avuto pratica applicazione - per un cessate il fuoco di 30 giorni, escluse le operazioni contro formazioni terroristiche; nella regione operano infatti anche miliziani di Al Nustra, il gruppo armato jihadista salafita, affiliato fino al 2016 ad Al Qaeda. Nel 2017 Turchia, Russia e Iran avevano concordato di designare la Ghouta orientale ‘una zona di de-escalation’, ovvero inibita ai jet da combattimento siriani e russi. L’altra zona nella quale il conflitto è particolarmente acceso è l’enclave curda di Afrin. Infatti nel gennaio del 2018 nella Siria nord-occidentale, vicino alla città di Afrin, la Turchia e l'esercito libero siriano (FSA) hanno intrapreso iniziative belliche contro la YPG, l'Unità di Protezione Popolare, una milizia molto vicina al PKK,  la principale organizzazione di militanti curdi in Turchia. Nel conflitto sono impegnate anche forze filogovernative a sostegno della resistenza curda. RR

L’ISLAM IN MOZAMBICO (su L’Azione del 9.3.2018)
In Mozambico la maggioranza (dal 30% al 45% della popolazione) pratica culti animisti, i cristiani (prevalentemente cattolici) sono il 24%. I musulmani, attualmente il 20%, sono in aumento. Il processo di islamizzazione in Mozambico come nel resto del continente africano è favorito da alcune contingenze. Il proselitismo è facilitato dai matrimoni misti fra musulmani e cristiane, a seguito dei quali le donne normalmente abbandonano la loro fede e non possono condizionare l’educazione religiosa dei figli. Alcuni Stati musulmani con borse di studio consentono a studenti di recarsi nei loro Paesi per una formazione professionale che ha sempre una marcata impronta confessionale. I giovani, che possono avvalersi di queste opportunità, spesso si convertono all'Islam: al loro ritorno sono destinati a integrare la futura classe dirigente. L’Arabia Saudita inoltre, finanziando la costruzione di moschee e fornendo sostegno economico a chi voglia intraprendere un’attività, facilita la diffusione del pensiero islamico. Per evitare che un tale contesto possa essere il presupposto per lo sviluppo di frange fondamentaliste, deve essere mantenuto e promosso il carattere laico delle istituzioni. Anche il dialogo inter religioso consente di contenere derive radicali.  Negli ultimi mesi il Mozambico è stato oggetto di alcuni attacchi di miliziani del gruppo jihadista Ansar al-Sunna, vicino al somalo Al-Shaabab e al nigeriano Boko Haram. Le incursioni terroristiche sono avvenute nella parte settentrionale del Paese, che è ricca di risorse minerarie ed è oggetto di interessi occidentali: è inquietante che il proselitismo islamico proceda parallelamente all’espansione fondamentalista. RR 

I COLLOQUI PER LA PACE IN SIRIA (2/3/2018)
L’unico strumento in grado di garantire il ritorno della pace in Siria, è una soluzione negoziata. Tuttavia, le numerose e ambiziose iniziative diplomatiche promosse dalle Nazioni Unite o da alcuni Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto non hanno finora conseguito risultati apprezzabili. I colloqui fra il governo e l’opposizione hanno come obiettivo principale il raggiungimento di un definitivo ‘cessate il fuoco’ e la definizione di una transizione politica. Il punto più controverso è sempre stato e rimane la sorte di Bashar Al-Assad. Di seguito si evidenziano le tappe più significative. Dopo alcuni tentativi di mediazione intrapresi dalla Lega Araba, il primo incontro fra le parti si tenne a Ginevra nel giugno del 2012. Non ebbe esiti di rilievo. Nel 2014 Staffan de Mistura sostituì Kofi Annan come inviato speciale dell’Onu. Nella conferenza di Astana in Kazakistan nel maggio del 2017 le trattative furono mediati da Russia, Turchia ed Iran: i tre Paesi convennero sulla costituzione di una safe-zone nelle regioni di confine della Siria con la Turchia e la Giordania al fine di proteggere i profughi, particolarmente numerosi in quell’area. L’opposizione respinse il documento perché riteneva opportuno che il provvedimento riguardasse tutto il territorio siriano. I ribelli inoltre chiedevano anche il ritiro delle milizie sciite appoggiate dall’Iran. La Giordania non partecipò ai lavori, ma nell’occasione tenne contatti bilaterali con alcuni partner. Recentemente nel gennaio del 2018 le parti si sono incontrate a Sochi, sul Mar Nero. Si è raggiunto l’accordo sulla necessità di garantire la sovranità e l’integrità territoriale della Siria. Per la transizione verso un governo democratico si è ipotizzata la costituzione di un Comitato di 150 membri, composto da forze governative e dell’opposizione, con il mandato di promuovere le necessarie riforme. Potrebbe trattarsi di un primo passo significativo. Ottimisticamente l’inviato speciale delle Nazioni Unite Steffan De Mistura ha definito il punto un passaggio dalla teoria alla pratica. Questi accordi saranno la base dell’agenda dei prossimi incontri che si terranno a Ginevra. Poiché ai lavori non hanno partecipato alcune componenti ‘ribelli’ importanti con l’intento di boicottare la conferenza, l’intesa raggiunta in concreto ha poche prospettive di trovare attuazione. Inoltre le forze governative, sostenute da Mosca, considerati i recenti successi bellici, potrebbero essere meno disponibili a cedimenti di sovranità. Il processo di pace è complicato anche da concomitanti eventi che rilevano a livello geopolitico e regionale, come l’offensiva turca contro i curdi. La partita quindi resta ancora aperta: le ambizioni della Russia di raggiungere nel recente incontro a Sochi un accordo definitivo non si sono realizzate. Roberto Rapaccini

Rifugiati siriani (1 marzo 2018) 
Il conflitto in Siria che a marzo entrerà nel suo ottavo anno, ha creato una delle maggiori crisi umanitarie del nostro tempo. Al momento si contano più di 465.000 vittime e oltre un milione di feriti; almeno 12 milioni di siriani - metà della popolazione ‘prebellica’ del Paese - sono morti o sono stati costretti a fuggire dalle proprie case. Libano, Turchia e Giordania ospitano la maggior parte dei rifugiati, molti dei quali tentano di partire per l'Europa in cerca di migliori condizioni di vita. Per la Convenzione di Ginevra del 1951 è rifugiato “…chiunque nel giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato…”. Secondo i rapporti di alcune agenzie umanitarie nel 2017 sono tornati in Siria 66.000 siriani: con gran parte del Paese in rovina ed una popolazione disperata e traumatizzata la ricostruzione nella fase postbellica sarà un processo lungo e difficile. Questa  crisi umanitaria nei Paesi europei è spesso oggetto di strumentalizzazioni politiche. I rifugiati dovrebbero essere distinti dalla più generica e problematica categoria degli immigrati clandestini. Si tratta di persone, di uomini, donne e famiglie che fuggono da genocidi o da scenari di guerra (in alcuni casi da morte quasi certa).  E’ innegabile che l’attuale  flusso migratorio verso l’Europa porti con sé importanti problematiche. Sono questioni, tuttavia,  che si deve avere il coraggio di affrontare senza ricorrere ad affrettate e comode opposte soluzioni radicali. In termini concreti  è ingiustificato sia un generale accoglimento di immigrati come il loro indiscriminato respingimento. Le polarizzazioni ideologiche  verso posizioni estreme in questo caso allontanano da soluzioni ragionevoli. La solidarietà, che va contemperata con concorrenti esigenze sociali e di sicurezza, è una componente della civiltà occidentale e trova fondamento nelle sue radici giudaico cristiane. Dice un proverbio africano, lo straniero è  un fratello che non hai mai incontrato. RR

LE PROSSIME ELEZIONI EGIZIANE E I CRISTIANI COPTI (Su L’Azione del 2/3/2018)
Le vicende dell’Egitto vanno seguite con attenzione: l’esperienza storica ha spesso dimostrato che tutto quello che avviene in quel Paese, epicentro del mondo arabo, poi si diffonde nel resto della regione. La Primavera araba, punta avanzata della crisi dell’Islam politico, ebbe inizio in Tunisia, ma dopo la rivolta egiziana del 2011 cominciò ad interessare con effetto domino gli altri Stati.  A fine marzo si svolgeranno le elezioni presidenziali che porteranno con molta probabilità al conferimento di un nuovo mandato al gen. Al-Sisi (forse sarà sufficiente il primo turno). Il leader non sembra avere rivali: con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale gli sfidanti o hanno abbandonato la candidatura spontaneamente o sono stati in qualche modo obbligati a farlo. La società civile, dopo i disordini degli anni passati, teme una destabilizzazione: questo timore spinge ad optare per la continuità dell’attuale governo che, nonostante la mancanza di democrazia e le insufficienti riforme economiche, garantisce sicurezza e stabilità.  L’affermazione di Al-Sisi viene vista con favore dai circa 8 milioni di cristiani–copti, ovvero il 10% della popolazione. Questa minoranza, vittima di violenti attacchi jihadisti, si sente da sempre protetta dai regimi militari che fin dai tempi di Nasser con il loro indirizzo laico hanno consentito alla comunità cristiano-copta di integrarsi nella vita del Paese. Il buon rapporto fra il regime e i copti si fonda su un reciproco riconoscimento di leadership, quella spirituale del patriarca e quella politica del presidente. Per questo presumibilmente i copti appoggeranno la rielezione di Al-Sisi. RR 

LA MINACCIA DELLA MAFIA NIGERIANA (su L’Azione del 23/2/2018)
L’omicidio a Macerata di una ragazza tossicodipendente ha dato spazio nei mass media alla preoccupante presenza sul nostro territorio di gruppi di presunti appartenenti alla mafia nigeriana. Il fenomeno non è recente. Da anni questa consorteria ha superato i confini africani per gestire in Paesi europei ed extraeuropei attività collegate allo sfruttamento della prostituzione, all’immigrazione clandestina, al narcotraffico, costituendo una delle più pericolose reti delinquenziali del mondo. La mafia nigeriana è un sistema, non un’unica struttura: è caratterizzata da singole bande reciprocamente indipendenti o specializzate in segmenti di un’attività criminale. Come analoghe organizzazioni, la mafia nigeriana si avvale di rituali esoterici per l’affiliazione di nuovi elementi e per imprimere ai delitti un marchio di appartenenza. È noto che dopo la consumazione di alcuni omicidi i corpi sono stati smembrati e  sono seguiti atti di cannibalismo (soprattutto relativi ad organi, in particolare cuore e fegato, ritenuti fonti di coraggio ed energia) con finalità magiche e propiziatorie. La ritualità mafiosa – il cui valore simbolico è particolarmente utile per impressionare persone di bassa cultura meno sensibili alla comunicazione dialettica - serve a rafforzare i vincoli associativi fra gli affiliati che, in questo modo, si sentono destinatari del privilegio di far parte di una comunità di iniziati. La ritualità delle mafie generalmente si ispira al contesto etnico-culturale di provenienza. Pertanto, come la mafia italiana si avvale del presunto avallo di una malintesa religiosità cristiana (con uso di santini in cerimoniali nei quali  sacro e profano si contaminano reciprocamente), così la mafia nigeriana fa ricorso a riti voodo e a superstizioni tribali, che in alcuni reati, come la tratta di esseri umani, esercitano anche una potente suggestione sulle vittime, strumentale al loro assoggettamento. RR

LA CIRCOLAZIONE DELLE ARMI NEGLI STATI UNITI (su L'Azione del 17/2/2018)
Qualche giorno fa, a Parkland, in Florida, negli Usa, c’è stata l’ennesima strage in un liceo. Un giovane squilibrato, ex studente della scuola, ha fatto irruzione nell’edificio armato con un fucile ed ha aperto il fuoco uccidendo 17 persone e ferendone più di 50. È tornata attuale la questione delle libera circolazione negli Usa delle armi da fuoco automatiche e semiautomatiche. In casi come questo le lobby dei produttori hanno sempre precisato che non è opportuno affrontare il problema emotivamente, cioè a caldo dopo una sparatoria. Tuttavia, da questo punto di vista è difficile trovare il momento giusto: negli Usa infatti le sparatorie con un numero di vittime pari o superiore a 4 (questo elemento convenzionalmente in termini giornalistici definisce la strage di massa) sono quasi quotidiane. Da sondaggi risulta che negli Usa la percentuale dei contrari alla libera vendita e detenzione di armi e quella dei favorevoli più o meno si equivalgono; una piccola minoranza dichiara invece di volere leggi ancora più permissive. Quando viene proposta una normativa più restrittiva, i politici e le lobby dei produttori ricorrono al Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che dice che….essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto. Si dovrebbe precisare che la disposizione normativa risale al 1791 ed è quindi lontana dal contesto attuale. Alla cosiddetta sindrome da Far West  probabilmente non sono estranee esigenze di autodifesa che, fuori dagli aggregati urbani, in quel Paese sono particolarmente sentite: qui, infatti, a causa della vastità del territorio, le case sono spesso isolate e molto distanti l’una dall’altra e, in caso di emergenza, l’intervento della polizia non sempre può essere tempestivo. Sembra trovare applicazione il principio citato nel film Una vita al massimo ovvero che è meglio avere una pistola e non averne bisogno, che non averla e averne bisogno.  In linea di massima negli Stati Uniti chi ha più di 21 anni può acquistare una pistola, mentre i maggiori di 18 anni possono detenere un fucile a canna liscia. È sufficiente un documento di identità: il venditore registra i dati dell’acquirente e li associa all’arma; chi fa uso di stupefacenti o di particolari farmaci e gli stranieri non possono acquistare o possedere armki. Gli Stati Uniti detengono in occidente il triste record del maggior numero di decessi causati da armi da fuoco. Da un punto di vista politico i produttori e i possessori di armi sono rappresentati da lobby potenti che, avendo generalmente come riferimento esponenti del Partito Repubblicano, cercano di influenzare le decisioni del Congresso. RR

MORIRE PER UCCIDERE
A sedici anni dall’attentato alle Torri gemelle il tema del terrorismo suicida continua ad essere di particolare interesse. Esistono dei motivi forti che spingono un giovane islamico, manipolato da predicatori più anziani, a scegliere di morire per ideali religiosi, che nell’Islam hanno anche la funzione di collanti ideologici e politici. Diversamente da quello cristiano il martirio islamico non si limita al sacrificio passivo di sé stesso ma richiede iniziative per  sopprimere  i presunti infedeli: la vocazione ad immolarsi si fonde con quella omicida, la volontà di uccidere si unisce  a quella di morire. Il martirio è un’attrattiva perché consente la santificazione, cioè il diritto di entrare in Paradiso con i privilegi che competono agli eroi della Jihad. L’importanza della morte è tale che, se l’attentatore sopravvive, la missione può paradossalmente ritenersi fallita. Un altro dato da considerare è la tenera età degli attentatori suicidi. I giovani, disorientati dal vuoto etico cioè dall’assenza di valori di riferimento, essendo alla ricerca di un’identità definita, sono vulnerabili alla propaganda jihadista, e ne subiscono la seduzione. Nell’atto suicida c’è inoltre una componente narcisistica che predispone alla rinuncia della propria vita: l’iniziativa terroristica trasforma un ordinario individuo in un angelo vendicatore che godrà della gloria di una fama postuma. La sacralità rituale che precede l’atto suicida, ben descritta nel film Paradise Now, attribuisce un duraturo protagonismo ad individui educati nell’indifferenza, ed appaga un desiderio di affermazione e di autorealizzazione. Da questo punto di vista quindi l’opzione suicida costituisce il compenso ad una frustrazione piuttosto che fondarsi un richiamo religioso. Già nella seconda metà dell’800, Dostoevskij scriveva che ….gli uomini rifiutano i profeti e li uccidono. Ma adorano i martiri e onorano coloro che hanno ucciso. RR

MALDIVE, DA PARADISO A INFERNO (su L’Azione del 16/2/2018)
Siamo abituati a considerare le Maldive una specie di Paradiso in terra, il mare è uno splendido acquario, i cieli sono azzurri, la gente locale si mostra bendisposta, premurosa, contenta di averci come ospiti. Il tempo scorre lento e tranquillo, mentre per noi sono normali ritmi convulsi e frenetici. Quel mondo sembra incredibilmente  lontano dalla nostra civiltà, soprattutto dalle immagini di guerra, di sangue e di attentati, con le quali quotidianamente conviviamo. Non è così. In questi giorni nel Paese è scoppiata una guerra civile di vaste proporzioni, che ha la sua origine negli  irriducibili contrasti fra il governo e l’opposizione. Tutto questo sta avvenendo nella capitale Malè, lontano dal contesto artificioso dei villaggi turistici ospitati in centinaia di  isolette sparse nell’Oceano Indiano. I travagli che sta vivendo il Paese non sono una sorpresa. Da molti anni fuori dai resort la Repubblica delle Maldive, un Paese islamico nel quale vige una rigida applicazione della legge coranica, è uno Stato insicuro. La  corruzione, la violenza, la criminalità, i traffici illegali sono fuori controllo. La povertà, la miseria e le differenze sociali sono mali endemici. Nell’arcipelago abitano 350 mila persone, per lo più musulmani di confessione sunnita salafita, molti dei quali stanno subendo un processo di radicalizzazione. In rapporto alla popolazione le Maldive sono il Paese islamico che ha fornito il maggior numero di foreign fighter. Nonostante questo, forse a causa delle distanze dalla capitale e dall’isolamento, le strutture turistiche non sono state mai oggetto di attentati. I turisti generalmente non si rendono conto delle difficili condizioni del Paese, perché al loro arrivo a Malè vengono subito prelevati  e portati a destinazione. Forse e in maniera paradossale si realizza in un certo senso la profezia di Maometto: il paradiso è all’ombra delle spade. RR

Afghanistan: Mujaheddin, Talebani, stato islamico (9/2/2018)
L’Afghanistan con le sue vicende internazionali è al centro della jihad globale, ovvero è spesso una specie di trincea avanzata del fondamentalismo violento sunnita. In proposito in questi anni si sono consumate anche cruente guerre infra-islamiste, come l’attuale conflitto fra i Talebani, originariamente provenienti da gruppi di Mujaheddin, e lo Stato islamico. Con il generico termine di Mujaheddin si indicavano i militanti della guerriglia islamica attivi soprattutto nell’Asia centrale. Il termine ebbe notorietà nel corso della guerra russo-afghana (1979-89) durante la quale i Mujaheddin, sostenuti  da Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, contrastarono l’intervento militare sovietico favorevole al governo progressista afghano. Alla fine della guerra, i Mujaheddin afghani (da distinguere da quelli iracheni e da quelli iraniani) si divisero in due componenti, l’Alleanza del Nord e i Talebani. I Talebani, vincitori nel 1995-6 della guerra civile afghana successiva al ritiro dell’URSS, dopo aver conquistato il potere, imposero un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica. Rovesciati nel 2001 da una coalizione occidentale per i legami con Al Qaeda e con l’eversione di matrice islamista, continuarono a svolgere attività terroristica e di guerriglia. Dal 2015 i talebani ripresero a guadagnare terreno con l’obiettivo di contrastare anche il concorrente potere dello Stato Islamico all’interno della galassia jihadista. I miliziani dello Stato Islamico, presenti in Afghanistan dal 2014, erano confinati nel gruppo Islamic State–Khorasan Province (nel sud est del Paese). Inizialmente lontani dai principali centri abitati, progressivamente aumentarono la loro influenza nel Paese fino ad attuare sistematici attentati nella capitale Kabul. Il Califfato, infatti, dopo aver perso una parte rilevante del proprio territorio in Iraq e Siria, cercava di affermarsi negli Stati, come l’Afghanistan, che avevano una stabilità precaria. Diversamente l’obiettivo dei Talebani - alleati con  importanti gruppi jihadisti estremisti come la rete Haqqani particolarmente vicina ad Al Qaeda (e forse ai Servizi Segreti pakistani) - era quello di minare la stabilità del governo afghano filo-occidentale, compiendo attentati continui e costanti contro la popolazione civile, creando quindi instabilità e caos. Si perseguivano così  i fini di indebolire le istituzioni governative e di scoraggiare le forze esterne a proseguire il loro impegno militare. In proposito ci si riferisce  soprattutto all’accresciuta presenza americana in Afghanistan decisa dall’amministrazione Obama e confermata da quella di Trump, anche se sembra che la lotta al jihadismo non sia più attualmente una priorità degli USA dal momento che si attribuisce sempre più rilievo alla competizione geopolitica e finanziaria con Cina e Russia. Le iniziative eversive violente probabilmente si sono intensificate anche a causa di un  conflitto, non sempre latente, fra Talebani, Al Qaeda e Stato Islamico per la supremazia nel mondo jihadista violento, che si afferma attraverso la capacità di imporre il terrore e la relativa propaganda. Le questioni politiche si combinano con gli affari illeciti: i profitti della gestione del traffico di droga frutta ai Talebani ingenti somme con le quali viene finanziato l’acquisto di armi. Questi traffici sono ora  insidiati dall’Isis, che inoltre fa proselitismo e recluta militanti fra i Talebani, allettati da un migliore compenso economico. L’Isis si potenzia mentre i Talebani si indeboliscono: anche questa contingenza si traduce in un motivo di reciproca avversione e diffidenza. Ulteriore causa di divisione è l’ottica strategica che riguarda il proselitismo violento per l’imposizione della Sharia: i Talebani sono nazionalisti e pertanto limitano la loro attenzione alle vicende del proprio Paese. Diversamente lo Stato Islamico non è interessato a confini nazionali, ma coltiva l’ambizione di estendere il Califfato quanto più possibile. Gli interessi religiosi inoltre in questa regione sono recessivi rispetto a quelli militari e strategici:  l'Iran sciita supporta i Talebani sunniti con l'obiettivo di mantenere debole il vicino governo afghano. Purtroppo non sembrano esserci al momento prospettive di pace per questa disgraziata area: nessuno degli attori di questo sanguinario scenario di guerra ha attualmente la forza per imporsi sugli altri. Accanto alla storia fatta asetticamente dalle vicende dello Stato afghano, ci sono le sofferenze della gente comune alla quale è stata espropriata la possibilità di crescere e di vivere  in pace e in serenità la normalità della vita quotidiana. Lo scrittore Khaled Hosseini nel romanzo ‘Il cacciatore di aquiloni’ con una bella frase intensamente lapidaria descrive bene questa condizione: “In Afghanistan ci sono tanti bambini, ma non esiste più l'infanzia”. In un documentario, ‘La vita in un giorno, un afghano dice: “Quando esco di casa al mattino, non sono sicuro che tornerò a casa sano e salvo. Nessun afghano si aspetta di tornare a casa sano e salvo”. RR

LA NUOVA STAGIONE TERRORISTICA IN AFGHANISTAN (29/1/2918)
Un nuovo atto terroristico si è verificato a Kabul oggi 29 gennaio presso un’accademia militare dove un commando di cinque uomini ha ingaggiato uno scontro a fuoco con i soldati. L'azione terroristica - il cui primo bilancio è superiore ad una decina di morti - è stata rivendicata dall'Isis. La capitale dell’Afghanistan continua ad essere teatro di gravi attentati dopo l’esplosione dell’autobomba del 27 gennaio scorso che ha causato la morte di più di cento persone: questo sanguinoso progetto criminoso è stato attuato da un gruppo di militanti talebani. L’Afghanistan acquistò la piena indipendenza dal Regno Unito nel 1919 a seguito della conclusione della terza guerra anglo-afghana. Dopo un affrettato tentativo di occidentalizzazione, dagli anni ‘30 agli anni ‘70 si sono avvicendati regimi che hanno continuato una prudente modernizzazione del Paese. La Costituzione del 1964 avrebbe dovuto istituire una democrazia parlamentare, ma i contrasti tra le forze politiche ne impedirono l’attuazione. Nel 1973 ci fu un colpo di Stato di militari ispirato da esigenze di riforma che tuttavia rimasero disattese. Nel 1978 un nuovo colpo di Stato portò al potere il segretario del Partito comunista; il nuovo regime era fortemente osteggiato dai ceti islamici tradizionalisti e combattuto da una  guerriglia da essi alimentata. Questa situazione di confusione istituzionale motivò l’intervento militare sovietico  nel 1979, a seguito del quale fu nominato primo ministro B. Karmal. Questo governo non ottenne il riconoscimento internazionale: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò a larga maggioranza una risoluzione che deplorava fortemente le iniziative dei militari sovietici chiedendone il ritiro. Le gravi perdite subite a seguito delle veementi azioni di guerriglia dei mujaheddin, inquadrati su base etnica e territoriale, e l’isolamento internazionale nel quale venne a trovarsi l’URSS, determinarono il graduale disimpegno sovietico, che si concluse nel febbraio del 1989. Dopo alcuni anni di guerra civile e di incerte condizioni di anarchia, nel 1996 Kabul cadde in mano ai talebani, che imposero misure radicali mutuate da una letterale e dogmatica applicazione della Sharia. Il regime talebano, reo di aver favorito la latitanza di Osama Bin Laden, venne rovesciato nel 2001 a seguito  di pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione angloamericana. La conferenza di Bonn convocata nel dicembre del 2001 stabilì l’avvio di un processo di ricostruzione politica del Paese, che si sarebbe dovuto iniziare con l’adozione di una nuova Costituzione. Nel dicembre 2004, Hamid Karzai, gradito al governo statunitense, divenne il primo presidente dell'Afghanistan eletto democraticamente. Dopo un secondo mandato, la presidenza di Karzai si concluse nel 2014. Le successive travagliate e controverse elezioni presidenziali del 2014, gravate da accuse di brogli, decretarono l’avvento della presidenza, tuttora in atto, di Ashraf Ghani. Come provano le recenti azioni terroristiche il Paese, politicamente instabile, è ostaggio dell’incombente presenza clandestina talebana ed è minacciato dalle iniziative dei militanti di gruppi fondamentalisti islamici. RR

LA RICCHEZZA DI POCHI, LA POVERTA’ DI MOLTI (Su L’Azione del 2/2/2018)
Alla vigilia del vertice di Davos (23-26 gennaio), l'annuale Forum economico mondiale cui partecipano esponenti di primo piano della politica e dell'economia internazionale, convocato per discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, è stato diffuso il rapporto annuale dell’Oxfam, un’associazione internazionale  che si occupa di misure per ridurre la povertà globale. È emerso un quadro inquietante. L'1% della popolazione mondiale detiene più ricchezza del restante 99%. Il rapporto precisa che 42 persone possiedono la stessa ricchezza dei rimanenti 3,7 miliardi. Inoltre, l'82% dell'incremento della ricchezza globale, registrata nel 2017, e' stata appannaggio dell'1% della popolazione mondiale mentre il 50% non ha beneficiato di nessun incremento. La ricchezza dei miliardari è legata molto più a posizioni di rendita, al monopolio e al clientelismo, che alla fatica del lavoro. La situazione va peggiorando dal momento che 7 cittadini su 10 vivono in un Paese in cui la disuguaglianza e' aumentata negli ultimi 30 anni. La povertà è in costante aumento e rende intollerabili queste sperequazioni sociali ed economiche alle quali finora siamo stati supinamente abituati. Non dobbiamo dimenticare che dietro questi numeri, così freddi e anonimi, ci sono persone, ovvero delinquenti, trafficanti di droga e di armi, ricchi industriali, pluripagati fenomeni dello sport e dello spettacolo, artisti, e tanta gente comune. In altri termini il lavoro pericoloso e scarsamente pagato della maggioranza della popolazione mondiale alimenta l’estrema ricchezza di pochi. La disuguaglianza sociale spinge il gruppo dominante a sostenere la gerarchia esistente con ogni mezzo, anche violento, per proteggere il proprio status. Tutto questo provoca un consolidamento delle disuguaglianze. RR

LE EVOLUZIONI DEL PENSIERO ARABO (su L'Azione del 26 gennaio 2018)
Il sito Global Influence ogni anno sulla base di analisi compiute su media e social network arabi anche attraverso uno specifico software individua i leader che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e ne determinano le aspettative. È una ricognizione importante perché consente di conoscere i temi di particolare rilievo che si dibattono pubblicamente nei Paesi di lingua araba. Nello scorso anno in questa speciale classifica i primi tre posti erano occupati da teologi islamici. Quest’anno il primo religioso ‘influente’ si trova al VII posto (i successivi sono al X e al XII), mentre le prime posizioni sono occupate da poeti, da scrittori, da giornalisti, e anche da attivisti per i diritti umani. Pertanto, sebbene la materia religiosa continui ad avere un ruolo centrale, si è registrato attualmente un crescente interesse per i punti di vista degli intellettuali laici. Questi dati sono segnali che indicano che è in atto un’evoluzione culturale in senso laico. Nel mondo musulmano, in relazione al monopolio ideologico religioso e al suo carattere invasivo, il termine laico non è facilmente compreso e ad esso viene frequentemente attribuito il significato di ateo. Nella storia dei Paesi arabi è mancato un movimento analogo al nostro Illuminismo, che, oltre a stabilire il primato della ragione per orientare le evoluzioni della società civile, ha stabilito con chiarezza le relazioni fra religione e politica, condizione essenziale per lo svilup­po di principi quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispet­to della libertà di pensiero, nonché la libertà di culto. RR

LA GUERRA PER IL COLTAN (Su L’Azione del 19 gennaio 2018)
Con il termine Coltan si intende un minerale che fra i suoi elementi costitutivi ha il tantalio, un conduttore di elettricità dalle qualità eccezionali, prezioso in quanto è indispensabile per realizzare componenti per dispositivi quali telefonini, computer portatili, videocamere e videogiochi. Conseguentemente questo minerale è diventato particolarmente ricercato e prezioso. Le maggiori miniere di Coltan si trovano in Australia e in alcune regioni del Centro Africa. In proposito la corsa per l’accaparramento di questo minerale e delle immense ricchezze custodite nel sottosuolo è tra le cause delle recenti sanguinose guerre fra la Repubblica Democratica del Congo e i confinanti stati del Ruanda, dell’Uganda e del Burundi,  e inoltre ha originato una serie di microconflitti locali. Tutto questo, naturalmente, in difesa di interessi che non coincidono affatto con quelli della popolazione, ma piuttosto con quelli di altri Stati stranieri, o di multinazionali dell'industria estrattiva, che fomentano e finanziano gruppi di mercenari. Queste infinite vicende belliche hanno prodotto milioni di morti e sfollati, e hanno causato un disastro umanitario senza precedenti. Sullo sfondo gli interessi di multinazionali che, per perseguire i propri interessi,  influiscono su equilibri politici ed economici. L’indipendenza degli Stati africani di fatto resta solo formale: costituisce un alibi per il perpetuarsi delle politiche di sfruttamento neocoloniale non solo di Paesi capitalistici e industrializzati, ma anche da parte delle nuove potenze economiche emergenti nel XXI secolo.  RR

COSA PENSANO I MUSULMANI? CHI PUO’ PARLARE PER LORO – 2. Sunniti e Sciiti (23-12-2017)
I divergenti punti di vista nella valutazione dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda il grado di tolleranza dei fedeli nei confronti di altre realtà religiose o che si evidenziano nelle differenti opinioni sulla sua pericolosità per il possibile ricorso alla violenza come strumento di affermazione e di espansione della fede musulmana, sono la conseguenza non solo di ambiguità contenute nei testi sacri, ma anche della disomogeneità di questa religione. Il suo carattere aggressivo viene enfatizzato nei media occidentali attraverso un ampio ricorso al termine jihad. Jihad correntemente  viene tradotto guerra santa. Jihad in arabo vuol dire sforzo ed è seguito spesso dall’espressione fi sabil Allah, cioè lungo il sentiero di Dio: pertanto, al termine jihad dovrebbe essere attribuito il significato di lotta interiore. L’Islam è spesso considerato una monade dai tratti definiti. Innanzitutto manca un’autorità capace di esprimere una posizione ufficiale su ogni specifica questione. (questa caratteristica riguarda l’Islam di professione sunnita, l’80/90 % circa del mondo musulmano). Nell’Islam  convivono tante confessioni, come avviene nel Cristianesimo. I fatti che hanno dato origine alla scissione fra Sunniti e Sciiti risalgono al periodo di poco posteriore alla morte di Maometto; emerse un contrasto sui criteri per l’individuazione del califfo, ovvero del successore del Profeta, che avrebbe dovuto assumere il ruolo di capo politico e spirituale della comunità musulmana. Per gli Sciiti, poiché Maometto non aveva figli maschi, il primo successore andava individuato in Alì, cugino e genero del Profeta, che sposò la figlia Fatima; in questo modo, la successione si sarebbe attuata all’interno della discendenza del Profeta. Per i Sunniti era invece necessario individuare il califfo mediante un’investitura che sarebbe dovuta provenire dalla comunità dei fedeli, riconosciuta come una vera autorità religiosa. Il principio di autodeterminazione della comunità dei fedeli si fa risalire all’affermazione di Maometto: “La comunità dei credenti non si accorderà mai su un errore”. Attualmente la differenza fondamentale fra queste due principali componenti dell’Islam riguarda l’esistenza e il ruolo della gerarchia religiosa. Il Paese più grande nel quale gli Sciiti sono al potere è l’Iran. La rivoluzione del 1978, che trasformò  la monarchia persiana in una repubblica islamica, fu guidata dalle autorità religiose, fra le quali ebbe particolare rilievo l’ayatollah Khomeini. Gli ayatollah sono le guide spirituali dei fedeli sciiti iraniani: si tratta di un vero e proprio clero. La Repubblica Islamica Iraniana è di fatto una teocrazia. In altri Paesi, come il Bahrain, nonostante la maggioranza della popolazione sia sciita, è al potere la minoranza sunnita.  Per quanto riguarda i fondamenti della fede, fra Sciiti e Sunniti non ci sono rilevanti differenze. La divisione fra Sciiti e Sunniti non è la sola: il mondo musulmano è caratterizzato da molte altre frammentazioni. Nella deriva fondamentalista e antioccidentale di alcuni Stati arabi hanno avuto notevole influsso il movimento wahabita e quello salafita, che promuovono un ritorno all’Islam delle origini. Il termine wahabita deriva da Muhammad bin Abd al-Wahhab, vissuto all’inizio del XVIII secolo, alleato di Muhammad bin Saud, principe di un’oasi della regione del Neged, capostipite della dinastia che nel XX secolo unificherà l’Arabia e che tuttora governa il Paese. Punto fondamentale della dottrina wahabita è l’affermazione del tawhid, ovvero l’assoluta unità di Dio e la lotta con ogni mezzo contro tutte le forme di culto devianti o atipiche. Il buon governo  è adeguamento della prassi politica e giuridica ai fondamentali principi della Sharia, che, con rigore, deve regolare ogni comportamento umano. Per questo la dottrina wahabita manifesta una radicale ostilità nei confronti di quei governi che si allontanano dalla via tracciata dal Corano: non c’è spazio per forme di legittimità democratica di tipo occidentale in quanto l’unica legittimità viene dal letterale rispetto della legge divina. Il wahabismo ha sempre goduto del sostegno finanziario dei potentati sauditi; oltre a quello dei regnanti sauditi,. È contraddittorio  che l’Arabia Saudita,  nonostante sia uno Stato nel quale la dottrina wahabita, contraria alle seduzioni del mondo occidentale, sia particolarmente radicata, abbia sempre mantenuto ottimi rapporti politici e d’affari con gli Stati Uniti. Analoghe posizioni anti-occidentali e di rifiuto di qualsiasi modernità si riscontrano nel movimento salafita. Il salafismo prende il nome dal termine arabo salaf al ṣaliḥīn (i pii antenati) che identifica le prime tre generazioni dei musulmani. Anche il Salafismo è di professione sunnita; il movimento fu fondato dall’egiziano Rashid Rida verso la fine dell’Ottocento. RR

Cosa pensano i Musulmani? Chi può parlare per loro? – 1.Introduzione (18-12-2017)

Uno dei temi più dibattuti quando si valuta la contrapposizione fra mondo occidentale e Islam (pur considerato in tutte le sue varianti) riguarda l’individuazione degli atteggiamenti e dei modi di pensare dominanti all’interno delle società islamiche. Naturalmente devono essere tenute al di fuori di questo scenario le manifestazioni del fondamentalismo violento che alimentano le derive terroristiche: le relative notizie, come tutte le altre che esulino dalla normalità, occupano ampio spazio nei mass media e quindi influenzano in maniera non obiettiva i messaggi che emergono dal mondo musulmano. Anche se non si aderisce alla visione dello scontro di civiltà fra Islam e Occidente corollario delle tesi proposte dal politologo americano Huntington[1], è indubbio che il vasto, complesso e diversificato universo musulmano sia caratterizzato da elementi di conflittualità con la società occidentale, strutturata sulla tradizione illuminista in tema di laicità e di tutela di libertà e diritti. Tanto premesso, ci si chiede se negli ambienti musulmani prevalgano pensieri estremisti o la moderazione; in altri termini ci si domanda in che cosa credano la maggioranza dei musulmani. Dai contesti islamici non provengono segnali omogenei. È noto il vergognoso episodio avvenuto nel novembre del 2015 prima della partita amichevole tra Turchia e Grecia in occasione della quale una frangia di tifosi turchi presenti allo stadio di Istanbul ha fischiato e urlato ‘Allah Akbar’ durante il minuto di silenzio osservato per le vittime degli attentati di Parigi avvenuti qualche giorno prima[2]. Nello stesso tempo in quei giorni però numerose comunità islamiche hanno manifestato per condannare quella strage. Il nome delle manifestazioni, Not in my name, derivava da una campagna lanciata dopo l'attentato alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo[3]. Not in my name equivaleva a dire: il mio Islam non è questo. Anche nelle reazioni dopo i fatti dell’11 settembre 2001 sono emersi atteggiamenti non univoci: in alcuni casi le comunità islamiche hanno preso le distanze da questo grave atto, in altri si è assistito a una significativa indifferenza o a veri e pro­pri festeggiamenti in luoghi pubblici (i mass media hanno diffuso immagini di gente in festa provenienti da Gerusalemme Est, da Nablus e dal Libano): questi  esternazioni hanno fatto dubitare che l’Islam in concreto sia una religione di pace. Le maggiori istituzioni islamiche hanno diffuso invece dichiarazioni di ferma condanna. A questo quadro va aggiunta l’esistenza di una maggioranza silenziosa di musulmani che integra le comunità che vivono in Europa. Premesso che ogni situazione andrebbe valutata specificamente, rimane il dubbio circa la natura di questo atteggiamento passivo, ovvero se l’assenza di reazione alla notizia di fatti terroristici equivalga ad una reale dissociazione, o a una scelta di convenienza dettata da esigenze pratiche di  convivenza, o ad un tacito assenso. Il combinato disposto delle politiche di integrazione con il monitoraggio dell’intelligence svolgono una funzione importante al fine di evitare le suggestioni della propaganda jihadista. In questo contesto va considerata  l’iniziativa delle istituzioni tedesche di creare nelle proprie università delle facoltà di Teologia islamica per formare chi pronuncerà i sermoni nelle moschee locali.  RR




[1] Alla tesi si oppone che l’Islam non può considerarsi un unico blocco essendo caratterizzato da correnti religiose in profonda  reciproca contrapposizione a parte la summa divisio fra Sunniti e Sciiti.
[2] Avvenuto il 13 novembre.
[3] Avvenuto nel gennaio 2015.


LA POSIZIONE DI TRUMP SU GERUSALEMME (11-12-2017)

Ha suscitato scalpore la decisione del presidente USA di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Al di là delle ovvie reazione di censura o di plauso a seconda dei punti vista, è opportuno chiedersi come siano cambiati gli equilibri geopolitici. Come primo effetto è montata una palese ostilità di tutto il mondo arabo compatto nel manifestare la propria avversione:  conseguentemente gli Stati Uniti potrebbero avere la necessità di rivedere la complessa politica nel Golfo, ovvero in concreto potrebbe essere opportuno ridefinire l’equivoca alleanza con la monarchia saudita e  ripensare i controversi rapporti con l’Iran, che cerca di accrescere la sua influenza nella regione mediorientale. La risoluzione non riguarda solo il Medio Oriente, ma si riflette su un universo più grande, innanzitutto sull’intero cosmo islamico, più di un miliardo di persone.  C’è di positivo che la questione palestinese – la relativa trattativa stava vivendo da anni un momento di stallo - ha riacquistato centralità nell’agenda internazionale, un’importanza che aveva perso a seguito delle vicende siriane. Trump ha cercato di ridimensionare questo passo, affermando che dal 1995 il Congresso aveva impegnato il Governo a compiere questo riconoscimento; temporeggiare per 20 anni non aveva avuto effetti positivi. Il presidente USA, se da una parte ha voluto dare un segno forte di appoggio ad Israele e alla politica di Netanyahu, nello stesso tempo ha precisato che questo gesto non equivale all’abbandono dell’impegno degli Stati Uniti per facilitare un durevole accordo di pace. Gli Usa restano favorevoli alla soluzione ‘dei due Stati’ non escludendo che una parte di Gerusalemme possa diventare la capitale palestinese. Anche se utopistico, sarebbe auspicabile uno ‘status’ neutro di Gerusalemme considerata la sua rilevanza per le tre religioni ‘del libro’ (ebraica, cristiana, musulmana). In conclusione, a parte i disordini che ne sono seguiti, la portata della decisione di Trump, dagli effetti ambigui, forse va ridimensionata. In questo caso avrebbe ragione chi ritiene che la determinazione sia motivata dalla necessità del governo americano di accreditarsi come imprescindibile attore internazionale dopo l’insuccesso siriano. RR


RADICALIZZAZIONE DELL'ISLAMISMO O ISLAMIZZAZIONE DEL RADICALISMO? (Su L’Azione dell’8 dicembre 2017)
Si è spesso affermato che gli attentati di matrice fondamentalista musulmana siano supportati da una visione radicale dell'Islam, cioè sono il risultato di una militanza confessionale che si avvale dell’uso della violenza con l'obiettivo di instaurare una società ispirata ai principi del Corano interpretati in maniera letterale. Questa tesi è comunemente sintetizzata con l'espressione radicalizzazione dell'islamismo. Dall'esame delle personalità degli autori di recenti stragi si è rilevato che essi spesso sono afflitti da problemi personali e da situazioni di disagio, che li confinano ai margini della società, vittime di un malessere e di un disorientamento causato dall'assenza di valori di riferimento. Questa condizione li espone a una vulnerabilità alla propaganda jihadista, che propone un modello che, seppur discutibile, si struttura su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il proprio senso di inadeguatezza. In sintesi, la contestazione radicale della società occidentale è esposta a un processo di islamizzazione, che può essere definito islamizzazione del radicalismo. Questa diversa lettura delle derive terroristiche individuali indica che la penetrazione della cultura islamica fondamentalista non è solo il risultato di una preordinata aggressione esterna, ma è anche la conseguenza di suggestioni che occupano il vuoto etico di una civiltà esposta ad ogni tipo di influenza, prostrata da una crisi che si declina nella cultura, privata della capacità di evolversi positivamente a causa della mancanza di una dialettica costruttiva fra le forze politiche. RR

NELLA BREXIT SCENARI INESPLORATI E FALLIMENTI DELL’UNIONE (su L’Azione del 1 dicembre 2007)
Rientra nei poteri di uno Stato membro decidere di ritirarsi dall'Unione Europea. La previsione in una disposizione del Trattato esclude che per la procedura di recesso ci si possa avvalere di altre azioni desunte dai principi del diritto internazionale. La Brexit, cioè il ricorso britannico a questa clausola, è il naturale esito del referendum consultivo del giugno 2016. I risultati, oltre a mostrare una spaccatura nel Paese giacché il voto favorevole all’uscita ha ottenuto solo il 51,9%, hanno evidenziato gravi problemi politici interni: gli elettori scozzesi infatti hanno votato con ampio margine per la permanenza nell’UE. Nel marzo del 2017 con la presentazione della relativa richiesta da parte del Governo britannico la procedura ha avuto inizio ufficialmente. Da quel momento si è evidenziata la necessità di negoziazioni per definire le regole della separazione e per delineare il quadro di riferimento per i futuri rapporti fra Regno Unito e Unione Europea. L'art. 50 del Trattato prevede che le prescrizioni comunitarie cessino di essere applicabili a decorrere dall’entrata in vigore delle intese propedeutiche al recesso; in mancanza di un accordo gli effetti dell'uscita si producono due anni dopo la notifica dell'istanza, salvo che il Consiglio Europeo decida di prorogare tale termine. Il processo strumentale alla Brexit ha avuto una pausa per le elezioni anticipate indette dal governo britannico nella vana speranza di ottenere un più solido consenso interno che potesse rafforzare la propria posizione politica in previsione delle negoziazioni, riprese poi nel luglio 2017 e tuttora in corso. Alcuni problemi pratici da risolvere. Sono 3 milioni i cittadini comunitari che risiedono nel Regno Unito e che quindi dovranno ottenere una residenza definitiva. Potrebbe essere previsto un periodo di permanenza di alcuni anni in seguito al quale si potrebbe conseguire il diritto di cittadinanza. Sarà sicuramente più complicato per i lavoratori e costoso per gli studenti trasferirsi nelle sedi britanniche. Nel bilancio europeo dovranno essere previste entrate che compensino l’apporto britannico. Anche la libera circolazione delle merci dovrà essere oggetto di specifiche trattative. In proposito è stato ipotizzato dalla stampa inglese che la Gran Bretagna possa chiedere di entrare nel Nafta, il trattato di libero scambio commerciale tra Stati Uniti, Canada e Messico. Si prospettano problemi anche sul fronte interno. La Scozia, ora che il governo inglese sarà libero dai vincoli di Bruxelles, potrebbe essere privata delle innumerevoli competenze che la devolution del 1997 le aveva attribuito. Perderà inoltre i fondi europei di cui finora ha largamente beneficiato. Il confine fra Irlanda del Nord e Irlanda, oggetto quotidianamente di un notevole passaggio di lavoratori, potrebbe eccezionalmente diventare una zona di libero transito, una specie di piccola ‘area Schengen’. Siamo sicuramente alla vigilia di cambiamenti epocali. L'Europa non si caratterizza solo per la sua dimensione territoriale, ma come teatro di vicende che si articolano in un comune contesto storico, culturale e politico. La 'Brexit' apre scenari mai esplorati; è il prodotto di aspettative deluse, di un malessere diffuso, di insuccessi imprevisti sui quali i 27 Paesi dovranno riflettere congiuntamente. RR

COME ESSERE UNA SUPERMADRE PALESTINESE (su L’Azione del 24 novembre)
Il network qatariota Al Jazeera ha di recente pubblicato un cortometraggio, How to be a Palestinian supermom, visibile anche su Youtube (https://youtu.be/T2G8tz0joQY), che mostra con crudo realismo alcuni aspetti della vita ordinaria nei territori palestinesi occupati (segnatamente Nabi Saleh, West Bank). In questo periodo esiste in Israele una frattura fra i rappresentanti dell’etnia ebraica e di quella palestinese e le rispettive basi popolari: alla rigidità delle istituzioni governative israeliane (ma anche dei leader palestinesi) corrispondono  numerosi segnali che provengono dalla società civile che esprimono il desiderio di una normalizzazione della vita quotidiana, che ha come premessa  la pacificazione. Tuttavia il tema del video non è politico, ma è la de-umanizzazione che si vive in queste difficili realtà. Con de-umanizzazione si intende l’esclusione di individui o gruppi dalla società non solo attraverso barriere fisiche ma anche con strategie psicologiche e sociali di delegittimazione, o con azioni di propaganda mediatica atte a sminuire e rendere meno umana una persona, cosicché la violenza su di essa possa essere più facilmente accettata. Vivere nei territori occupati significa essere continuamente sottoposti a controlli, non essere in grado di muoversi liberamente nella propria città, mostrare per ogni spostamento un documento al soldato di turno sperando che non sollevi problemi. Ancor più difficile - come mostra il video - è essere madre, cioè proteggere i figli mantenendo integra la propria vocazione islamica e di attivista. Essere madre nei territori occupati - si comprende dal video - significa spiegare la vita ai propri figli che hanno avuto amici o familiari picchiati, arrestati o in qualche caso uccisi dalla violenza etnica. RR


LACRISI DELL’ARABIA SAUDITA E IL TRAVAGLIO DEL LIBANO (pubblicato su L’Azione del 17 novembre 2017)

Il principe Mohamed Bin Salman, reggente dello Stato saudita ancora formalmente guidato dall’ultraottantenne padre, ha intrapreso una decisa azione per contrastare la corruzione. Nel corso dell’operazione sono stati arrestati miliardari, principi, ministri, membri della famiglia reale. Apparentemente si tratta di tentativi di cambiare il volto del Paese,cacciando corrotti e fondamentalisti wahabiti allo scopo di promuovere un Islam moderato. Questi provvedimenti giudiziari sarebbero propedeutici ad un progetto di moralizzazione finalizzato alla modernizzazione del Paese attraverso riforme radicali. In realtà queste clamorose iniziative sono articolazioni della lotta di potere in atto per la successione al trono: gli aspiranti sono più di una dozzina, e Salman sta cercando di liberarsi di scomodi pretendenti. L’attuale instabilità dell’Arabia Saudita conseguente all’attuale situazione istituzionale interna, oltre a preoccupare gli investitori, ha generato una grave crisi finanziaria causata dalla fuga dei capitali a rischio di congelamento da parte delle autorità. Nel contesto mediorientale l’Arabia Saudita sta vivendo un momento di difficoltà: di fatto ha perso la guerra in Siria, quella nello Yemen si è cronicizzata in un conflitto dagli esiti imprevedibili, la leadership regionale sunnita nell’area del Golfo è pericolosamente insidiata da quella sciita iraniana. Il tentativo di destabilizzare il Libano - che probabilmente è dietro alle strane dimissioni del primo ministro libanese Hariri mentre si trovava a Ryad - è quindi presumibilmente uno strumento della monarchia per riacquistare un ruolo internazionale di primo piano. ROBERTO RAPACCINI 


FLUSSI MIGRATORI ED ESPANSIONE DEMOGRAFICA MUSULMANA (su L’Azione del 10 novembre 2017)

Negli ultimi giorni sono giunti in Italia più di duemila migranti nonostante il progressivo calo dei flussi dalla Libia dopo che l’Italia ha stretto accordi con il governo di Fayez al-Sarraj. Molti di loro sono giovani convinti che l’Occidente, secondo l’immagine veicolata dai media e alimentata dai trafficanti (che per promuovere i loro affari hanno tutto l’interesse ad illudere i loro clienti), sia talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna. Questa convinzione si impone sui rischi del viaggio e sulla paura di morire prima di arrivare a destinazione. Negli ultimi due giorni oltre un migliaio di clandestini sono stati riportati a Tripoli e affidati alle agenzie internazionali che li accoglieranno e provvederanno al loro rimpatrio. Complessivamente gli sbarchi sono diminuiti sensibilmente (forse del 30%) rispetto allo stesso periodo di gennaio-ottobre del 2016. Il tema dell’immigrazione è strettamente connesso al timore di un’inesorabile espansione demografica delle etnie di religione islamica. Alcuni anni fa fu pubblicato in Rete ‘Muslim Demographics’, un cortometraggio di circa 7 minuti che diffondeva l’idea di un’Europa che presto sarebbe  diventata musulmana a seguito della fertilità delle famiglie islamiche, sempre più numerose a causa dell’incremento dei flussi migratori. Il tasso di natalità delle famiglie islamiche è infatti intorno all’8 circa, mentre quello medio delle famiglie dell’area comunitaria oscilla fra 1,2 e 1,3. Tuttavia nel caso in questione questa tesi allarmistica, radicata esclusivamente sulla simulazione di situazioni future in base a dati estrapolati dal passato, presenta punti deboli. Innanzitutto a distanza di una generazione i modelli riproduttivi tra le popolazioni ospiti e quelle ospitanti convergono su medesimi valori; ovvero, se il vantaggio riproduttivo degli immigrati di prima generazione sugli autoctoni è sensibile, per le successive discendenze la differenza si riduce fino a essere vicina allo zero, poiché le due componenti generazionali tendono a crescere alla stessa velocità. Questo trend si comprende se si tiene presente uno scenario più ampio che considera l'incidenza concreta di fattori ‘esterni’ come l’influenza di modelli familiari occidentali, i matrimoni misti, l’istruzione scolastica, le ristrettezze economiche, le difficoltà occupazionali, cioè  valutando gli effetti di componenti che determinano la discontinuità o la rottura con il passato. A conferma di quanto detto, in Francia nel periodo dal 1991 al 1998 il numero medio di figli nati da donne immigrate dal Maghreb era di 2,8 contro il 3,3 nei Paesi di origine; le percentuali di fertilità delle donne provenienti dal resto dell’Africa e di quelle di etnia asiatica erano rispettivamente di 2,9 e di 1,8 (contro il 5,9 e il 2,9 registrate nelle regioni di origine). Secondo le stime dell'autorevole agenzia Pew Center, poiché la popolazione musulmana è aumentata in Europa da 10,4 a 19,1 milioni tra il 1990 e il 2010 (in Italia da 0,8 a 1,5) con un tasso medio di incremento intorno al 3%, nel ventennio 2010-2030 i musulmani saliranno probabilmente a 30,2 milioni, con un incremento che scenderebbe a 1,5%. Potrebbe essere fondato quindi ritenere che l’incremento demografico della popolazione islamica si ridurrà gradualmente nel corso dei prossimi decenni. Sullo sfondo resta la sinistra profezia del defunto leader libico Gheddafi (pronunciata nell'aprile 2006): "Ci sono segni che Allah concederà la vittoria all’Islam in Europa, senza spade, senza armi, senza conquista.”RR


UNA SERATA COME TANTE (su L’Azione del 27 ottobre 2017)
Tra qualche giorno saranno cento anni dalla dichiarazione di Balfour, un passo importante verso la fondazione dello Stato di Israele. In occasioni come questa mi piace ricordare la serata di alcuni anni fa, che mia moglie ha descritto in uno dei suoi racconti dal quale ho estratto alcuni stralci, che esprimono efficacemente il clima discreto nel quale vivono gli appartenenti alla comunità israelitica a Roma, la riservata profondità dei loro reciproci rapporti, il radicato legame con la loro patria ideale. Eravamo al Teatro dell’Opera, si celebravano 25 anni dalla nascita di Israele. Al Ministero dell’Interno ho lavorato in un ufficio che tra le sue competenze si occupava della sicurezza delle sedi diplomatiche straniere in Italia. Da qui alcuni contatti con i collaterali colleghi stranieri, anche israeliani. "... in quel periodo gli incarichi di mio marito ci portavano spesso a Roma, ospiti di ambasciate, di spettacoli teatrali, di cene al Grand Hotel. Stasera si va al teatro dell'Opera ... in un paio d'ore eravamo lì, pronti a trascorrere una serata come tante. Ma qualcosa di profondamente diverso già mi colpì nella fila per entrare: così composta e ordinata. Centinaia di persone silenziose che si salutavano con minimi cenni del capo. Tutt'al più qualche sorriso. Sembrava si conoscessero tutti. Dopo aver esibito gli inviti, un giovane, deferente, ci accompagnò ai nostri posti riservati... di fronte al grande palco che si andava popolando di strumenti e di musicisti. Da qui non ci perderemo niente, pensai. E così andò. Poco dopo iniziò la serata e solo allora appresi dalla voce commossa e asciutta di Arnoldo Foà che si commemoravano i cinquant'anni della fondazione dello Stato di Israele. Venivano proiettati stralci di filmati d'epoca: testimonianze di vita vissuta, morte annunciata, sofferenza, disperazione e speranza... ricordo la foto ingiallita di un gruppo di deportati. In primo piano una bambina rinsecchita che per nulla aveva rinunciato alla sua innata civetteria e davanti all'obiettivo sfoggiava il suo sorriso migliore. Chissà perché i bambini, davanti ad una macchina fotografica, si mettono sempre in posa e sorridono! Il resto furono cose note a tutti: ossa, cadaveri, divise a righe, occhiali, denti, forni e fumi. Uscimmo composti così come eravamo entrati. Niente taxi per tornare alla macchina. Niente parole. Tutto era diventato stupidamente superfluo. Solo il rumore dei nostri passi che ci ancorava saldamente alla terra... " RR

IL MARTIRIO DEI CRISTIANI NEL QUADRO DELLE RELAZIONI CON I PAESI ISLAMICI (su l'Azione del 20.10.2017)
La Storia del Cristianesimo è stata segnata da persecuzioni fin dall’inizio. Tuttavia le violenze di questi anni – come spesso ammonisce Papa Francesco - sembrano essere più gravi e numerose di quelle che si sono consumate in passato. Un noto giornalista ha precisato che se il martirio non è sufficiente a conferire grandezza alla vittima, basta però ad attribuire i connotati del criminale a chi lo infligge[1]. Se si considera che questo accade in alcuni dei Paesi asiatici e del continente africano nei quali la legge coranica è direttamente o indirettamente fonte di diritto, viene naturale affermare che è in atto un conflitto di religione fra Islam e Cristianesimo; questo confronto sarebbe uno corollario dello scontro di civiltà ipotizzato da Huntington. Sul piano geopolitico la contrapposizione si tradurrebbe in un contrasto fra Paesi islamici e Occidente cristiano. Alcune precisazioni dimostrano l’infondatezza di questa tesi. Prescindendo dal fatto che l’Islam è caratterizzato da tante correnti con punti di vista divergenti e dall’assenza di un’autorità sovraordinata in grado di esprimere posizioni ufficiali, la religione musulmana e il Cristianesimo hanno una natura profondamente differente che li rende incomparabili: l’Islam infatti è anche un’ideologia politica, e perciò determina la natura confessionale degli Stati nei quali si afferma. Al contrario in Occidente il Cristianesimo nelle sue varianti può solo influenzare le scelte governative: raramente si impone come religione di Stato in quanto il carattere pluralista, democratico e liberale della società è incontrovertibile. Diversamente da quanto proclama la retorica islamista, non è corretto definire ‘cristiano’ il mondo occidentale. Nei Paesi occidentali è forte l’influenza illuminista e quindi è particolarmente radicata la natura laica delle istituzioni; inoltre, in relazione alla capillare diffusione di un’etica relativistica e alla conseguente perdita di valori di riferimento univoci, il Cristianesimo, diversamente dai secoli scorsi, non può più essere considerato un centrale fattore identitario. Va aggiunto che gli esiti delle conflittualità fra Islam e Cristianesimo hanno carattere asimmetrico in quanto alle ostilità nei confronti dei Cristiani in alcune regioni con una popolazione a maggioranza musulmana, non corrisponde un analogo atteggiamento dei Cristiani nelle situazioni opposte. Sembrerebbe più fondato affermare che esistono Paesi nei quali vige una forte e manifesta intolleranza religiosa, in genere di matrice islamista, spesso avallata da regimi compiacenti.  Concettualmente le religioni, seppur differenti, dovrebbero essere fattori di unione fra gli uomini, e non di divisione. Sembra invece che oggi si stia avverando la profezia di Tocqueville, che diceva che la religione, se si allea con la politica, aumenta il suo potere su alcuni uomini ma perde la speranza di regnare su tutti. Roberto Rapaccini

[1] Indro Montanelli.

CATALOGNA: AUTONOMIA O INDIPENDENZA? (su L'Azione del 6 ottobre)
A parte le reazioni emotive, non è facile pronunciarsi obiettivamente sul non negoziabile contrasto fra la Generalitat de Catalunya  (le istituzioni amministrative autonomistiche della Catalogna) e il governo centrale spagnolo. Sicuramente il primo termine di riferimento per affrontare la questione sono le norme di diritto internazionale vigenti. In proposito però si deve tenere presente l'incidenza su di esse del principio di effettività; il principio di effettività si fonda sulle valutazioni attribuite dalla comunità internazionale alla situazione che si è concretamente determinata, che possono divergere dal giudizio formulato asetticamente in base al formalismo dei  parametri normativi. Un esempio: i moti rivoluzionari se esitano positivamente nella costituzione di uno Stato o in un cambiamento di regime, sono considerati spesso legittime realtà fondative di una nazione; se invece sono repressi e falliscono vengono inseriti nell'ambito dei tentativi eversivi illegittimi. In altri termini, nel diritto internazionale non raramente la legalità  scaturisce dalla situazione concreta ed effettiva che si è consolidata, e dal giudizio della comunità internazionale, che non sempre coincide con quanto prescritto dal diritto. Ciò premesso, nello scontro in atto nella penisola iberica sono contrapposte a prima vista due posizioni soggettive: il diritto all'autodeterminazione della Catalogna e il diritto all'integrità territoriale della Spagna. L'autodeterminazione è il principio - sancito in  documenti e trattati internazionali - in base al quale i popoli hanno il diritto di scegliere liberamente e in autonomia il proprio sistema di governo. Il principio fu formulato per dare supporto ai moti di decolonizzazione, ovvero per proteggere i popoli  dall'occupazione straniera e giustificarne le reazione volte a mantenere o a ristabilire la propria sovranità. Il principio era anche un mezzo per garantire ai popoli sottomessi al dominio coloniale di recuperare la propria indipendenza. In altri casi - come nella fattispecie in questione -  le rivendicazioni secessioniste di una comunità sono interne ad uno Stato, e si rivolgono nei confronti dell'autorità centrale. In queste ipotesi le pretese dovrebbero esitare solo in una più soddisfacente autonomia e non nell'indipendenza: diversamente gli Stati nazionali in forza delle istanze locali sarebbero facilmente e sovente esposti a processi di smembramento. Si deve pertanto concludere che l'affermazione del principio di autodeterminazione all'interno di uno Stato sovrano generalmente non richiede la secessione dallo Stato centrale, ma la concessione di più ampi poteri autonomistici. Perciò in base a quanto esposto sembrerebbe che sul piano del diritto internazionale la Spagna resista legittimamente alle istanze indipendentiste della Catalogna. Questo naturalmente non preclude un giudizio di grave censura sulle modalità ingiustificatamente violente e autoritarie adottate dalle forze dell'ordine del governo spagnolo per reprimere le velleità indipendentiste catalane. RR

UN PO’ DI ORDINE NEL CAOS IRACHENO (su L’Azione del 29 settembre) 
L’Iraq ha un’importanza centrale negli equilibri del vicino oriente. Dopo la guerra con l’Iran, iniziata nel 1980, il Paese affrontò una difficile crisi economica. Nel 1990 il deterioramento dei rapporti con il Kuwait fu all’origine della ‘Guerra del Golfo’ – che si concluse con la sconfitta delle truppe irachene - alla quale seguirono le accuse statunitensi di sostenere il terrorismo internazionale e di possedere un arsenale di armi chimiche, batteriologiche e nucleari, costituendo così una minaccia per la comunità internazionale. Per questo motivo – che si rivelò poi infondato - nel 2003 gli Stati Uniti, a capo di una coalizione di alleati (formata da 28 Paesi, compresi 9 arabi), intervennero in Iraq, e dopo una lunga e logorante guerra posero fine al regime di Saddam Hussein. Iniziò un periodo di grave instabilità. Dilagarono violenze di ogni genere aggravate da divisioni politiche, religiose ed etniche, ovvero fra Sunniti, Sciiti e Kurdi. Nel 2011 gli Stati Uniti decisero di ritirarsi dal Paese, che era tutt’altro che pacificato: i diversi governi che si erano succeduti dal 2005, anno nel quale si tennero le prime elezioni - e quelli successivi al 2011- non riuscirono a ripristinare la normalità, l’ordine e la sicurezza pubblica. Nel giugno 2014 venne proclamata la costituzione di uno Stato Islamico sui territori della Siria e dell’Iraq che erano caduti sotto l’influenza di un gruppo di jihadisti, che nominarono come loro leader il ‘califfo’ Abu Bakr Al Baghdadi. Dopo alterne vicende l’offensiva militare irachena conseguì una progressiva riduzione dei territori dello Stato Islamico; nel giugno 2017 alcune istituzioni irachene troppo ottimisticamente dichiararono la definiva disfatta dello Stato Islamico. In realtà, l’ISIS, quando verrà definitivamente sconfitto e quindi privato del suo territorio, rimarrà un’organizzazione terroristica che, sebbene frammentata e ridimensionata, sarà in grado di esercitare la sua influenza destabilizzante. Attualmente il presidente del Paese è Fu’ad Ma’sud di origine curda, mentre il primo ministro è Haydar al-'Abadi. Il 25 settembre scorso nel Kurdistan iracheno si è tenuto uno storico referendum consultivo - perciò non vincolante – sull’indipendenza da Baghdad, promosso dal presidente della regione autonoma curda Masoud Barzani. L’esito fortemente favorevole all’opzione indipendentista apre scenari problematici, suscitando le preoccupazioni non solo delle autorità irachene, ma anche delle potenze confinanti Siria, Iran e Turchia, che ospitano consistenti comunità curde. La consultazione referendaria – come auspicano i promotori - dovrebbe essere il presupposto per la negoziazione di un distacco dall’Iraq e la nascita di uno stato indipendente. Sono lontani i tempi in cui il noto leader militare e politico Abd Al-Karim Qasim (1914 - 1963) sosteneva che il popolo iracheno consiste di etnie fraterne che si sono amalgamate per difendere l'esistenza di questa eterna nazione. RR

Luci e ombre nel cammino verso la democrazia – Albania, dopo le elezioni di giugno 2017 DI ALBERTO FRASHER

 Siamo a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino. Un evento epocale che avrebbe dovuto spianare la strada verso la democrazia ai tanti paesi dell’Est Europa. Si tratta di molti paesi e nazioni, vittime a pieno titolo, della seconda guerra mondiale. Loro non avevano conosciuto né sognato il comunismo come ordine di giustizia e di progresso, ma purtroppo furono gli accordi del dopoguerra a decidere le loro sorti. Sofferenti e rassegnati, umiliati e violentati nelle loro identità culturali, vissero un letargo di mezzo secolo e una delle forme più spietate dei totalitarismi del secolo scorso. La loro esistenza fu nient’altro che un triste calvario di privazioni su ogni aspetto della vita. Ogni minuscolo frammento della vita era dominato dal primato di un’ideologia che non condividevano, ma che riuscì a vigilare le loro anime e di censurare i loro pensieri. Fu una totale alterazione di intere nazioni e delle loro tradizioni culturali. La religione subì persecuzioni inaudite per lasciar spazio libero alla propaganda e all’ideologia del regime. Per i totalitarismi dell’Est Europa la distribuzione della povertà in porzioni uguali avrebbe dovuto rendere felice e libero il cittadino. Felicità e libertà virtuali.  Erano solo in pochi a ritenere difficile il loro cammino verso una reale democrazia. Il progresso e la democrazia, invece, non si possono costruire in un batter d’occhio a prescindere dalla realtà culturale della nazione. Questo, penso, succede perché pure l’ideale della democrazia di un qualsiasi paese si matura nell’ambito dell’universo filosofico e culturale della sua nazione. In Albania i più grandi nuovi partiti facevano capo a ex comunisti mai pentiti. In tutti i paesi dell’Est, la formazione culturale dei cittadini risentiva profondamente i limiti posti dall’ideologia dominante del totalitarismo. I nuovi partiti erano guidati da leader, la cui formazione culturale era di stampo comunista nei metodi di lavoro che non conoscevano la collegialità e neanche la tolleranza. Oggettivamente non era facile scegliere, fare da zero una classe politica in grado di guidare il cammino verso la democrazia. Nel 1993 pubblicai un articolo sulla transizione dell’Albania dal comunismo alla democrazia, nella rivista dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma. In quel occasione ebbi una lunga conversazione 2 con il direttore dell’Istituto. Mi disse che avevano la disponibilità di un finanziamento per creare a Scutari un istituto universitario in grado di sostenere la formazione di una nuova classe politica per il paese, quindi una facoltà di studi politici e di filosofia. Avevano aspettato inutilmente l’approvazione del progetto da parte del governo albanese senza mai una risposta. Allora, mi disse il direttore, deragliamo il fondo in Romania, il cui governo ci mise subito in condizioni di realizzare il progetto. La formazione di una classe politica all’altezza delle esigenze di una società democratica era e continua a essere un serio problema per il paese. L’Albania rappresentava una delle forme più caratteristiche dei totalitarismi dell’Europa Orientale. Disumano e ermeticamente chiuso a ogni apertura culturale. Nonostante le difficoltà, i governi hanno fatto varie riforme, necessarie in via di principio, ma molto frettolosamente e con errori non trascurabili. Le privatizzazioni, per farne un esempio, hanno premiato visibilmente i ranghi degli ex comunisti e non hanno fatto attenzione alle capacità produttive esistenti. Inevitabile la conseguenza logica di un sensibile aumento della disoccupazione. Nella fase iniziale i nuovi ricchi non erano interessati al consolidamento di un eventuale stato di diritto, poiché sarebbe andato subito in conflitto con le loro ambizioni del momento. Diceva un mio amico ricercatore: “Quando i nuovi signori avranno consolidato le loro ricchezze, vorranno vivere in uno stato di diritto, per non rischiare i loro trofei.” Sostanzialmente questo è successo quasi in tutti i paesi dell’Est Europa. L’Albania ha visto una crescita considerevole del suo prodotto interno lordo e questo per il merito indiscusso dei suoi cittadini, che sin dalle prime battute si sono organizzati in imprese piccole e grandi facendo uso intelligente delle opportunità che il mercato dei paesi occidentali offriva. Probabilmente nella concorrenza del mercato interno ha avuto migliori risultati la fascia dei cittadini ben istruiti. Secondo una statistica del 2010 risultava che tra i primi cento imprenditori più ricchi del paese circa novanta erano laureati. Probabilmente nella fase iniziale dello sviluppo economico del paese il principio di merito ha avuto un ruolo importante. Il settore delle costruzioni edili ha vissuto una crescita enorme, ma spesso procurando danni notevoli agli aspetti urbanistici dei centri abitati. Nei primi 25 anni, dopo il crollo indecoroso del regime 3 totalitario, l’Albania è riuscita a moltiplicare la sua rette stradale e molte altre infrastrutture. Oggi il settore dell’edilizia in un anno costruisce più abitazioni per i suoi cittadini di quanto non avesse costruito l’ancien régime in quarant’anni. La qualità media della vita ha subito una crescita rilevante, mentre aumenta l’inquinamento ambientale. Il vero problema dell’Albania credo che sia l’attività della classe politica e la corruzione dilagante che ne deriva, nel bene e nel male. Livelli preoccupanti di corruzione compromettono gravemente il presente e anche il futuro del paese. Il binomio di questi due aspetti, sostanzialmente, ha un rapporto conflittuale con la società. Il cittadino, a sua volta, è pienamente consapevole del suo ruolo importante e anche del male che una gestione impropria del potere e la conseguente corruzione possano procurare alla nazione. La vita politica è caratterizzata da una litigiosità continua e dall’incapacità di poter condividere idee e progetti che riguardano aspetti fondamentali della vita della nazione. La litigiosità è anche figlia dell’incapacità di dialogare e di rispettare il pensiero diverso dal tuo. Basterebbe far riferimento alla saggezza popolare. I canoni medioevali dei principati albanesi chiedono ai suoi cittadini di non amare l’avversario, ma di doverlo rispettare. Due o più partiti giustificano la loro presenza nella vita politica del paese in virtù delle differenze che segnano l’individualità di ciascuno. I partiti, però, non possono governare il paese se non hanno, oltre le differenze, anche idee in comune. L’assenza delle idee e dei progetti condivisi rende caotica la realtà socio economica del paese. Il governo di oggi distrugge quanto i governanti di ieri abbiano fatto. Così si avrà una sequenza fatale che ci riporta in mente la tela di Penelope, il celebre stratagemma narrato da Omero. Il moltiplicarsi dei partiti e la loro litigiosità sembra essere un sintomo preoccupante della vita politica non solo dell’Albania, ma anche di tanti altri paesi. Da dove arrivano le idee e i progetti per oggi e soprattutto per il futuro del paese? Credo che non sia difficile individuare il radicamento della vita politica nell’universo filosofico e culturale della nazione, come il fondamento che determina e definisce il profilo di un partito. Non è la politica a definire il futuro del paese. Gli ideali di una nazione nascono come espressione delle tradizioni secolari e fondano le loro radici nella propria identità che, a sua volta, è la più eloquente immagine dell’universo culturale della nazione. Allora se i partiti si riconoscono negli ideali della nazione, non avranno difficoltà di individuare idee, percorsi e progetti condivisi per il futuro della nazione. 4 Questo è un grande problema della vita di una nazione e non riguarda solo l’Albania. Quest’ultima, però, ne ha un’esigenza particolare. Gli albanesi sono una delle nazioni più antiche del continente e parlano una lingua che non è slava né latina, ma molto originale e che insieme all’armeno costituiscono le prime due lingue più antiche del gruppo indoeuropeo, come indicato dall’albero genealogico inserito nella pubblicazione “Websters New Twentieth Century Dictionary” [2a edizione, William Collins and World Publishing Co., inc., London 1975]. L’arcivescovo francese Brocard dell’arcidiocesi di Tivar (NordAlbania) in una relazione dell’anno 1332, scritta in latino e trovata nella Bibioteca Nazionale di Parigi, sottolineava: “La lingua albanese è completamente diversa dal latino, ma nei loro libri gli albanesi usano il carattere latino.” Lo storico di Scutari, brillante umanista del XV secolo, nella sua opera “Assedio di Scutari” (1508) parla di libri in albanese del XIII secolo. Purtroppo la classe politica non ha una piena consapevolezza del background storico culturale della nazione e, spesso, anche buona parte dei cittadini. Il missionario italiano Severino Consolaro, dopo una permanenza di dieci anni in Albania, nel 2005 scriveva: “Nell’Albania di oggi la vera povertà non è la fame; io vedo una nazione tranquilla, non ricca né particolarmente povera, ma con tanta dignità. A volte si ha l’impressione che egli abbiano perduto la memoria storica sui potenziali umani notevoli che hanno, anche se nei secoli questa terra è stata esempio di coraggio, di eroismo e di santi. In questo meraviglioso Paese non esistono differenze. Sant Antonio ha unito in un'unica comunità: cattolici, ortodossi, musulmani e bektascì, tutti insieme.” Perché analizzare anche aspetti di ordine storico e culturale? Ci sono paesi e nazioni che attraversano crisi apparentemente economiche, ma il loro protrarsi nel tempo significa la presenza anche di una componente culturale tra i motivi delle crisi. Una nazione ha bisogno di esperienze e modelli di altri paesi più evoluti, ma non può mai ripetere mot à mot modelli e schemi standard senza far riferimento alle sue radici culturali. Tra tutti i paesi occidentali, per fare un esempio, non esistono due realtà identiche. Questo succede perché ogni sistema, teoricamente ammissibile, non può dare frutti in un determinato paese se non è compatibile con la realtà culturale della sua nazione. Il pomodoro, se vogliamo, conosce tantissime specie, ognuna formata compatibilmente con un determinato terreno e un particolare clima. Nel mondo di oggi le società sono assai più complesse del passato. Ho l’impressione che non sia cosa facile avere una classe politica che abbia la necessaria compatibilità con l’universo culturale della 5 nazione. Al di fuori di questa compatibilità difficilmente un governo può guidare la nazione verso gli ideali della democrazia e dello sviluppo. Le elezioni di giugno in Albania sono state difficili e senza un minimo di dialogo sereno e costruttivo tra i partiti maggiori. Sono gli stessi leader, sulla cresta dell’onda da almeno un ventennio e che i cittadini continuano a dare loro la fiducia. Dobbiamo sperare in un miglioramento dell’azione politica non solo nel campo strettamente economico, ma anche e soprattutto culturale. Perché il futuro trova il suo sostegno nel passato, secondo George Orwell, quindi nell’universo culturale della nazione. Un problema clou delle aspiranti democrazie è senza dubbio la formazione delle nuove generazioni. Intendo la formazione culturale che ha come strumento fondamentale la scuola. La verità è che mai i problemi della scuola hanno fatto parte del dibattito politico durante le campagne elettorali. Perché la scuola? Samì Fràsheri (1850–1904), filosofo, linguista e una delle figure più importanti del Rinascimento Nazionale Albanese, considerava di fondamentale importanza il problema della scuola. Una sua massima esprime il ruolo della scuola per lo sviluppo di una nazione, anche se nel suo tempo in Albania c’erano già anche scuole e classi comuni per maschi e femmine. Scriveva S.Fràsheri: “Se volete una buona raccolta per la prossima stagione seminate il grano, ma se volete prosperare per i prossimi cento anni, costruite buone scuole.” Questa convinzione ha delle radici profonde nella saggezza della nazione. Già dal XVI secolo i vescovi della chiesa cattolica albanese, P.Budi e P.Bogdani, nei loro scritti ritenevano l’ignoranza causa principale dell’infelicità e della povertà dell’Uomo. Il vescovo cattolico G.Buzuku tradusse in albanese e pubblicò il Messale. Correva l’anno 1555. Nei primi anni del Seicento il vescovo P.Budi ordinò ai parroci della sua diocesi di fare le preghiere in albanese. «Dio, disse lui, vuole conversare con i fedeli solo nella lingua materna.» Nell’immaginazione collettiva, come dai proverbi medioevali, “l’Uomo con la penna è più venerato dell’Uomo con fucile”. Questa interessante sensibilità trova conferma nei codici medioevali provenienti da diverse città o principati, come Drisht, Scutari, Beràt, Prizren, ecc. Nel capitolo XLI del codice della città di Drisht (sec. XIV) troviamo le norme che garantivano aiuti ai giovani che frequentavano sia le scuole pubbliche, che quelle private. La saggezza delle tradizioni popolari ha da sempre trasmesso alle nuove generazioni la forte convinzione sul primato della scuola. Per 6 l’Albania, che appena ha lasciato alle spalle cinque secoli di dominio ottomano feroce e mezzo secolo di totalitarismo spietato, il ruolo della scuola è fondamentale, quindi non può essere dimenticato nel silenzio colpevole della politica. La cittadinanza osserva impotente e amareggiata il declino della scuola. Molti specialisti europei, e non solo, hanno offerto modelli di riforma per la scuola albanese che loro non hanno potuto conoscere, soprattutto gli aspetti culturali e la relativa tradizione. La scuola, in questo modo, ha subito cambiamenti che non trovano un equilibrio né armonia con la tradizione né con il suo tessuto culturale. Le scuole dei paesi occidentali sono simili per quanto riguarda i contenuti nelle materie scientifiche e la conoscenza dell’illuminismo e dell’identità culturale europea. D’altronde non esistono due sistemi educativi identici, poiché ogni nazione orienta la scuola verso il proprio universo filosofico e culturale. Le scuole, tedesca e francese, olandese e svedese sono ben distinte a causa dell’aspetto culturale la cui componente nazionale resta fondamentale per ogni sistema di educazione. In Albania questo non è successo e la scuola continua perdere colpi nell’indifferenza imperdonabile della classe politica. I regimi totalitari non hanno mai trasformato i sistemi d’istruzione pubblica in macrosistemi di educazione, dove la formazione del cittadino di una società emancipata e democratica sia uno dei compiti principali. Solo una scuola così concepita può garantire la formazione dei giovani come cittadini liberi e indipendenti in grado di comprendere le esigenze di una società democratica e di poter valutare l’operato della classe politica. L’emancipazione e la democratizzazione della società necessitano una scuola libera, non indottrinata. Il cittadino con una formazione culturale scarsa diventa facile preda della propaganda dei partiti e del potere; lui è meno consapevole delle libertà individuali. La democrazia è un ideale che ha bisogno dell’armonizzazione delle libertà individuali con lo stato di diritto. Ed è in questo equilibrio, appunto, che consiste il fulcro della democrazia, di cui il pluralismo è uno degli aspetti principali, non inteso nel sua natura ideologica o politica, ma soprattutto culturale. Io mi auguro che il cittadino abbia nel futuro un ruolo consapevole e qualificato da poter incidere sulle scelte della classe politica. Io voglio credere che il giovane albanese si meriti un futuro prospero e sereno in armonia con le ricche tradizioni storiche culturali e con i potenziali umani notevoli della sua nazione. ALBERTO FRASHER








Femminismo islamico, forza inesplorata del mondo arabo (su L’Azione del 22 settembre) 


Il mondo musulmano – ovvero l’insieme degli Stati nei quali le disposizioni coraniche influenzano con diversa intensità le leggi - ha una potenzialità inesplorata: il contributo positivo che le donne potrebbero fornire alla vita sociale, economica e politica dei loro Paesi. La condizione femminile al contrario è penalizzata dai precetti islamici declinati in modo diverso a seconda delle correnti maggiormente diffuse nella relativa regione: è inquietante che questo status di inferiorità sia spesso vissuto con pacifica rassegnazione, cioè sia considerato la conseguenza di una situazione culturale consolidata, ordinaria, e quindi inevitabile. Paradossalmente, se si esplorano i rapporti di genere nella società araba preislamica (fino al VII sec.), si scopre che Maometto ha migliorato la condizione delle donne prevedendo in loro favore diritti fino ad allora inesistenti (il loro contenuto concreto previsto nel Corano è tuttavia limitato rispetto a quanto in vigore per l’uomo). Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in Paesi come l’Iran e il Marocco si è affermato un timido movimento femminista: a fondamento delle rivendicazioni femminili si è sostenuta la necessità di una corretta esegesi del Corano, che sancirebbe la sostanziale uguaglianza fra uomo e donna. Pertanto questo movimento femminista – similmente a quanto avviene in analoghe situazioni nel mondo arabo – non critica o contesta l’Islam, ma auspica una corretta interpretazione che ne recuperi lo spirito originario. Le donne islamiche non si sentono vittime dell’Islam, ma dell’affermazione di un sistema patriarcale che è il risultato di vicende storiche: sono convinte - diversamente da quello che si sostiene in occidente - che l’Islam garantisca loro sufficienti diritti e opportunità. Non sarebbe il Corano ad imporre la sottomissione femminile, ma gli uomini mediante erronee letture e manipolazioni dei testi sacri. Il rapporto con la religione è ciò che maggiormente differenzia questo movimento rispetto al femminismo occidentale: mentre il femminismo islamico infatti svolge la sua funzione senza rinnegare il proprio retaggio confessionale – avvertendo tuttavia la necessità di una ridefinizione di alcuni valori fondanti per liberare l’Islam dalle sovrastrutture che lo hanno allontanato dai contenuti originari – quello occidentale ha radicate connotazioni laiche. In questo contesto culturale il ritorno all’uso del velo da parte di giovani donne musulmane europee può essere considerato il simbolo di una ritrovata moderna identità femminile islamica, mentre l’affermazione di donne come Benazir Bhutto in Pakistan prova l’importanza delle potenzialità delle donne nei contesti islamici nonostante la loro generale concreta subalternità. RR 

L’UNIONE, SOGNO INCOMPIUTO & PREZIOSA OPPORTUNITA’ (pubblicato su Studi Cattolici di settembre 2017)

 Introduzione
Gli ultimi lustri del XX secolo e l’inizio del XXI sono stati caratterizzati da grandi cambiamenti. Con la caduta del muro di Berlino (1989) e la conseguente disgregazione del blocco sovietico, è venuto meno l'antagonista per il quale era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sul precario equilibrio Usa-Urss (l’Europa occidentale era saldamente integrata nel fronte americano), era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare caratterizzato da uno stato permanente di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa rimasta di fatto l'unica reale superpotenza. La contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islam non è soltanto una religione ma è anche un’ideologia politica. Da questa contrapposizione si sono poi sviluppati la deriva jihadista e il terrorismo di matrice islamica. A tutto questo si è aggiunta la difficile individuazione di una strategia efficace per il contrasto della pressione dei flussi migratori provenienti dal nord Africa.  Queste contingenze sono fonti di emergenze che mettono a dura prova la coesione dell’Europa.

La dittatura delle minoranze
Negli Stati democratici occidentali il principio cardine è quello di maggioranza, in base al quale nell’assunzione delle determinazioni di governo la volontà espressa dai più deve essere considerata come il volere di tutti. Per evitare gli abusi delle maggioranze il principio maggioritario è sottoposto a correttivi a tutela delle minoranze. Un intellettuale libanese, spesso controcorrente, Nassim Nicolas Taleb, con un recente saggio[1] ha rilevato che i regimi occidentali attualmente sono soggetti ad un rischio opposto, ovvero a quello di essere eccessivamente condizionati dalle minoranze, che si affermano in virtù di un malinteso uso della democrazia. Attraverso alcuni rilevamenti empirici lo studioso ha concluso che alcune minoranze particolarmente attive e intransigenti necessitano solo di un’esigua percentuale (3-4%) per imporre con le loro rimostranze le proprie preferenze all’intera popolazione. Così l’improbabile può governare la nostra vita. Nello stesso tempo si produce un altro effetto, ovvero che quelle scelte sembrino volute dalla maggioranza stessa. Tali possibili derive dell’ordine democratico possono limitare l’intera collettività: questo avviene quando vere e proprie corporazioni, come specifiche categorie di lavoratori o di professionisti, per perseguire i propri obiettivi causano disagi a tutta la comunità. Ma le istanze di pochi possono anche condizionare le dinamiche istituzionali: non è raro infatti che piccoli gruppi politici con iniziative ostruzionistiche paralizzino l’iter parlamentare di provvedimenti normativi o ostacolino il normale svolgimento delle attività istituzionali. Tutto nel rispetto formale delle regole vigenti. Senza entrare nel merito delle specifiche questioni, queste condotte sono un corollario dell’assenza di un maturo senso dello Stato: nei momenti di crisi sarebbe opportuno sforzarsi di anteporre la prioritaria esigenza di un dialogo costruttivo fra poli opposti agli interessi di parte strutturati su differenti presupposti ideologici. Inoltre una vera democrazia non deve diventare lo scudo di chi vuole imporre con la forza la propria volontà. Paradossalmente il potere di una minoranza non sempre ha un esito negativo, ovvero l’egoistica ipertutela di interessi particolari: la creazione o l’evoluzione di valori morali nella società infatti non necessariamente deriva da una più ampia base di consenso su di essi, ma può scaturire anche dalle iniziative di un ristretto numero di persone che con consentite pressioni impongono a tutti una maggiore rettitudine. Il potere delle minoranze, secondo le deduzioni politicamente scorrette di Taleb, troverebbe fondamento in un’eccessiva tolleranza e flessibilità della maggioranza. Forse questa dinamica è anche conseguenza dell’avvento della post democrazia, che ha come corollario una generale crescente passività e disaffezione dei cittadini. Come è stato rilevato da un politologo britannico[2] nei sistemi occidentali si stanno instaurando prassi che comportano una progressiva diminuzione di interesse per le vicende delle istituzioni. In un tale contesto si afferma un individualismo che impedisce l’emergere di una definita coscienza collettiva: la democrazia si avvia al tramonto mentre la società civile è sempre più lontana dalla società politica.

Delusioni e speranze
Il 25 marzo scorso (2017) si sono festeggiati 60 anni dagli accordi istitutivi della Comunità Economica Europea. Gli anniversari sono sempre occasione per un bilancio. Questa ricorrenza è caduta in un momento di crisi delle istituzioni comunitarie. È oggetto di riflessione innanzitutto l'influenza che negli ultimi tempi hanno esercitato le scelte finanziarie della Germania, che, per favorire la propria economia, ha promosso una politica di austerità imponendo ai Paesi membri pesanti manovre fiscali e tagli alla spesa pubblica. La conseguente spinta deflazionistica ha prodotto una riduzione della circolazione del denaro e una contrazione dei consumi, cause di una generale recessione economica e di un diffuso impoverimento. L'Unione Europea ha inoltre intrapreso con disinvoltura un allargamento verso ‘est’ passando in poco tempo da 15 a 28 Stati senza che si realizzasse una reale reciproca integrazione. In qualche occasione i nuovi Paesi hanno evidenziato un'assenza di cultura della solidarietà, componente indissolubile dello spirito comunitario. Molte aspettative che i Trattati avevano alimentato sono rimaste deluse. Con l'Accordo di Maastricht (1992) l'Europa, che in quel momento era solo una realtà economica, sarebbe dovuta diventare un'istituzione politica; questa evoluzione, che aveva come presupposto la cessione da parte di ciascun Paese di una quota della propria sovranità, non si è sufficientemente realizzata a causa di alcune egoistiche resistenze nazionali.  L'introduzione della moneta unica non preceduta dalla creazione delle opportune sovrastrutture ha penalizzato alcune economie, quella italiana in particolare. Il ritorno alla lira tuttavia comporterebbe pericolosi dissesti finanziari. L'ingresso nell'Euro e più in generale nell'Unione Europea ha avviato processi irreversibili che non consentono un indolore ritorno al passato. Va ripristinato il ruolo di governo della Commissione Europea, che da esecutivo comunitario si è trasformata nel tempo in uno sterile e burocratico gendarme concentrato sul controllo della condotta degli Stati membri. Nel Consiglio Europeo del 22-23 giugno scorso (2017) gli Stati Membri hanno concordato sulla necessità di avviare una cooperazione strutturata in campo militare, non solo per rafforzare la sicurezza e la difesa esterna, ma anche per fornire un contributo alla pace e alla stabilità globale. La partecipazione degli Stati aderenti all’iniziativa dovrà essere coerente con i rispettivi impegni nazionali assunti nell’ambito dell’ONU e della NATO. La mancanza di cooperazione in questo ambito ha un grave costo economico in termini di duplicazioni di iniziative difensive. Se i Paesi dell’Unione potessero condividere mezzi, risorse, e condurre insieme anziché separatamente attività di ricerca, ne trarrebbero vantaggio l’efficienza e il risparmio delle finanze. Pertanto la Commissione Europea ha proposto l’istituzione di un fondo per la difesa comune, la cui finalità quindi non sarà la creazione di un esercito europeo da impiegare anche in scenari di crisi - obiettivo ambizioso che necessita tuttavia della definizione di una più precisa base giuridica - ma la razionalizzazione dell’impiego delle risorse degli Stati in questo settore attraverso incentivi alla collaborazione. Questa iniziativa, il cui principale valore aggiunto consisterà nell’unire gli sforzi per permettere che le attività siano pianificate in maniera coordinata, costituisce un nuovo efficiente approccio che potrà essere eventualmente esteso anche ad altre aree di competenza. Ci saranno molte difficoltà da superare, non solo di carattere tecnico. Le attività in questo ambito, anche se hanno intenti solo difensivi, comportano valutazioni che per essere condivise dai Paesi membri presuppongono coesione politica e solidarietà, mentre l’Europa appare sempre più divisa. In ultimo, il malcontento può generare la tentazione di uscire dall'Unione seguendo l'esempio britannico. Si tratta di pericolose derive dagli effetti imprevedibili. L'Unione Europea resta un'irrinunciabile opportunità, che richiede tuttavia un incisivo e coraggioso processo di riforma. Come molte realtà, l'Unione Europea è un meccanismo perfetto in tempi di pace e prosperità, ma evidenzia i suoi limiti nei periodi di crisi.

Il politicamente scorretto
Con l'espressione politicamente corretto si indica comunemente un atteggiamento di preconcetta adesione a principi di consolidata considerazione sociale ritenuti incomprimibili ed il contestuale aprioristico rigetto di qualsiasi presunto pregiudizio che contrasti con asserite conquiste della civiltà; questi presupposti spesso bloccano il libero confronto su alcuni temi. Ne è un esempio l'ipersensibilità per le problematiche razziali o di genere che impedisce un'aperta discussione su argomenti che coinvolgono tali questioni. Al politicamente corretto si oppone il politicamente scorretto, che consiste in opzioni che si oppongono al conformismo benpensante. Un esempio pratico: da più di un decennio le società occidentali stanno attraversando una crisi economica che si riflette sulle comunità con fenomeni indotti come la diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della criminalità. Come corollario di questa situazione parte dell'opinione pubblica propone che principi etici che si ritengono aprioristicamente intangibili, come l'accoglienza indiscriminata di migranti stranieri, debbano essere rinegoziati. Molti leader politici occidentali stanno investendo su questo tratto della psicologia collettiva, cioè sulla esigenza anche subliminale di una ridefinizione del nucleo dei fondamenti che integrano il politicamente corretto. Lo fanno adottando un linguaggio aspro, brutale, fuori dagli schemi della politica tradizionale e formalmente in linea con il carattere non convenzionale dei contenuti. Queste strategie riscuotono un successo popolare: lungi dall'essere estemporanee, sono espressione di un disegno che pone in diretta correlazione il diffuso malcontento con le derive del politicamente corretto. Tuttavia questi movimenti sono esposti ad una crisi di credibilità, che deriva dalla consapevolezza che una visione critica del politicamente corretto non possa essere imposta dall'alto, ma richiede un cambiamento culturale che maturi il discernimento individuale. 

Flussi migratori e multiculturalismo
La convivenza multiculturale, che a causa del costante flusso migratorio caratterizza i Paesi occidentali, impone continue negoziazioni fra i vari gruppi etnici al fine di evitare conflitti fra le diverse identità. Queste negoziazioni non possono riguardare i precetti dell’ordinamento giuridico vigente, che sono un parametro di riferimento per valutare le conseguenze della propria condotta a cui tutti devono indistintamente sottostare. A tutti gli appartenenti alla comunità deve invece essere garantita l’uguaglianza, che insieme agli altri principi illuministici della libertà e della giustizia, è il cardine delle democrazie occidentali; l’uguaglianza per essere realmente tale deve essere integrata da alcuni correttivi necessari per assicurare una reale giustizia nei casi concreti. In particolare non possono essere trattate allo stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in concreto diverse, mentre in maniera simmetricamente opposta non possono essere considerate diversamente situazioni uguali. In altri termini va perseguita l’uguaglianza sostanziale, non quella meramente formale. Spesso si fa riferimento alla tolleranza per indicare la predisposizione individuale da privilegiare nei rapporti interpersonali. Voltaire fondava la tolleranza sulla comprensione dell’imperfezione umana. Tutti gli uomini sbagliano, senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di condizioni personali e sociali; per questo, per convivere in armonia si deve essere reciprocamente indulgenti. Paradossalmente il concetto di tolleranza ha delle sfumature vagamente discriminatorie. Nella pratica infatti dietro la benevolente accettazione dell’altro si cela un implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o addirittura di biasimo o di condanna. La convivenza dovrebbe invece essere strutturata sul riconoscimento della pari dignità dell’altro. Segnatamente in materia di immigrazione la demagogia politica, rigidamente polarizzata sui principi simmetricamente opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile solidarietà, con i problemi di sovraffollamento e di criminalità indotta.  L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali che richiede la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare una contrapposizione fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente. 

I rapporti con l’Islam
Il XXI secolo è iniziato con il grave attentato di matrice islamica alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Questo articolo non è la sede per un’analisi dei controversi rapporti fra terrorismo e Islam. Considerando a parte gli attentati terroristici, la strumentalizzazione mediatica unita a qualche latente tentazione islamofoba con un po' di approssimazione ha trasformato vicende che avvengono nelle nostre realtà urbane, nelle quali sono coinvolti elementi provenienti da Paesi islamici, in casi paradigmatici di una manifesta conflittualità fra la cultura islamica e quella occidentale, supportando così la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Secondo le deduzioni dello studioso statunitense le fonti attuali dei conflitti fra i popoli non sarebbero né di natura ideologica né legate a rivendicazioni economiche, ma troverebbero la loro origine nelle differenti identità religiose e culturali: in questo scenario andrebbe collocato questo confronto ideologico. Tale interpretazione è supportata da alcune evoluzioni che si sono manifestate nelle comunità islamiche. Negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei aspiravano ad integrarsi abbandonando spontaneamente l’abitudine di indossare gli indumenti tipici dei contesti nazionali di provenienza. Attualmente il ritorno da parte delle nuove generazioni all’uso del niqab, dello chador, del burqa e del qamis, non trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto dell’omologazione occidentale. Questo comportamento di ritorno alle tradizioni sembrerebbe il prodotto di un conflitto generazionale, analogamente a quello che accade nelle famiglie occidentali quando i genitori non comprendono le condotte dei figli a causa di differenti abitudini ed esperienze, o di una diversa formazione culturale o religiosa. Peraltro in generale nei giovani si riscontrano due esigenze confliggenti che non raramente alimentano un acceso rapporto dialettico con i genitori: la necessità di ribellarsi per affermare l'originalità della propria individualità, e il bisogno autoconservativo di conformarsi ai canoni della società. Va comunque precisato che l’Islam non è soltanto una religione ma è anche una realtà geopolitica con peculiari contenuti ideologici; non può essere considerato una monade unitaria, essendo un universo estremamente articolato e composito.

Sotto attacco terroristico
Nel secolo precedente il terrorismo di matrice islamica, sebbene già attentamente seguito negli Stati Uniti, non era considerato in Europa una questione di particolare rilevanza. Le iniziative comunitarie si esaurivano nel monitorare le situazioni nazionali degli Stati membri. L’attacco agli USA nel settembre del 2001 ha evidenziato che il terrorismo di matrice islamica aveva compiuto una pericolosa evoluzione diventando una minaccia di primaria importanza per tutto il mondo occidentale, come poi la successiva lunga sequenza di attentati in Europa ha tragicamente confermato. La fede, quando è vissuta come ideologia, richiede un impegno collettivo rivolto a cambiare le strutture della società. A questo fine gruppi jihadisti si sono strutturati per promuovere con ogni mezzo, l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le leggi civili potessero essere sostituite da un ordinamento giuridico plasmato sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una degenerazione di questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia sono infatti una scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai precetti del Corano. È in atto una guerra asimmetrica caratterizzata dall’azione spietata e senza regole del terrorismo, che con i suoi attacchi ha l’obiettivo di modificare la normalità della nostra vita quotidiana trasformando tutti i momenti di ordinaria serenità in occasioni di paura e sofferenza.  Per contrastare efficacemente questa minaccia non è sufficiente la coordinata risposta operativa e preventiva degli apparati di intelligence e sicurezza dei Paesi occidentali, ma è opportuno che i popoli europei ritrovino solidarietà e coesione intorno ai loro valori fondanti. RR



[1] Nassim Nicolas Taleb, Il più intollerante vince: la dittatura delle minoranze, online (sito Medium), 2016.
[2] Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.

 DOPO I FATTI DI BARCELLONA ALCUNE RIFLESSIONI SULLA PRESENZA JIHADISTA IN MAROCCO (pubblicato su L’Azione del 15 settembre 2017)

Dalle indagini relative agli attentati di Barcellona e Cambrils è emersa – come in analoghe occasioni - l’origine marocchina di quasi tutti i componenti della cellula jihadista responsabile. Ancora una volta il Marocco, insieme alla Tunisia, si conferma una fucina di terroristi di matrice fondamentalista. In proposito il Regno maghrebino ritiene di essere ingiustamente accusato di esportare l’eversione islamista: ambienti governativi hanno precisato con toni duri che criminali di questo genere sono o solo nati in Marocco, o lo hanno lasciato nei primi anni di vita stabilendosi poi in Paesi europei, che pertanto sarebbero i reali responsabili della loro radicalizzazione (che sarebbe quindi il prodotto del fallimento delle politiche di integrazioni). Il Marocco nell’ambito delle nazioni del Maghreb è un’oasi particolarmente felice. Non è stato teatro dei devastanti tumulti delle Primavere arabe. Il Re del Marocco Mohammed VI gode di una oggettiva popolarità, di un diffuso consenso e del costante apprezzamento dei media: avendo realizzato adeguate seppur prudenti riforme economiche il monarca è considerato il garante della pace sociale e della stabilità politica. Esiste nel Paese anche un contenuto malcontento, che ha la sua punta esponenziale nel movimento ’20 febbraio’ che ha animato le moderate manifestazioni del 2011, motivate dalla parziale assenza di democrazia, da un generale aumento dei prezzi, dalla volontà di contrastare la corruzione. Le proteste hanno avuto come esito alcuni emendamenti costituzionali che hanno limitato il dispotismo del regime. Il governo investe seriamente nella lotta al terrorismo: pertanto, se i risultati della prevenzione sono modesti, questo non dipende da uno scarso impegno delle istituzioni, ma dalla vastità e dalla complessità del fronte integralista, nonché dalla peculiare varietà del territorio che consente a malavitosi di occultarsi facilmente. Qualche anno fa è stato istituito il Bureau Central des Investigations Judiciaires, che ha centralizzato le indagini sul radicalismo islamico sino ad allora rese scarsamente efficaci dall’assenza di un coordinamento fra le polizie territoriali. È di palese evidenza che per la prevenzione di episodi criminali come quelli avvenuti in Catalogna è fondamentale che sia implementata la collaborazione internazionale, in particolare quella informativa e operativa fra le autorità dei Paesi europei e quelle marocchine, già avviata con molte iniziative bilaterali. Inoltre con la prossima probabile definitiva disfatta dello Stato Islamico, il Regno del Marocco presumibilmente dovrà affrontare la difficile gestione del rientro, dai territori dello sconfitto Stato Islamico, di circa duemila foreign fighters marocchini. RR 

RIFLESSIONI SUI FATTI DI BARCELLONA E DI CAMBRILS

È passata una settimana dai due attacchi di matrice jihadista di Barcellona e Cambrils, rivendicati dallo Stato Islamico.  Le vittime coinvolte appartengono a 35 nazionalità. I fatti sono noti, come peraltro le successive acquisizioni investigative. Da quanto emerso possono essere fissati alcuni punti.
 ·Anche se può sembrare paradossale, questi attentati confermano - come ha osservato uno stimato analista[1] - che le capacità offensive dell’Isis sono in sensibile declino. Questo non ci garantisce che in futuro non ci saranno fatti criminali, o che eventuali prossimi attacchi saranno meno cruenti. Al contrario l’estemporanea organizzazione di progetti criminali accrescerà la loro imprevedibilità, e questo renderà particolarmente complessa l’attività preventiva. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che è in atto un conflitto. Tuttavia, analizzando la sequenza degli attentati pianificati o ispirati dallo Stato Islamico, registriamo che si sono dilatati i tempi fra un crimine e un altro; notiamo che dalla infallibile progettazione e dalla perfetta esecuzione di piani delinquenziali si è passati a iniziative isolate e  più approssimative (come si evince dalla facile neutralizzazione dei jihadisti autori dei fatti di Cambrils);  osserviamo che anziché ricorrere all’uso di strumenti con una micidiale potenza di fuoco, cinture esplosive e kalashnikov, come è avvenuto in pregresse analoghe circostanze, oggi si utilizzano coltelli e  van lanciati contro la folla inerme, strumenti ugualmente letali ma indici di una maggiore difficoltà dei terroristi a procurarsi adeguati armamenti.  Inoltre, mentre i fatti di Parigi sono stati commessi da militanti addestrati nei territori siriani e iracheni in mano all’Isis, gli autori dei crimini di Barcellona e Cambrils sono giovani non in possesso di un significativo ‘curriculum criminale’. Questi cambiamenti, sebbene non possano tranquillizzarci, sono motivo di riflessione e vanno oggettivamente valutati.
 · Non dobbiamo illuderci che la fine prossima dell’Isis, ovvero la sua definitiva sconfitta militare segnerà il ritorno alla normalità. Al contrario il Jihadismo è un’ideologia diffusa che continuerà a persistere con una forte e destabilizzante determinazione, forse accresciuta da una più difficile sopravvivenza. Anzi il carattere acefalo del radicalismo islamico, cioè l’assenza di un riferimento ideologico e operativo - come attualmente è Daesh - e di una minima omogeneità strutturale, renderanno più impegnativa l’attività preventiva delle intelligences nazionali.
 · Non sembra che possano essere mosse critiche all’intelligence e alle forze di polizia spagnole. Esistono alcune analogie fra la Spagna e l’Italia. Entrambi i Paesi sono maturati nel contrasto del terrorismo interno attrezzandosi adeguatamente (a parte qualche grave gaffe politica, come l’attribuzione in un primo momento all’organizzazione indipendentista dell’Eta dell’attentato di Atocha del 2004). Nei due Paesi sono molto puntuali le misure di ordine e sicurezza pubblica, con un ampio impiego di personale in uniforme e di mezzi militari nei dispositivi preventivi con finalità dissuasive e deterrenti, Sia l’intelligence spagnola che quella italiana hanno una riconosciuta oggettiva professionalità. Com’è noto, in Spagna le istanze autonomistiche sono molto forti; il contrasto del terrorismo è una competenza dello Stato centrale, ma questo non esclude difficoltà di intesa con le polizie regionali (come quella catalana). Qualche polemica di questi giorni ne è la conferma.
 · È plausibile che l’Italia possa essere in un futuro prossimo teatro di un attacco terroristico, solo tentato si spera. Questo non dipenderà da deficit nelle predisposizioni di sicurezza, che, per quanto efficienti, non possono garantirci in termini assoluti. L’Isis ha sempre più difficoltà a mantenere contatti con le sue ramificazioni periferiche, e perciò lancia ‘in chiaro’ i suoi messaggi utilizzando i suoi strumenti mediatici, sperando che questi ordini siano recepiti da cellule nazionali o da isolati aspiranti terroristi. E la direttiva che è stata diffusa è quella di colpire il nostro Paese. Depone a nostro favore che ‘proclami’ di questo genere sono stati già emessi in passato senza conseguenze. Inoltre si registra in Italia una minore presenza di jihadisti rispetto a quella che si riscontra in altri Stati europei: questa circostanza indubbiamente facilità l’attività di prevenzione, già qualitativamente elevata grazie alla professionalità dei nostri apparati.
 ·A margine e integrazione del precedente punto, si aggiunge che in relazione all’attuale ampio ricorso alle iniziative dei cosiddetti lupi solitari uno studioso norvegese[2] sostiene che questa realtà rappresenterebbe una scelta strategica dell’Isis. Infatti lo stesso Stato Islamico alimenterebbe una tale propaganda al fine di riuscire ad attivare centinaia di individui privi di connessioni tra loro e con i loro vertici operativi e ideologici, che passando da una fase dormiente all’attività sarebbero più difficili da intercettare per i servizi di sicurezza nazionali. Questo garantirebbe una miriade di piccoli attacchi. In altri termini i lupi solitari non esisterebbero.
 ·Perché la Spagna? Sono state formulate tante teorie, con riferimenti storici, sociologici, politici, culturali: tutte molto interessanti e da leggere attentamente come prezioso contributo alla comprensione delle peculiarità della presenza islamica nella penisola iberica. Molto più semplicemente si deve rilevare che l’iniziativa criminale a Barcellona è stata facilitata da una massiccia presenza jihadista in Spagna come peraltro le tante iniziative investigative degli apparati di sicurezza e le condanne giudiziarie confermano.
· Si osserva ancora una volta che il Marocco insieme alla Tunisia sono fucine del terrorismo di matrice fondamentalista. Il Marocco nell’ambito dei Paesi del Maghreb è un’oasi particolarmente felice sotto molti punti di vista, ma resta un dato di fatto che molti terroristi sono marocchini. Al di là delle spiegazioni di questa contraddizione, che è un dato non trascurabile, è fondamentale che sia implementata la cooperazione informativa e operativa fra le nostre autorità e quelle marocchine. Peraltro con la probabile prossima fine dell’Isis il Regno del Marocco dovrà gestire circa duemila foreign fighters di ritorno dai territori dello sconfitto Stato Islamico[3]
RR

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[1] Alessandro Orsini.
[2] Petter Nasser.
[3] I rapporti fra Fondamentalismo violento e Regno del Marocco saranno oggetto di un prossimo esame.

SEMPRE PIU’ RICCHI, SEMPRE PIU’ POVERI..(pubblicato su L’Azione del 22 agosto 2017) 
Qualche mese fa l’Oxfam – una ONG che, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo, intraprende iniziative per ridurre la povertà globale -  ha diffuso un inquietante rapporto sulla distribuzione della ricchezza mondiale. È emerso che meno di una decina di uomini detengono la stessa ricchezza di più di tre miliardi e mezzo di persone. E il trend è negativo, ovvero la forbice fra ricchi e poveri in linea di massima si va sempre più allargando: l’esigua minoranza che detiene il potere economico, avvalendosi di evasioni fiscali e di altre illegalità, ha ampie opportunità per influenzare i processi politici che consolidano questo sistema. Una ricerca di un noto economista (Thomas Piketty) ha evidenziato che negli ultimi trent’anni la crescita dei salari del 50 per cento della popolazione mondiale è stata pari a zero, mentre quella dell’1 per cento è aumentata del 300 per cento. Il quadro delle inaccettabili sperequazioni economiche e sociali si completa se consideriamo gli stellari guadagni di calciatori, personaggi televisivi, imprenditori di successo ed altre numerose categorie professionali particolarmente fortunate. La loro situazione finanziaria fa dubitare che esista realmente una recessione economica, o meglio, fa ritenere che esista solo per chi è nato nel posto sbagliato. Pur volendo evitare facili demagogie, non si può non rilevare che anche il grave problema di difficile soluzione dei flussi migratori che si originano nel sud del mondo probabilmente sarebbe fortemente dimensionato se i Paesi di provenienza fossero stati supportati in passato con iniziative finalizzate a garantire una loro autonoma crescita economica. Al contrario il periodo coloniale ha attuato un sistematico sfruttamento e un sistematico saccheggio di queste regioni, che sono state impoverite e ridotte in una condizione di subordinazione. La democrazia, da garanzia dei diritti di tutti, è diventata un narcotico che ci ha abituato a pensare che la ricchezza di pochi e la povertà di molti siano normali, siano patologie fisiologiche di un sistema che, nella sua versione peggiore, resta pur sempre preferibile alla migliore tirannia. In pratica le nostre democrazie sono diventate un alibi per la cristallizzazione di privilegi. La Chiesa cattolica cerca di rivitalizzare il messaggio evangelico che invita gli uomini a non ricercare ossessivamente beni immediati e contingenti, che procurano una felicità fugace e transitoria e ci allontanano da quel dovere di servire gli altri che costituisce il principio etico fondamentale del cristiano. È necessario che i nobili propositi si traducano in progetti politici concreti.  RR

Martirio e Islam (17 agosto 2017)
Il sacrificio degli attentatori suicidi di matrice jihadista ci ha abituati a ritenere che sia molto forte nell’Islam la vocazione al martirio (lo Shaidismo) come testimonianza di fede. Va in senso opposto l’istituto coranico della Taqiyya, che consente al musulmano   di dissimulare esteriormente la propria fede fino a rinnegarla quando una tale condotta sia necessaria per sfuggire ad una persecuzione o ad un pericolo attuale o imminente[i]. Anche il Kitman[ii], il silenzio, cioè semplicemente tacere, è un atteggiamento difensivo consentito dal Corano. Più in particolare la Sura XVI (versetto 106) stabilisce che la collera di Allah si abbatterà sul credente che si è lasciato contaminare dalla miscredenza, salvo che ne sia stato costretto da un pericolo e abbia conservato nell’intimo una fede salda e convinta[iii]. Peraltro la tradizione riferisce che secondo il Profeta la guerra è inganno; mentire è consentito quando il fine giustifichi i mezzi. In un passo della Sura II (versetto 225) Allah dà il permesso di prestare falsa testimonianza e di spergiurare[iv]. Il versetto 28 della Sura III prescrive invece ai credenti di non allearsi con gli infedeli salvo che ci sia il timore di qualche male da parte loro[v]. Quindi in sintesi il musulmano può dire menzogne e dissimulare con ogni mezzo il proprio stato religioso per allontanare una minaccia o per sfuggire ad una punizione. Poiché Maometto mette sullo stesso piano l’inviolabilità della proprietà con l’inviolabilità della vita, la Taqiyya è consentita sia per la protezione della propria persona e sia per quella dei beni materiali: questa ipocrisia legale quindi si applica anche a tutela di interessi economici.  Gli Sciiti hanno spesso utilizzato questa prerogativa per sottrarsi all’individuazione e al conseguente rischio di persecuzione da parte dei rivali Sunniti: questa pratica avrebbe consentito al culto sciita di crescere e di diffondersi. Un caso di Taqiyya sunnita è invece quello dei Moriscos in Spagna, che nel XVI sec. dissimulavano la propria fede per evitare il rischio di una conversione coatta al Cristianesimo. Nel Cristianesimo la facoltà di negare i dogmi di fede o a compiere gesti contrari ad essa si chiama Nicodemismo[vi]; ebbe un’applicazione marginale e limitata al periodo delle guerre di religione tra cattolici e protestanti  successive alla Riforma nel XVI secolo. Sono facilmente intuibili le complicazioni che questo istituto può introdurre nell’individuazione di fondamentalisti e di potenziali terroristi di matrice islamica. RR




[i] “I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei Suoi Stessi confronti. Il divenire è verso Allah.”
 (Sura III,Versetto 225).
[ii] Traducibile come ‘riserva mentale’.
[iii] “Quanto a chi rinnega Allah dopo aver creduto - eccetto colui che ne sia costretto, mantenendo serenamente la fede in cuore - e a chi si lascia entrare in petto la miscredenza; su di loro è la collera di Allah e avranno un castigo terribile.”
[iv] “Allah non vi punirà per la leggerezza nei vostri giuramenti, vi punirà per ciò che i vostri cuori avranno espresso. Allah è perdonatore paziente.”
[v] Vedi nota 1.
[vi] Da Nicodemo, il ricco seguace del Cristo che finse di non conoscerlo sul Calvario
 
L’INGIUSTIZIA DELLA GIUSTIZIA (2 agosto 2017)
Varie vicende penali, alcune delle quali hanno coinvolto amministratori locali di alcuni capoluoghi di provincia, stimolano riflessioni sull’attuale condizione dell’esercizio della funzione giudiziaria nel nostro Paese: le considerazioni che seguiranno prescindono dal merito di singoli contenziosi, che è difficile valutare senza una conoscenza obiettiva dei fatti e una specifica preparazione professionale. In questo contesto non possono nemmeno essere oggetto di una generale censura le condotte degli operatori, in particolare dei magistrati. Come in ogni categoria anche fra di loro è normale che accanto ad ottimi e validissimi professionisti ce ne siano altri che esercitano la delicatezza di queste attribuzioni con una preparazione inadeguata e con scarsa sensibilità e attenzione. Agli organi giudiziari in linea di massima non possono essere addossate responsabilità per l’inadeguatezza del sistema nel quale sono chiamati ad operare. È evidente la necessità di una profonda riforma. In ambito penale vengono fatte molte ipotesi, a cominciare dalla separazione delle carriere fra magistrati addetti agli uffici giudicanti e quelli in servizio in strutture inquirenti. Sono ipotesi tutte meritevoli di essere esaminate. Tuttavia il processo di riforma dovrebbe essere più radicale, e cominciare dal valutare la necessità di integrare la rigida applicazione dei principi di legalità formale, a cui si ispira il nostro ordinamento giuridico, con elementi di giustizia sostanziale. Per chiarire questa affermazione sono necessarie alcune premesse. Il principio di legalità formale è il fondamento dello Stato di diritto e consiste nella necessità che ogni attività dei pubblici poteri si strutturi sulla legge. Ad essa si contrappone la legalità in senso sostanziale: in questo caso la correttezza dell’esercizio di una funzione presuppone che siano perseguiti i principi che sono il fondamento costituzionale dello Stato. Il principio di legalità si declina nel diritto penale per definire la liceità e l’illiceità delle condotte. Per la legalità formale sia il fatto che costituisce reato sia la sanzione che si ricollega alla sua commissione devono essere espressamente previsti dalla legge: esso viene sintetizzato dalla formula latina di origine illuministica ‘Nullum crimen, nulla poena sine lege’. Il principio di legalità, inteso in questa accezione, costituisce un’importante garanzia della libertà degli individui in quanto vieta di punire i fatti che, al momento della commissione, non siano espressamente previsti come reati, e di sanzionarli con pene che non siano previste dalla legge. Per il principio di legalità sostanziale vanno invece considerati reati i fatti socialmente pericolosi. Consentendo di punire condotte offensive a prescindere da una previsione normativa, la legalità sostanziale garantisce indubbiamente un’efficace difesa sociale e consente un flessibile adeguamento della normativa penale al divenire della realtà sociale. Ma irrogare pene senza una previsione normativa può autorizzare provvedimenti arbitrari, mentre la vigenza del principio di legalità formale costituisce un’irrinunciabile presidio di democrazia. Nel tempo il principio di legalità formale - precludendo la punibilità di condotte non previste espressamente come reato - si è trasformato talvolta in uno strumento di cui possono servirsi coloro che riescono a sfruttare le lacune delle norme incriminatrici, ponendo in essere azioni riprovevoli non inquadrabili in alcuna fattispecie e perciò non punibili. Inoltre, in base ad una applicazione inquietante ma giuridicamente ineccepibile della legalità in questa accezione, sono state annullate per vizi formali condanne a malavitosi e a mafiosi che sono costate agli investigatori lunghe indagini, impegno, sacrifici ed esposizione a gravi pericoli. I Romani avevano intuito questa possibile deriva del diritto con la massima ‘Summum ius, summa iniuria’. Può accadere anche l’ipotesi simmetricamente opposta, ovvero che individui paghino per infrazioni a norme commesse nell’interesse altrui o della collettività poste in essere senza trarne nessun beneficio personale. Si tratta in questo caso di condotte -  talvolta di amministratori - ineccepibili da un punto di vista sostanziale ma formalmente meritevoli di sanzione. Per questa caratteristica il nostro ordinamento viene considerato appartenente alla categoria dei sistemi di ‘Civil Law’, nei quali rileva solo la legge scritta. Al contrario negli ordinamenti ispirati all’opposto principio del ‘Common Law’ (quelli anglosassoni), le codificazioni positive sono limitate al minimo mentre il diritto è prevalentemente di formazione giurisprudenziale, ovvero i giudici nel decidere si conformano alle sentenze adottate in passato per analoghi casi tenendo presenti le esigenze di giustizia del caso concreto. In aggiunta le caratteristiche spiccatamente formali del nostro ordinamento rendono problematici gli esiti dei ricorsi alle corti internazionali di giustizia, dal momento che l’attività di questi organi transnazionali si ispira alla verifica di un’effettiva - e non formale - tutela dei diritti di cui esse sono garanti. Fatte queste premesse appare necessario quindi che il nostro ordinamento, per essere maggiormente ‘giusto’, sia rifondato tenendo in maggiore considerazione i principi di giustizia sostanziale, evitando che l’applicazione delle disposizioni in un rigido regime di legalità formale da strumento di garanzia si trasformi in un alibi per la perpetuazione di abusi ‘legalizzati’. RR

INTERNET: FINE DELLA STAMPA O RINASCITA DI CREDIBILITA’ (Su L’Azione del 28 luglio) 
In un recente convegno che si è svolto a Udine si è discusso del futuro del giornalismo. In proposito l’inarrestabile calo delle vendite dei quotidiani cartacei e l’aumento dei lettori che si affidano alla Rete è un tema di stretta attualità. L’informazione digitale non ha sostituito quella che si avvale dei mezzi tradizionali come la carta stampata, la radio e la televisione, ma ha ridefinito il ruolo di questi ultimi. Con il Web disponiamo di una mole illimitata di dati e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da quella di selezionare. Con una felice espressione l’intellettuale elvetico Starobinski ha affermato che Internet, per le sue potenzialità, è simile a una sintesi fra la biblioteca di Alessandria e la cloaca Massima. Per la diffusione di notizie l’informazione digitale punta su tempi più brevi rispetto a quelli di un quotidiano cartaceo o a quelli imposti dal rispetto dei palinsesti radiotelevisivi (a parte le edizioni straordinarie). Internet paga l’immediatezza della notizia con il suo carattere scarno e superficiale, mentre i media tradizionali possono garantire come specifica loro prerogativa un giornalismo più meditato e articolato. Il rapporto fra Web e carta stampata è analogo a quanto è avvenuto in occasione della nascita della televisione. Allora qualcuno profetizzò che l’intrattenimento televisivo avrebbe causato la crisi del cinema, dei periodici e dei libri. Non avvenne niente di tutto questo: la televisione, ancora lontana dal divenire una cattiva maestra, introdusse attraverso gli sceneggiati e gli adattamenti televisivi dei classici nuovi modi di far cultura che non surrogarono il patrimonio preesistente ma lo integrarono. Allora il servizio radiotelevisivo plasmò la lingua nazionale e svolse un ruolo determinante nella formazione della classe media. Anche Internet, in maniera diversa dai giornali, ha una sua specifica capacità di approfondimento. Generalmente questo avviene mediante l’ipertesto, che consente una navigazione non sequenziale, ovvero permette la possibilità di accedere direttamente a contenuti mediante collegamenti a parole o a concetti. In altri termini con l’ipertesto non vi è un ordine prestabilito dei documenti da esaminare prima di accedere alla pagina che interessa. I network radiotelevisivi e la carta stampata non dovrebbero entrare in competizione con le prerogative del Web ma puntare sulla qualità dell’informazione, ovvero sulla sua completezza, sulla sua comprovata oggettività, su un equidistante approfondimento. Questi attributi, che sono incompatibili con la velocità con la quale i dati viaggiano in Rete, consentono di ridefinire il ruolo dei media tradizionali, nei quali peraltro non possono trovare posto le fake news. I giornali di carta devono essere il presidio della credibilità e dell’autorevolezza, uno strumento critico per un’obiettiva comprensione della complessità del mondo che ci circonda. Affidabilità della Stampa non equivale a riesumare il principio dell’ipse dixit: se i fatti esposti devono essere oggettivi, le opinioni esprimono sempre posizioni soggettive. RR 

Da Haiti un esempio su cui riflettere (pubblicato su L’Azione del 18 luglio 2017) 
La Juventus ha difficoltà a trovare un campo in cui disputare le proprie partite. Ovviamente non si tratta del club torinese ma della Juventus des Cayes che, dopo il passaggio devastante ad Haiti dell’uragano Matthew nell’ottobre del 2016, non ha più la sede e il proprio impianto in erba sintetica nella penisola di Tiburon. Senza campo ma con un grande cuore la Juventus des Cayes valendosi di giocatori locali ha cominciato a scalare le categorie dei campionati di calcio nazionali fino al raggiungimento della massima serie. Coltiva la speranza di vincere prima o poi lo scudetto: le sue aspirazioni si alimentano della possibilità di un supporto da parte della sorella maggiore torinese. Le vicende della Juventus des Cayes sono emblematiche di quelle attuali di Haiti, che dopo aver subito la furia rovinosa di un terribile terremoto si sta faticosamente risollevando grazie alla solidarietà internazionale, alla generosa tenacia dei suoi cittadini, alla loro insopprimibile vitalità. Il microcosmo della società sportiva haitiana è immagine di un calcio diverso da quello al quale siamo abituati, quello che vive sotto volte dorate e necessita di ingenti e inquietanti flussi di denaro. Confrontando il calcio haitiano con quello europeo, sarebbe banale scandalizzarsi degli esorbitanti ingaggi dei calciatori che giocano in Europa dal momento che l’entità dei loro appannaggi è un’applicazione della legge più semplice del libero mercato, secondo la quale il valore economico di un bene o di una prestazione è il risultato della dialettica fra domanda e offerta. Resta tuttavia eticamente inaccettabile che nel mondo ci siano individui o gruppi economici che possano disporre di capitali così abnormi, e che li possano destinare con tanta disinvoltura alla retribuzione di calciatori. Tutto questo è difficilmente tollerabile se si pensa che solo una parte di queste somme sarebbe sufficiente a debellare malattie o potrebbe essere utilizzata per sottrarre alla fame e alla povertà l’intera popolazione mondiale. Ho sempre pensato che la parabola evangelica della moltiplicazione dei pani e dei pesci celasse simbolicamente un monito: una piccola quantità di beni (nella metafora evangelica cinque pani e due pesci) se equamente distribuita è sufficiente a soddisfare i bisogni di tutta la collettività. Al contrario una decina di uomini possiede la stessa ricchezza della rimanente parte della popolazione mondiale. Influenti gruppi finanziari continuano ad alimentare la disuguaglianza mediante il ricorso all’evasione fiscale o massimizzando i profitti anche a costo di ridurre oltre il valore minimo i salari e usando il loro potere per influenzare la politica. Nel frattempo la moltitudine che subisce le ristrettezze dell’attuale congiuntura economica, cieca come il volgo manzoniano, plaude agli attori del calcio milionario. RR 

VERSO UNA DIFESA COMUNE EUROPEA? (pubblicato su L’Azione del 14 luglio)
L’obiettivo di una difesa comune da sempre è parte integrante del progetto europeo, ma dopo il fallimento del Pleven Plan (1950) questa aspettativa non si è mai realizzata. Nel Consiglio Europeo del 22-23 giugno scorso gli Stati Membri hanno concordato sulla necessità di avviare una cooperazione strutturata permanente in campo militare non solo per rafforzare la sicurezza e la difesa esterna, ma anche per fornire un contributo alla pace e alla stabilità globale. Sarà prioritaria l’esigenza di dare impulso a progetti strumentali a colmare le lacune che ostacolino questo programma. La partecipazione degli Stati aderenti all’iniziativa dovrà essere coerente con i rispettivi impegni nazionali assunti nell’ambito dell’ONU e della NATO. In proposito, è stato ribadito il ruolo centrale di riferimento dell’Alleanza Atlantica. Il Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha dichiarato che queste determinazioni sono…un passo storico, perché questa cooperazione consentirà all'UE di procedere verso una più profonda integrazione nel settore della difesa. La mancanza di cooperazione in questo ambito ha un grave costo economico in termini di duplicazioni di iniziative difensive. Se i Paesi dell’Unione potessero condividere mezzi, risorse, e condurre insieme anziché separatamente attività di ricerca, ne trarrebbero vantaggio l’efficienza e il risparmio delle finanze. Pertanto la Commissione Europea ha proposto l’istituzione di un fondo per la difesa comune, la cui finalità quindi non è la creazione di un esercito europeo da impiegare anche in scenari di crisi - obiettivo ambizioso che necessità tuttavia della definizione di una più precisa base giuridica - ma la razionalizzazione dell’impiego delle risorse degli Stati in questo settore attraverso incentivi alla collaborazione. Questa iniziativa, il cui principale valore aggiunto consisterà nell’unire gli sforzi per permettere che le attività siano pianificate in maniera coordinata, costituisce un nuovo efficiente approccio che potrà essere eventualmente esteso anche ad altre aree di competenza. Dopo le necessarie affermazioni di principio a livello di capi di Stato e di governo la questione si trasferirà nei tavoli tecnici del Consiglio dell’Unione Europea, che avranno il difficile compito di dare attuazione concreta all’ambizioso progetto. Ci saranno molte difficoltà da superare, non solo di carattere tecnico. Le attività in questo ambito, anche se hanno intenti solo difensivi, comportano valutazioni che per essere condivise dai Paesi membri presuppongono coesione politica e solidarietà, mentre l’Europa appare sempre più divisa, come dimostra il dibattito in tema di flussi migratori. RR  

LA POSTDEMOCRAZIA E LA DITTATURA DELLE MINORANZE (pubblicato su L’Azione del 7 luglio)
Negli Stati democratici il principio cardine è quello di maggioranza, in base al quale nell’assunzione delle determinazioni di governo la volontà espressa dai più deve essere considerata come il volere di tutti. Per evitare gli abusi delle maggioranze il principio maggioritario è sottoposto a limiti e correttivi a tutela delle minoranze. Un intellettuale libanese spesso controcorrente, N. N. Taleb, con un saggio recente (Il più intollerante vince: la dittatura delle minoranze - 2016) ha segnalato che i regimi occidentali attualmente sono soggetti ad un rischio opposto, ovvero a quello di essere eccessivamente condizionati dalle minoranze, che si affermano in virtù di un malinteso uso della democrazia. Attraverso alcuni rilevamenti empirici lo studioso ha concluso che alcune minoranze particolarmente attive e intransigenti necessitano solo di un’esigua percentuale (3-4 %) per imporre con le loro rimostranze le proprie preferenze all’intera popolazione. Così l’improbabile può governare la nostra vita. Nello stesso tempo si produce un altro effetto, ovvero che quelle scelte sembrino volute dalla maggioranza stessa. Tali possibili derive dell’ordine democratico possono riguardare l’intera collettività: questo avviene quando vere e proprie corporazioni (specifiche categorie di lavoratori e professionisti) per perseguire i propri obiettivi causano disagi a tutta la comunità. Ma le istanze di pochi possono anche condizionare le dinamiche istituzionali: non è raro infatti che piccoli gruppi politici con iniziative ostruzionistiche paralizzino l’iter parlamentare di provvedimenti normativi o, più in generale, ostacolino il normale svolgimento delle attività istituzionali. Tutto nel rispetto formale delle regole vigenti. Senza entrare nel merito delle specifiche questioni, queste condotte sono un corollario dell’assenza di un maturo e solido senso dello Stato: nei momenti di crisi agli interessi di parte strutturati su differenze ideologiche sarebbe opportuno sforzarsi di anteporre la prioritaria esigenza di un dialogo costruttivo fra poli opposti. Il potere delle minoranze, secondo le deduzioni politicamente scorrette di Taleb, troverebbe fondamento in un’eccessiva tolleranza e flessibilità della maggioranza. Forse questa dinamica è anche conseguenza dell’avvento della post democrazia, che ha come corollario una generale crescente passività e disaffezione dei cittadini. Non si deve dimenticare inoltre che una vera democrazia non deve diventare lo scudo di chi vuole imporre con la forza la propria volontà. Paradossalmente il potere di una minoranza non sempre ha un esito negativo, ovvero l’egoistica ipertutela di interessi particolari: la creazione o l’evoluzione di valori morali nella società infatti non necessariamente deriva da una più ampia base di consenso su di essi, ma può scaturire anche dalle iniziative di un ristretto numero di persone che con la propria intolleranza impongono a tutti una maggiore rettitudine. Ma anche questa è una patologia dell’ordine democratico. RR 

il Venezuela da Chavez a MADURO (pubblicato su L'Azione del 1 luglio 2017)
La storia recente del Venezuela è paradigmatica della parabola di molti regimi sudamericani. Nel 1992 un giovane ufficiale, Hugo Chávez, tentò senza successo un golpe alla guida di un manipolo di militari ispirati dalla ideologia rivoluzionaria della svolta a sinistra del nazionalismo popolare, sintetizzata nello slogan caudillo, esercito, popolo. L’iniziativa gli costò un periodo di detenzione, ma giovò alla sua popolarità. Tornato libero Chàvez venne eletto presidente e successivamente più volte riconfermato. Il suo mandato, animato da un antimperialismo militante, da un demagogico egalitarismo, da un cristianesimo modellato a proprio uso e consumo, attuò un programma di riforme miranti allo sviluppo di un'economia di tipo socialista vicina al modello cubano, e assunse spesso posizioni critiche verso gli USA. A seguito di modifiche costituzionali il Paese intraprese una deriva autoritaria e Chávez consolidò il suo potere. Seguirono travagliate vicende e un ulteriore golpe che alla fine contribuirono ad accrescere il carattere assoluto del regime, sempre meno rispettoso dei diritti civili, delle regole democratiche, delle garanzie dell’opposizione, e molto disinvolto nel liberarsi dei nemici del nuovo corso. Il leader venezuelano ereditò un Paese corrotto e con grandi sperequazioni sociali. Il suo carisma si alimentava del successo di politiche sociali che potevano contare sulle generose entrate che provenivano dal petrolio - di cui il Venezuela è uno dei massimi produttori mondiali - e su un populismo amplificato da media compiacenti. Il mito di Chávez è molto vicino a quello del generale Aureliano Buendìa, il personaggio creato dal realismo magico di Gabriel Garcia Marquez. Con la sua avventurosa e disinvolta personalità che si nutriva di aneddoti e imprese, talvolta fortunose quanto irreali che incantavano l’immaginario popolare, il generale Buendìa, dispotico, violento, vendicativo, sanguinario, riusciva a controllare la complessità sociale del proprio Paese. Il problema di molte realtà sudamericane è che alla morte di un leader dotato di una personalità così ricca e forte è difficile trovare un erede in grado di continuarne l’opera e di gestirne le contraddizioni. Così sta avvenendo in Venezuela, dove alla controversa ma coinvolgente e mitica soggettività di Chávez è subentrato alla sua morte il modesto ex sindacalista Nicolas Maduro. In questo momento di transizione che segue la morte del patriarca - scrive Gabo - le campane di giubilo annunciano …..al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell'eternità è finalmente terminato. RR 

I PRINCIPI DELLA SOCIETA’ MULTIETNICA (pubblicato su L’Azione del 23 giugno 2017)
La convivenza multiculturale, che anche a causa del costante flusso migratorio caratterizza i Paesi occidentali, impone continue negoziazioni fra i vari gruppi etnici al fine di evitare conflitti fra le diverse identità. Queste negoziazioni tuttavia non possono riguardare i precetti dell’ordinamento giuridico vigente, che sono un parametro di riferimento per valutare le conseguenze della propria condotta a cui tutti devono indistintamente sottostare. A tutti gli appartenenti alla comunità deve essere garantita l’uguaglianza, che insieme agli altri principi illuministici della libertà e della giustizia, è il cardine delle democrazie occidentali; l’uguaglianza per essere realmente tale deve essere integrata da alcuni correttivi necessari per assicurare una reale giustizia nei casi concreti. In particolare non possono essere trattate allo stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in concreto diverse, mentre in maniera simmetricamente opposta non possono essere considerate diversamente situazioni uguali. In altri termini va perseguita l’uguaglianza sostanziale, non quella meramente formale. Spesso si fa riferimento alla tolleranza per indicare la predisposizione individuale da privilegiare nei rapporti interpersonali. Voltaire fondava la tolleranza sulla comprensione dell’imperfezione umana. Tutti gli uomini senza distinzioni di razza, di sesso, di religione, di condizioni personali e sociali, sbagliano; per questo, per convivere in armonia si deve essere reciprocamente indulgenti. Paradossalmente il concetto di tolleranza ha delle sfumature vagamente discriminatorie. Nella pratica infatti dietro la benevolente accettazione dell’altro si cela un implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o addirittura di biasimo o di condanna. La convivenza dovrebbe invece essere strutturata sul riconoscimento della pari dignità dell’altro. Segnatamente in materia di immigrazione la demagogia politica, rigidamente polarizzata sui principi opposti dell’accoglienza generalizzata o del respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano conciliare i principi di civile solidarietà, con problemi di sovraffollamento e di criminalità indotta.  L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di facciata da spendere per fini politici o elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali che richiede la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare una contrapposizione o contrasti fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati. Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di un inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente.  RR

LA CRISI FRA QATAR E ARABIA SAUDITA (pubblicato su L’Azione del 16 giugno 2017) 
La recente crisi fra Qatar e Arabia Saudita (con la quale hanno solidarizzato in particolare gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, l’Egitto e le islamiche Maldive) dimostra in maniera palese l’esistenza di un grave frattura all’interno del fronte arabo sunnita. Questo dissidio, pur essendo ben noto, finora era rimasto allo stato latente; tale conflittualità non è determinata da fattori religiosi o ideologici, ma esclusivamente da contingenze economiche e politiche, cioè dalla malcelata aspirazione di entrambi gli  Stati alla leadership dei Paesi arabi sunniti alla quale conseguirebbe tra l’altro un potere egemonico sull’intera area del Golfo. È conosciuta la potenza finanziaria della monarchia saudita. Il Qatar è invece un piccolo emirato retto dall’ambiziosa famiglia Al-Thani. Ha solo mezzo milione di abitanti ma è tra i Paesi più ricchi del mondo potendo contare su una straordinaria estrazione di petrolio ed essendo il più grande produttore di gas naturale liquido. Ha anche una non trascurabile importanza strategica essendo proprietario di uno dei fondi sovrani più attivi del mondo e ospitando Centcom, il Comando delle Forze Armate USA in Medio Oriente. Lo Stato qatariota è anche sede dell’emittente satellitare Al Jazzera, considerata scomoda dagli altri Paesi arabi per la sua linea editoriale troppo disinvolta (ovviamente sempre fedele alla famiglia Al Thani). Al Jazeera inoltre esercitando il diritto di cronaca ha dato voce in passato ai comunicati di Al Qaeda. Nella complessa situazione mediorientale vanno considerati gli obiettivi dell’Iran che da sempre necessita di un alleato amico nella penisola araba per avere un punto di transito per meglio gestire i suoi interessi nel continente africano. L’Iran sciita, accusato di destabilizzare l’area mediorientale attraverso la sua crescente influenza in Siria, in Libano e nello Yemen, è da sempre ostile alla monarchia saudita di cui non riconosce la leadership religiosa islamica; si è pertanto affrettato a schierarsi con il Qatar. Lo Yemen, che ha una posizione strategica di rilievo, dilaniato da tragiche vicende belliche interne, si è diviso sui due fronti: il governo riconosciuto internazionalmente è con l’Arabia Saudita, mentre i ribelli Houti sono vicini all’Iran (e quindi al Qatar). Se si considera l’entità dei fondi sauditi destinati ad alimentare il fondamentalismo jihadista in Europa, appare del tutto pretestuosa (anche se fondata) l’accusa rivolta al Qatar di flirtare con i terroristi, in particolare con Hamas e gli Hezbollah, e di essere rifugio di leader dei Fratelli Musulmani (il Qatar è stato tra i principali sostenitori del presidente egiziano ‘islamista’ Mohammed Morsi, deposto nel 2013 dall’allora ex capo delle forze armate Al Sisi). Questa crisi, seppur molto grave e destabilizzante, probabilmente resterà solo diplomatica e politica. Sarebbe devastante se avesse derive belliche. RR  

CONTRO-TERRORISMO: SCAMBI ESISTONO, MA SERVE PIÙ FIDUCIA TRA SERVIZI (pubblicato su L’Azione del 9 giugno 2017)
Dopo i tragici fatti di Londra della sera del 3 giugno si sono riaccese le discussioni nei media su quali iniziative possano garantire una maggiore sicurezza. Molti tornano ad insistere sulla necessità di un incremento dello scambio di informazioni fra organismi di intelligence dei Paesi dell'Unione Europea. Questa forma di cooperazione anche se codificata dai documenti comunitari in maniera chiara e dettagliata da un punto di vista pratico non sempre si articola in maniera efficace. I rapporti fra i collaterali organi di polizia di Stati diversi hanno una confidenzialità molto formale, diversamente da quello che avviene nel contesto nazionale. Pertanto le informazioni più sensibili sono scambiate con prudenza finché non siano accertate nella loro reale portata (e questo comporta una condivisione tardiva). È rischioso infatti comunicare a livello transnazionale notizie da verificare, in quanto queste iniziative possono mettere in moto all’estero attività che, se si rivelassero infondate, potrebbero essere fonte di responsabilità e conseguenze anche gravi. Si dice che esista una gelosia degli Stati circa le informazioni di polizia di cui dispongono. Questo avviene soprattutto per quelle notizie inerenti indagini in corso che potrebbero essere compromesse da una divulgazione impropria di quanto acquisito. Deve essere considerato che spesso già all'interno di uno stesso ufficio di polizia di livello locale per un generale principio di prudente riservatezza operativa non c'è una generale condivisione di notizie criminis, ovvero non tutti gli appartenenti alla struttura sono messi al corrente di tutto. Le legislazioni nazionali possono creare difficoltà concrete: non è di aiuto la mancanza di una nozione di terrorismo unanimemente condivisa a livello internazionale. Quindi gli ostacoli a ben vedere sono culturali, non dipendono da una mancanza di strumenti, che tuttavia vanno costantemente implementati. Le diffidenze possono essere superate solo attraverso una maggiore fiducia reciproca che può essere conseguita lavorando insieme. Anche una più puntuale omogeneità strutturale e sostanziale fra gli apparati giudiziari e di polizia degli Stati sarebbe auspicabile. Sicuramente Europol è un riferimento importante per meglio strutturare la lotta europea all’eversione jihadista. In conclusione non è necessario stabilire ulteriori obblighi di collaborazione fra gli Stati, ma è necessario un salto culturale, ovvero che gli operatori si sentano sempre più poliziotti europei e acquisiscano una fiducia reciproca che può nascere solo dal lavoro congiunto. La creazione di squadre investigative multinazionali per il contrasto del terrorismo è una preziosa predisposizione in linea con questa direttiva. L'Europa, prima di essere una entità politica, deve essere una realtà culturale. RR 

LA SOCIETA’ CIVILE SFIDA LA POLITICA (pubblicato su L’Azione del 1 giugno 2017)
La folla di 15mila persone che sabato 27 sera si è radunata a Tel Aviv per chiedere un accordo di pace basato sulla formula ‘due popoli, due Stati’ ha posto sotto i riflettori gli sforzi dell’associazione Save Israel - Stop the Occupation (SISO), un movimento fondato nel 2015 da un centinaio di accademici israeliani per promuovere il ritiro di Israele dai Territori occupati nel 1967 e arrivare così alla nascita di uno Stato palestinese. L’organizzazione annovera personalità di primo piano nella storia di Israele, fra i quali lo storico ed ambasciatore Eli Barnavi, il politologo Menachem Klein, la manager pacifista Jessica Montell, per anni direttrice dell'organizzazione per i diritti umani B'Tselem. Gli obiettivi del movimento nascono dall’amor di patria per Israele, e dalla constatazione che solo un processo che assicuri l’autodeterminazione del popolo palestinese potrà consentire una normalizzazione della vita civile israeliana, con il raggiungimento di un’autentica sicurezza, democrazia e prosperità. La fine dell’occupazione dei Territori condiziona inoltre il pieno riconoscimento di Israele da parte della comunità internazionale. Il movimento aspira a fare da centro di coordinamento delle attività dei gruppi pacifisti ebraici nel resto del mondo. Lo scorso settembre SISO ha  diffuso un appello firmato da 500 personalità ebraiche israeliane e della diaspora per la fine alla politica dell’occupazione dei territori palestinesi. Tra i firmatari figuravano il premio Nobel per l'Economia Daniel Kahneman, la cantante Noah, gli scrittori Amos Oz e David Grossmann, decine di ambasciatori e parlamentari israeliani, 160 docenti universitari. L’appello va nella direzione opposta della linea politica dell’attuale governo israeliano, che non sembra riflettere il comune sentire di una parte importante della base popolare israeliana ebraica, stanca di vivere in costante precarietà e pericolo. Naturalmente la realizzazione delle prospettive di pace richiede la cooperazione dei Palestinesi e la fine delle ostilità nei confronti di Israele. Le iniziative di SISO sollecitano con forza la mobilitazione degli Ebrei della diaspora: come in passato il loro supporto ha consentito la nascita dello Stato ebraico, oggi la loro solidarietà potrebbe consentire allo Stato di Israele di ritrovare la sua anima democratica e riaffermare i suoi fondamenti morali. Le analisi di SISO individuano le barriere socio-psicologiche che impediscono ad Israele di intraprendere un cammino di pace, cercando di diffondere nuove idee e considerazioni che possano portare il popolo israeliano ad inforcare un nuovo paio di occhiali con cui guardare alla questione palestinese. La consapevolezza di questi ostacoli è il presupposto per il loro superamento e per l’individuazione di azioni concrete la cui attuazione potrà essere concertata in un eventuale tavolo negoziale. La convivenza pacifica va costruita pazientemente. In proposito, Shimon Peres amava dire: “Non è vero che non c’è luce in fondo al tunnel in Medio Oriente. Tutt’altro, la luce c’è. Il problema è che non c’è il tunnel.” RR. 

LA NIGERIA E I TERRORISTI DI BOKO HARAM, PER ALCUNI PIU' PERICOLOSI DELL'ISIS (pubblicato su L'Azione del 26 maggio 2017)
Lo scorso 7 maggio dopo tre anni di prigionia sono state liberate 82 delle 276 studentesse nigeriane rapite nel 2014 dai miliziani dell'organizzazione terroristica Boko Haram. Le vicende di questo gruppo terroristico evidenziano come una banda di criminali sanguinari, che operi a livello locale, ovvero nella sola regione nigeriana, si possa trasformare, sfruttando contingenti favorevoli, in uno dei maggiori centri di riferimento del fondamentalismo jihadista africano. Il ‘Popolo per la Propagazione degli Insegnamenti del Profeta e della Jihad’- questo è il suo nome originario - ufficialmente si costituì nel 2001 come reazione alla corruzione del regime federale nigeriano e al malessere sociale alimentato dalla disoccupazione. Sulla sua origine probabilmente hanno inciso le vicende algerine. Com'è noto, in Algeria nelle elezioni legislative del 1992 il Fronte Islamico per la Salvezza vinse ampiamente il primo turno; con il secondo turno il FIS avrebbe conseguito la vittoria definitiva. Tuttavia, l’esercito intervenne prima del secondo turno per interrompere il naturale esito del processo elettorale. Si originò così quella guerra civile nell’ambito della quale nacque il gruppo armato Gia, successivamente Gspc, il Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento. Le reazioni poco ortodosse dell’apparato di sicurezza  algerino determinarono la fuoriuscita dal Paese di membri dei gruppi fondamentalisti. Questi individui si rifugiarono soprattutto nelle zone di frontiera fra Algeria, Mauritania e Niger, evitando di andare verso la Libia,  o altri Stati  Nord-Africani, in quanto questi Paesi erano maggiormente attrezzati per il loro respingimento; diversamente la Mauritania, il Niger e il Mali non avevano le risorse umane e tecnologiche per un adeguato controllo transfrontaliero. Probabilmente questi fuoriusciti hanno costituito i nuclei originari di Boko Haram, che nel dialetto locale (la lingua Hausa) può essere tradotto 'l'educazione occidentale è sacrilega'. Il suo obiettivo è l'opposizione alla cultura occidentale ritenuta corruttrice della purezza dell’Islam. Per il carattere regionale e isolato Boko Haram non può essere associato al jihadismo internazionale. L’incerta linea gerarchica, la struttura poco chiara, la divisione in fazioni, una catena di comando non univoca, si traducono in un problema di rappresentatività che rende difficili negoziazioni con le istituzioni governative nigeriane. I membri di Boko Haram per il loro violento integralismo vengono definiti i 'talebani nigeriani'. Il movimento jihadista si avvale anche di attacchi suicidi eseguiti da bambini, che hanno come obiettivo interi villaggi, nei quali vengono consumati massacri all'interno di scuole e chiese, e rapimenti di intere collettività. Alcuni analisti, in relazione al numero e alla violenza delle iniziative terroristiche e alla moltitudine delle persone trucidate, considerano il livello di pericolosità del movimento superiore a quello dell'Isis. RR

LA LOTTA AL NARCOTRAFFICO IN MESSICO (pubblicato su L'Azione del 19-5-2017)
Nonostante la globalizzazione, i media Europei rimangono etnocentrici. Basta guardare l'edizione di un telegiornale straniero non europeo come Al Jazeera, per rendersi conto di quante notizie non arrivino in Occidente. L'elezione di Donald Trump e il successivo riacutizzarsi del contenzioso con il Messico per la lotta all'immigrazione clandestina, ha richiamato l'attenzione dei media non solo americani su questo Paese e sui mali cronici da cui è afflitto. Non ha avuto invece molto spazio la notizia dell'assassinio di Miriam Rodriguez Martinez, uccisa in Messico il 10 maggio da un'organizzazione criminale. La coraggiosa donna, madre di un desaparecido, era attivista di un'organizzazione di coordinamento delle iniziative delle famiglie che negli ultimi anni avevano subito la sparizione di un congiunto in circostanze misteriose legate al contrasto del narcotraffico. In proposito,  nel 2016 i conflitti fra le organizzazioni messicane di narcotrafficanti hanno causato 23.000 morti circa. Solo la guerra siriana ha avuto nel corso dell'anno un numero superiore di vittime (più di 50.000).  È paradossale che siano gli arresti di narcotrafficanti 'eccellenti' a generare sanguinose stragi: le operazioni degli organi giudiziari e di polizia (come la cattura di Joaquin El Chapo Guzman, capo di un potente cartello) creano infatti vuoti di potere che scatenano lotte per un nuovo assetto nel controllo delle principali rotte criminali. Negli ultimi anni si è assistito al notevole incremento dell'offerta di oppiacei provenienti dal Messico e diretti prevalentemente agli USA (si stima negli ultimi anni un aumento di più del 40% della coltivazione di papavero). Questo incremento è legato alla conversione dei campi di marijuana in campi di oppio dovuta alla maggiore convenienza della produzione della relativa pasta rispetto alla marijuana pressata ed essiccata: la vendita di un chilo di oppio rende ai campesinos circa 800 dollari, contro i 15 che si ricavano da un chilo di marijuana. Anche il processo di legalizzazione della marijuana in corso negli Stati Uniti ha inciso sulla contrazione del traffico illegale di questa sostanza psicotropa a vantaggio della richiesta di eroina (che è un oppiaceo). Teatro delle illegalità è il confine fra Stati Uniti e Messico: il contrabbando è prevalentemente appannaggio delle organizzazioni criminali messicane in stretto contatto con le loro controparti americane. Oltre alle attività repressive dei due Stati nei loro rispettivi territori, è importante una diretta collaborazione. Sono già in atto iniziative transfrontaliere che prevedono una strategia congiunta  mediante il  coinvolgimento delle rispettive polizie e unità antinarcotiche, nonché l’uso di mezzi tecnologici. Nonostante le dichiarazioni di ostilità a livello politico fra  i due Stati, esiste una stretta collaborazione fra i rispettivi operatori. Henri Ford amava dire che mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme un successo

MIGRAZIONI, UN'OCCASIONE PER IL DIALOGO FRA FEDI E CULTURE (pubblicato su l'Azione del 12 maggio 2017)
Il recente viaggio del Papa in Egitto ha dato un importante impulso al dialogo interreligioso. In proposito, Cristianesimo e Islam sono al centro di un latente ma intenso conflitto globale per il loro rispettivo rapporto con la cultura occidentale e con quella dei Paesi arabi. In correlazione a questa situazione si è costituita un'alleanza di fatto fra tutte le forze anti-occidentali che direttamente o indirettamente si ispirano alla fede coranica. L'unico contributo concreto per una solida pacificazione è il dialogo, che deve avere come presupposto una  reciproca conoscenza fra cristiani e musulmani.  Nell'esortazione apostolica Evangeli Gaudium (2013) si sottolinea l'importanza del confronto con i musulmani presenti in Occidente, ovvero in Paesi di tradizione cristiana nei quali essi hanno la possibilità di integrarsi e celebrare liberamente il loro culto. Il seme della verità è contenuto anche negli scritti sacri dell'Islam: è comune la fede nello stesso Dio (un versetto del Corano destinato a ebrei e cristiani afferma che..il nostro Dio e il vostro Dio sono un solo Dio e noi gli siamo sottomessi...); Gesù e Maria sono oggetto di venerazione, mentre giovani, anziani, donne, uomini si dedicano quotidianamente alla preghiera e partecipano a riti religiosi. La presenza degli islamici in Europa è direttamente correlata ai flussi migratori che interessano i Paesi mediterranei. Al riguardo, nelle more dell'individuazione di soluzioni che riescano a conciliare le esigenze umanitarie con il contrasto dei predetti flussi, è necessario che alla strategia dell'accoglienza indiscriminata si sostituisca una politica che consenta una reale integrazione attraverso l'armonico inserimento dei nuovi venuti nel tessuto sociale, mediante lo svolgimento di un'attività di lavoro e la piena accettazione delle leggi e degli usi dello Stato ospitante, nonché la fine di trattamenti normativi privilegiati che di fatto alimentano tensioni che possono degenerare in violenze e dolorosi conflitti. In altri termini, alla possibilità garantita agli islamici di professare liberamente la loro fede e di vivere la loro identità culturale, deve corrispondere il pieno riconoscimento della sovranità popolare - che è il principio su cui si fondano le democrazie occidentali - nonostante essi provengano da Paesi nei quali le norme civili sono corollario della religione, che con lo Stato forma un'unità indissolubile.  Una società realmente multiculturale non può fondarsi sulla tolleranza, ma su un processo di riconoscimento reciproco che porti all'estensione a tutti dei medesimi diritti, doveri e oneri sociali, nel rispetto delle diverse identità linguistiche, religiose e culturali. Parafrasando lo studioso statunitense Samuel Huntington, solo così un Paese composto da più civiltà non sarà un Paese che non appartiene a nessuna civiltà.  

Papa in Egitto, monito su fede violenza. Con Al-Sisi passo su caso Regeni (pubblicato su L'azione del 5 maggio 2017)
Il motto della recente visita di Papa Francesco Pellegrino di pace in un Egitto di pace  riassume i molteplici livelli del viaggio, che ha avuto un contenuto politico ed ecumenico oltre a quello pastorale. In Egitto il Pontefice ha incontrato Ahmed Al Tayeb, imam di Al Azhar, il più prestigioso centro dell'Islam sunnita. Animato dalla realpolitik religiosa, papa Francesco ha esaltato gli elementi comuni che uniscono le due fedi, sottolineando la stessa base teologica. I due leader si sono poi trovati d'accordo sul ripudio della violenza come strumento di proselitismo. Il rapporto fra Islam e violenza resta un tema molto delicato, come anche le differenze fra i due monoteismi. Il paradiso è sulla punta delle nostre spade recita una Sura del Corano. L'interpretazione letterale dei versetti coranici che incitano all'intolleranza è uno degli aspetti più problematici: anche nell'Antico Testamento sono presenti affermazioni violente, che per una retta comprensione vengono però contestualizzate dall'applicazione del metodo storico-critico alle Scritture. Negli Stati che si proclamano laici nonostante il potere sia nelle mani di una maggioranza musulmana non è ancora ipotizzabile che le istituzioni abbiano un carattere neutro, ovvero che mantengano un'equidistanza a garanzia di un'effettiva libertà religiosa. A causa  della natura invasiva e ideologica dell'Islam la fede difficilmente può essere separata dalla politica, e gli effetti delle scelte religiose non possono rimanere confinate nella sfera individuale. Una convivenza paritaria inoltre non può esserci laddove una fede dominante autorizzi l'esistenza di un'altra. Il Papa ha avuto anche un incontro informale con il presidente Al Sisi: con ogni probabilità nell'occasione si è parlato anche del caso Regeni. Il regime egiziano si colloca nel solco della tradizione nazionalista e militarista che ha avuto in Nasser il suo precursore. L'Egitto non è uno Stato democratico, anche se Al Sisi si impegna a combattere qualsiasi forma di fondamentalismo. Su questa base è stata presa la controversa decisione di mettere al bando il movimento dei Fratelli Musulmani. Il tema più sensibile dei colloqui con il Presidente è stato il problema delle garanzie a tutela della comunità copta, che include l'8% della popolazione egiziana. Per la loro storia i copti sono parte dell'identità nazionale. Tuttavia, vittime di gravi attentati jihadisti, i copti si sentono minacciati e fortemente in pericolo. La divisione e la disgregazione del tessuto sociale sono l'obiettivo della strategia divisiva delle sanguinose iniziative terroristiche dello Stato Islamico. In Egitto papa Francesco, oltre ad aver tenuto il suo intervento alla presenza di altri leader e patriarchi come quello di Costantinopoli Bartolomeo, ha incontrato in un momento di fraternità e preghiera Tawadros II, capo della Chiesa ortodossa copta. Come confermano le iniziative del Papa un reale dialogo inter-religioso ed ecumenico inizia con il pieno riconoscimento della pari dignità dell'altro. RR

CHAMPS-ELYSEES, NUOVA ONDATA DI ISLAMOFOBIA. MA I FRANCESI NON CEDONO (pubblicato su L'Azione del 28 aprile 2017)
Giovedì 20 aprile la Francia ha subito l’ennesimo attacco terroristico di matrice islamista: oltre all’attentatore, ha perso la vita un poliziotto e altri due sono stati feriti. Analogamente a quanto avvenuto in passato, complici alcune strumentalizzazioni politiche e mediatiche, l’attacco ha risvegliato un atteggiamento di immotivata criminalizzazione dell’Islam, basato sulla convinzione che ogni musulmano possa essere un potenziale terrorista. Tale congettura, a livello globale e collettivo, equivale ad affermare che sia in atto uno scontro fra le comunità islamiche e l’Occidente. In effetti, l’Islam non è soltanto una religione ma è anche una realtà geopolitica con peculiari contenuti ideologici; l’Islam tuttavia non può essere considerato una monade unitaria, essendo un universo estremamente articolato, composito e diversificato, nel quale tra l’altro manca un’autorità gerarchica che esprima una posizione ufficiale su specifiche questioni. Affermare che le derive jihadiste rappresentino l’Islam, oltre ad essere concettualmente sbagliato, è anche un errore strategico, poiché le frange terroristiche, come ha evidenziato l’esperienza degli apparati di sicurezza italiani nella lotta alle Brigate Rosse, devono essere isolate per essere meglio contrastate e neutralizzate. Inoltre, associare la religione musulmana al terrorismo di matrice islamica equivale a favorire le aspettative dei terroristi, che hanno l’obiettivo di accreditarsi come unici rappresentanti del vero Islam. L’Occidente come antidoto dovrebbe impedire qualsiasi contingenza che possa favorire processi di solidarizzazione con il radicalismo jihadista, ovvero con quella ridotta minoranza che pratica il ricorso alla violenza come strumento di affermazione di una malintesa fede religiosa. L’assenza di pluralismo religioso che si riscontra in molti Paesi arabi non giustifica inoltre l’intolleranza nei confronti dei fedeli musulmani che vivono in Europa:applicare in questi casi il principio di reciprocità, come auspicato da alcuni, equivale a rinnegare la tradizione laica e liberale che abbiamo ereditato dal movimento illuminista. Questi attentati favoriscono le aggregazioni politiche che investono sulla demonizzazione della presenza islamica in Occidente. L’affermazione del Front National al primo turno delle elezioni presidenziali francesi è anche il prodotto di una propaganda integrata da principi xenofobi. L’ingresso di Marine Le Pen all’Eliseo rappresenterebbe un salto nel buio per la Francia e per l’Europa. RR

Balcani, fucina di radicalismo islamico che l’Ue non può trascurare (pubblicato su L'Azione del 21 aprile 2017)
Siamo abituati ad associare i Balcani alle rotte della criminalità organizzata e dell'immigrazione clandestina dimenticando che in questa regione si trovano anche gli unici Stati del continente europeo nei quali è presente una consistente maggioranza musulmana (di rito sunnita). Ci si riferisce in particolare alla Bosnia Erzegovina (poco più del 50% della popolazione è islamica), all'Albania (il 60%), al Kosovo (il 90%), che sono pertanto luoghi privilegiati per la formazione di jihadisti e per il transito di fondamentalisti diretti in Europa. La rilevanza dell'Islam nella penisola balcanica è emersa nel lungo periodo di instabilità e durante i conflitti seguiti alla scomparsa del leader comunista Tito, che era riuscito a garantire l'accordo fra realtà religiose eterogenee. In questo contesto l'Islam assunse specifiche peculiarità e un forte carattere politico, perché si coniugò con le rivendicazioni autonomiste di alcune aree, diventando funzionale alla coesione etnica e alla difesa di pretese integrità territoriali. Durante gli eventi bellici dal 1992 al 1999 affluirono combattenti stranieri fondamentalisti. Il loro intento non fu solo quello di dare attuazione alla jihad, ma anche di riproporre in questo scenario la lotta per l'egemonia nel mondo islamico fra Iran e Arabia Saudita.  Fin dal crollo della nazione jugoslava infatti entrambi gli Stati islamici hanno curato la costruzione di reti di influenza in questa regione. Il proselitismo islamista, unito a criticità socio-economiche, come gli alti tassi di disoccupazione giovanile, la povertà, la carente istruzione, l'emarginazione, le discriminazioni e la scarsa incidenza delle attività delle istituzioni statali, ha favorito fenomeni di radicalizzazione.   In proposito il Kosovo, che ha avuto un modesto sviluppo economico, è il Paese più esposto al rischio di derive fondamentaliste, e costituisce un safe harbour per l'estremismo. Erano kosovari i quattro terroristi che avevano progettato di distruggere a Venezia il Ponte di Rialto. I Balcani ospitano le basi logistiche di gruppi affiliati all'Isis e ad Al Nusra, che si finanziano  prevalentemente con il traffico di droga. Tuttavia il rischio di terrorismo 'interno' rimane basso, perché queste articolazioni della galassia jihadista sono destinate prevalentemente al supporto del transito di foreign fighters o di returnees, che sono gli occidentali di ritorno dopo essere partiti per arruolarsi con le truppe di Al Baghdadi in Siria o in Iraq.  La cooperazione di polizia e lo scambio di informazioni fra i Paesi della regione è insufficiente. Peraltro, le sole misure repressive adottate dagli Stati, disgiunte da iniziative strumentali all'integrazione, favoriscono la marginalizzazione degli individui vulnerabili alla radicalizzazione. I Balcani sono quindi una realtà strategica nella lotta al terrorismo di matrice islamica che l'Europa non può trascurare, nella prospettiva di una maggiore stabilità e sicurezza  del nostro continente. RR

RIFLESSIONI SULLA LEZIONE DI JOSEPH RATZINGER A RATISBONA (13-4-2017)
A proposito di scontro di religioni, quando Joseph Ratzinger tenne nel 2006 a Ratisbona la Lectio Magistralis su Fede, Ragione e Università prevalse in lui la personalità di intellettuale e docente  su quella di capo della Cristianità Cattolica; il Pontefice, da studioso indipendente, citò nel corso del suo discorso la nota frase di Manuele il Paleologo ("Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava) che suscitò un acceso dibattito strumentalizzato dai pregiudizi degli organi di informazione e segnato da risentite dimostrazioni negli ambienti fondamentalisti. Successivamente le posizioni dell'opinione pubblica, condizionate da reazioni mediatiche superficiali e di parte, si sono polarizzate su posizioni radicali eludendo con emotività momenti di mediazione e di riflessione. Il dibattito sulla questione islamica è stato spesso suggestionato dall'errore di considerare la religione musulmana una realtà monolitica. Diversamente, ci sono tanti Islam, tante articolazioni dottrinali, fra le quali non è possibile individuare un interlocutore che possa rappresentare tutti i fedeli. Si cerca di distinguere un Islam moderato da quello contaminato dall'integralismo  violento. Mentre alcuni individuano  nella cultura islamica un pericolo per la sopravvivenza dell'Occidente, altri attribuiscono un'importanza imprescindibile al dialogo con i musulmani moderati: tuttavia con il loro atteggiamento questi occidentali vengono accusati di supportare inconsapevolmente le derive fondamentaliste. Queste posizioni sono espressione di approcci ideologici estremi che hanno atteggiamenti preconcetti come presupposti. Si deve invece considerare che attraverso il dialogo costruttivo con l'Islam si emarginano le frange violente, che, isolate, diventano vulnerabili. Gli scontri di religione o di civiltà, sempre che la contrapposizione fra Islam e Occidente possa rientrare in questi paradigmi, al contrario innescano conflittualità dagli esiti incerti che generano spirali incontrollabili, pericolose per la pace mondiale. Se l'Occidente intende contrastare l'attacco islamico deve difendere i principi di libertà e giustizia che sono i tratti distintivi della propria cultura e credere nella  loro universalità. Al contrario l'Occidente è dilaniato da una crisi di valori e dalla perdita di spiritualità, e  sembra maturare un odio contro sé stesso che mina la propria identità. Questo è l'implicito grido di allarme che si è levato a Ratisbona in maniera coraggiosa dalle parole di Joseph Ratzinger. RR

RIFLESSIONI SUL MARTIRIO DEI CRISTIANI COPTI 
I gravi fatti avvenuti domenica scorsa in Egitto suscitano molte riflessioni. Innanzitutto ancora una volta si è dovuto constatare che il martirio dei cristiani non fa notizia. Subito dopo il grave recente attentato in Svezia giustamente la Rai ha allestito uno speciale che ha occupato l'intera serata. Il giorno dei due attentati  in Egitto mi aspettavo un'analoga iniziativa, non solo per la gravità in sé degli eventi, ma per le sensibili ripercussioni legate alla situazione della sicurezza in relazione alla programmata visita di Papa Francesco. Inaspettatamente i sevizi giornalistici del principale canale televisivo della Rai domenica sera hanno ritenuto prioritario richiamare alla memoria dei telespettatori con uno 'speciale' le vicende della nave Concordia e del suo comandante Schettino.  Volendo evitare spunti polemici, lascio ad ognuno le valutazioni del caso. I crimini in questione hanno confermato che il presidente Al Sisi, nonostante l'impronta autoritaria imposta al governo del Paese, non sembra che riesca a garantire  il controllo della sicurezza da parte dei poteri centrali. Probabilmente la messa al bando dei Fratelli Musulmani, movimento influente e radicato nel territorio, responsabile di un tentativo di islamizzazione della nazione, non si è rivelata una scelta opportuna; al contrario ha indebolito il regime. Come già accennato, le  stragi nelle chiese copte creano un allarme sulla programmata visita in Egitto del Papa. Il Pontefice probabilmente non rivedrà il suo programma pastorale, ma la visita risulterà sensibilmente condizionata dalle esigenze di sicurezza. Lo Stato Islamico, interessato ad accreditarsi all'interno della galassia islamica come unico  esponente dell'Islam autentico, persegue l'obiettivo di vestire di islamismo le sue spietate e crudeli iniziative terroristiche, mirando a trasformare lo scontro in atto in un conflitto di religione. La persecuzione dei cristiani nell'immaginario musulmano si configura come un attacco all'Occidente. Ma i cristiani non vivono solo in Europa o negli Stati più industrializzati. In realtà in una condizione minoritaria, di insicurezza, di povertà e non considerati dalle istituzioni nazionali e internazionali abitano in molti Paesi del Terzo Mondo. Le loro storie, spesso drammatiche, sono ignorate. La tutela di queste comunità cristiane non è una questione nè di religione nè di civiltà, ma esclusivamente di crescita della sensibilità della coscienza civile dell'opinione pubblica mondiale. Anche i fedeli islamici non sono più ai margini dell'occidente ma risiedono al suo interno. Piuttosto che perderci nell'oceano delle contrapposizioni o nella costruzione di barriere, sarebbe opportuno che in tutti noi maturasse una giusta percezione delle esigenze di libertà, giustizia, sicurezza, solidarietà e laicità, che possa rettamente orientare le nostre scelte individuali e collettive. (pubblicato su L'Azione del 14 aprile 2017) RR

QUANDO LO SCONTRO DI CIVILTÀ È PIUTTOSTO CONFLITTO GENERAZIONALE
La questione è nota. A Bologna una ragazzina di 14 anni originaria del Bangladesh ha manifestato ripetutamente la volontà di non indossare il velo 'islamico'; la madre, che esigeva che lei e le sue sorelle non uscissero mai da sole e non instaurassero rapporti con i loro coetanei maschi, per punizione le ha rasato completamente i capelli. I servizi sociali competenti, d'intesa con la procura per i minorenni, conosciuto l'episodio, hanno allontanato dalla famiglia la ragazza, che attualmente, insieme alle sue sorelle, è ospitata in una struttura protetta; i genitori invece sono stati denunciati dai carabinieri per maltrattamenti. Come capita ormai abitualmente la strumentalizzazione mediatica, unita a latenti tentazioni islamofobe, ha generalizzato questa vicenda attribuendole dignità di circostanza emblematica di una cultura lontana e in conflitto con quella occidentale, supportando così la tesi di Samuel Huntington sullo 'scontro di civiltà'. Secondo le deduzioni dello studioso statunitense le fonti attuali dei conflitti fra i popoli non sarebbero né di natura ideologica né legate a rivendicazioni economiche, ma troverebbero la loro origine nelle differenti identità religiose e culturali: in questo scenario andrebbe collocato il confronto in atto fra Islam e Occidente. Tuttavia alcune riflessioni inducono a formulare diverse valutazioni sulla vicenda in questione. Preliminarmente va precisato che gli specifici abbigliamenti delle donne musulmane non sono prescritti dal Corano - che si limita a suggerire abiti rispettosi del pudore femminile - ma sono imposti da codici e tradizioni locali; ed infatti non  tutte le donne musulmane indossano il velo. Il fatto sembrerebbe invece il prodotto di un conflitto generazionale, analogamente a quello che potrebbe accadere nelle famiglie occidentali quando i genitori non comprendono le condotte dei figli a causa di differenti abitudini ed esperienze, o di una diversa formazione culturale e, talvolta, religiosa. Il rispetto delle tradizioni non va nemmeno confuso con il rifiuto di laicità. Negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei cerca­vano di integrarsi abbandonando spontaneamente l’abitudine di por­tare gli indumenti tipici dei Paesi di provenienza. Attualmente il gap generazionale fra padri e figli nelle famiglie islamiche 'occidentali' si esprime attraverso due atteggiamenti opposti: o attraverso il ritorno all’uso del niqab, dello chador, del burqa e delqamis come mezzo per rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa da quella corrente, o attraverso l'omologazione allo stile di vita occidentale. Peraltro nei giovani si riscontrano spesso due esigenze confliggenti che non raramente alimentano un acceso rapporto dialettico con i genitori: la necessità di ribellarsi per affermare l'originalità della propria individualità, e quella 'autoconservativa' di conformarsi ai canoni della società. (pubblicato su L'Azione del 7 aprile 2017) RR

IL MANCATO CAMMINO DELL'ISLAM SU LAICITÀ E RAPPORTO FRA FEDE E RAGIONE
Il martirio dei cristiani in alcuni Paesi islamici è una conseguenza della suggestione della deriva jihadista su alcuni popoli di fede musulmana. Nei contesti fondamentalisti l'avversione nei confronti dei seguaci di altre religioni è una patologia resa fisiologica dall'incomprensione del concetto di laicità e dall'ignoranza dei confini fra religione e politica; la democrazia, assente in questi Paesi, è inoltre il presupposto essenziale per lo sviluppo di valori quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto delle libertà di pensiero e di culto. La concezione di società nell'Islam politico ha invece natura teocratica: pertanto le linee governative sono fortemente vincolate da principi di natura confessionale. Poiché in tali riflessioni non esiste alternativa alla fede musulmana, la laicità è un concetto di difficile comprensione, ed è confusa con la condizione di ateo. In termini più espliciti per la logica islamista non essere musulmano equivale a non essere credente: non è ammessa una terza possibilità, ovvero essere fedele di un altro credo. Questa perentoria conclusione può essere imputata sia alla peculiare invasività dell'Islam nella società civile, sia alla mancanza, nella storia dei popoli arabi, di un movimento analogo all'Illuminismo, che in Occidente ha minimizzato - forse in maniera troppo radicale - gli elementi spirituali riducendoli a valori culturali, enfatizzando la necessità dell'uomo di esercitare la conoscenza affrancato da schemi preconcetti e guidato esclusivamente dalla razionalità. Da allora è stata accentuata la problematicità del conflitto fra fede e ragione, dimenticando che queste due risorse non si escludono a vicenda ma al contrario si completano reciprocamente e sostengono l'uomo nel cammino di ricerca della verità. La mancanza di pluralismo religioso è anche un corollario della più generale assenza di libertà. Nel mondo arabo la parola libertà viene associata ai contesti occidentali: assume frequentemente pertanto una connotazione negativa in quanto è considerata sinonimo di libertinaggio, licenziosità ed anarchia. In sintesi è ritenuta un potenziale strumento di eversione dell'ordine morale religioso. Queste motivazioni non sono sufficienti a giustificare l'acredine islamista nei confronti dei cristiani e la drammatica persecuzione di cui sono oggetto. Quando oggi il martire cristiano con serenità e coraggio testimonia la verità della sua Fede, sembra che il tempo della Storia sia tornato indietro di duemila anni. (pubblicato su L'Azione del 24 marzo 2017) RR

1957-2017. SOGNO INCOMPIUTO, MA L'UE RESTA UNA GRANDE OPPORTUNITÀ
Il prossimo 25 marzo si festeggiano 60 anni dagli accordi istitutivi della Comunità Economica Europea. Gli anniversari sono sempre occasione per un bilancio. Questa ricorrenza cade in un momento di crisi delle istituzioni comunitarie. Deve essere oggetto di riflessione innanzitutto l'influenza che negli ultimi tempi hanno esercitato le scelte finanziarie della Germania, che per favorire la propria economia ha promosso una politica di austerità imponendo ai Paesi membri, soprattutto a quelli meno solidi, pesanti manovre fiscali e tagli alla spesa pubblica. La conseguente spinta deflazionistica ha prodotto una riduzione della circolazione del denaro e una contrazione dei consumi, tra le cause di una generale recessione economica e di un diffuso impoverimento. L'Unione ha intrapreso con disinvoltura un allargamento verso est passando in poco tempo da 15 a 28 Stati senza che si realizzasse una reale reciproca integrazione. In qualche occasione i nuovi Paesi membri hanno evidenziato un'assenza di cultura della solidarietà, componente indissolubile dello spirito comunitario. Molte aspettative che i Trattati avevano alimentato sono rimaste deluse. Con l'Accordo di Maastricht (1992) l'Europa, che in quel momento era solo una realtà economica, sarebbe dovuta diventare un'istituzione politica; questo evoluzione, che aveva come presupposto la cessione da parte di ciascun Paese di una quota della propria sovranità, non si è sufficientemente realizzata a causa di alcune egoistiche resistenze nazionali.  L'introduzione della  moneta unica non preceduta dalla creazione delle necessarie sovrastrutture ha penalizzato alcune economie, quella italiana in particolare. Il ritorno alla lira tuttavia comporterebbe pericolosi dissesti finanziari. L'ingresso nell'Euro e più in generale nell'Unione Europea ha avviato processi irreversibili che non consentono un indolore ritorno al passato. Va ripristinato il ruolo di governo della Commissione europea, che da esecutivo comunitario si è trasformata nel tempo in uno sterile e burocratico gendarme concentrato sul controllo della condotta degli Stati membri. Il malcontento può  generare la tentazione di uscire dall'Unione seguendo l'esempio britannico. Si tratta di pericolose derive dagli effetti imprevedibili. L'Unione Europea resta un'irrinunciabile opportunità, che richiede tuttavia un incisivo e coraggioso processo di riforma. Come molte realtà, l'Unione Europea è un meccanismo perfetto in tempi di pace e prosperità, ma evidenzia i suoi limiti nei periodi di crisi. (pubblicato su L'Azione del 17 marzo 2017). RR 

TRUMP E LO SDOGANAMENTO DEL POLITICAMENTE SCORRETTO
Secondo un sondaggio di CbsNews in poche settimane il tasso di gradimento del neo-presidente statunitense è sceso al 39%. Poiché le iniziative di Trump stanno rispettando gli impegni presi con gli elettori, tale circostanza potrebbe imputarsi ad un calo del consenso sugli obiettivi della sua linea politica, che può essere riassunta in una esplicita avversione al politicamente corretto. Con l'espressione politicamente corretto si indica un atteggiamento di preconcetta adesione a principi di consolidata considerazione sociale ritenuti incomprimibili, ed il contestuale aprioristico rigetto di qualsiasi presunto pregiudizio che contrasti con asserite conquiste della nostra civiltà; questi presupposti bloccano il libero confronto su alcune questioni. Ne è un esempio l'ipersensibilità per le problematiche razziali o di genere che impedisce un'aperta discussione su argomenti che coinvolgono questi temi. Al politicamente corretto si oppone il politicamente scorretto, che consiste in opzioni che si oppongono al conformismo benpensante. Un esempio pratico: da più di un decennio le società occidentali stanno attraversando una crisi economica che si riflette sulle comunità con fenomeni indotti come la diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale e l'aumento della criminalità; come corollario di questa situazione parte dell'opinione pubblica propone che fondamenti etici che si ritengono intangibili, come l'accoglienza indiscriminata di migranti stranieri, debbano essere rinegoziati. Trump nella sua campagna elettorale ha investito su questo tratto della psicologia collettiva, cioè sulla necessità di una ridefinizione del nucleo dei principi che integrano il politicamente corretto. Lo ha fatto adottando un linguaggio aspro, brutale, fuori dagli schemi della politica tradizionale e formalmente in linea con il carattere non convenzionale dei contenuti. Alla luce di queste considerazioni la strategia di Trump è risultata vincente: lungi dall'essere estemporanea, è stata espressione di un disegno che ha posto in diretta correlazione il diffuso malcontento popolare con le derive del politicamente corretto. Analogamente, si è strutturato il recente successo dei movimenti populisti in Europa. La crisi di credibilità post-elettorale di Trump deriva probabilmente anche dall'acquisita consapevolezza generale che una visione critica del politicamente corretto non può essere imposta dall'alto, ma richiede un cambiamento culturale che maturi nel discernimento individuale. RR(pubblicato sul  L'Azione del 10/3/2017) RR

OLTRE GLI STEREOTIPI: LA LUNGA MARCIA DELLE DONNE NEL MONDO ISLAMICO
La Giornata Internazionale della Donna riaccende i riflettori sulla condizione femminile nei Paesi a maggioranza islamica dove, come è noto, è molto diversificata. Mentre la maggior parte delle donne arabe è vittima di drammatici condizionamenti, una ridottissima minoranza favorita dalla buona estrazione sociale delle famiglie di provenienza ha potuto intraprendere un cammino di emancipazione anche in realtà arretrate e maschiliste come quelle saudita (dove ci sono ben 20.000 imprese a guida femminile, benché il tasso di occupazione femminile rimanga il più basso del mondo arabo, intorno al 13%) e yemenita, dove diverse donne sono dirigenti e accademiche. Pur non potendosi disconoscere la penalizzazione della donna nella società araba, da un sommario sguardo alla cinematografia mediorientale si evince che spesso protagonisti dei film sono personaggi femminili. Alcuni esempi: ‘Caramel’ e ‘Ora dove andiamo?’ della regista libanese Nadine Labaki, ‘Il Giardino di Limoni’ di Eran Riklis e ‘Free zone’ di Amos Gitai, entrambi israeliani, i lungometraggi iraniani ‘Il Cerchio’ di Jafar Panahi, ‘Persepolis’ di Marjane Satrapi, ‘Donne senza uomini’ di Shirin Neshat. Lo scorso autunno poi tre film diretti e interpretati da donne arabo-israeliane hanno scosso il panorama cinematografico dello Stato ebraico: il pluripremiato “Sand Storm” (Tempesta di sabbia) della regista israeliana Elite Zexer, “Personal Affairs” di Maha Haj e “In Between” di Maysaloun Hamoud, hanno sfatato degli stereotipi e infranto dei tabù su come la società ebraica israeliana si relazioni con la minoranza palestinese al suo interno. Esiste un movimento femminista trasversale a tutta la comunità musulmana che sostiene la parità di genere come corollario delle disposizioni coraniche che sanciscono l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Come avviene solitamente nei contesti teocratici per altre problematiche sociali, la soluzione della questione femminile richiede un approfondimento teologico, dal quale emergerebbe che non è il Corano a discriminare le donne, ma l’interpretazione che ne viene data. Il paradosso è che questo avviene mentre in Europa il femminismo è spiazzato da tentativi di femminilizzazione del modello maschile: gli uomini infatti per migliorare il loro aspetto ricorrono a mezzi - come la depilazioni e l’uso di creme di bellezza - attribuiti per pregiudizi consolidati solo all’universo femminile.  (pubblicato su L'Azione del 3/3/2017) RR

LE RAGAZZE DI TUNISI: DALLE CURE ALL’ASCOLTO (26-2-2017)

Premessa:
Il desiderio di comunicare questa esperienza è di testimoniare, non come esperta, ma come ascoltatrice e “facilitatrice” (cit. Elena Croce) i discorsi dei ragazzi e delle studentesse dell’ISTITUTO BOURGUIBA des Langues Vivantes dell’università El Manar di Tunisi fondata nel 1965 allo scopo diffondere le lingue e la cultura arabo-islamica.

l Contesto
L’esperienza è iniziata nel nono mese del calendario lunare musulmano (8 luglio 2013) nel Ramadan,mese in cui il Profeta Maometto ha ricevuto Il Corano. In questo periodo in conformità al testo scritto, dall’alba al tramonto si pratica:
-Il Digiuno
-La Preghiera
-L’astinenza sessuale.

L’Accaduto
L’esperienza è nata in seguito ad un fatto accaduto e ad un precipitarsi di eventi: un abbandono scolastico e la sospensione delle lezioni. Una ragazza araba-spagnola era stata molestata ( palpeggiata, disturbata, offesa) dal bibliotecario. Il comportamento era stato sottovalutato dal personale amministrativo soprattutto femminile che avevano dichiarato: “ma tanto lui è così ,lo sappiamo… scherzava”. Alcuni professori, avevano sospeso le lezioni e ritardato gli esami come protesta all’inerzia del Direttore. La ragazza, scossa emotivamente dopo aver pianto per due giorni, era ritornata in Spagna. Era nato un intenso “chiacchierio” tra i giovani fino ad arrivare a degli scontri verbali animati tra ragazze arabe di 2° generazione e altre convertite all’Islam che si presentavano a scuola con il velo totale ”NIGAB”.

Effetti di discorsi e voci di corridoio.
I discorsi sui corridoi hanno provocato effetti diversi:
1) Una posizione privata e introversa che comportava sentimenti malinconici e disinteresse allo studio e al piacere di apprendere di alcune ragazze.
2) Una rivendicazione pubblica dei diritti negati e “rimossi” a cui sono seguiti animati dibattiti ideologici e diatribe coraniche sull’interpretazione dei versetti
delle SURA.

Una richiesta di cura
Alcune ragazze, conoscendo il mio interesse per la psicanalisi (enunciare chi siamo e cosa facciamo è la prima regola di conversazione da imparare in un corso di lingua Araba di sopravvivenza) hanno richiesto una “cura o una medicina per studiare”. Era una domanda? Un bisogno? O una richiesta di garanzia e protezione? Cercavamo forse un diritto che avesse le sembianze di un farmaco? Quale offerta, non dal lato della risposta di cura, poteva essere migliore della “Talking Cure” la cura della parola? Non essendoci le condizioni favorevoli, ma solo il desiderio dell’operatore , la domanda è stata: “Perché aprire un gruppo di ascolto in un contesto istituzionale non analitico? Come utilizzarlo? Era possibile tracciare una traiettoria non rettilinea ,ma rettificabile, verso unpreliminare non all’analisi, ma allo psicodramma? Perché, come ha scritto, R. Gerbaudo: “Lo psicodramma ha come obbiettivo la soggettivazione della domanda e la soggettivazione si basa sulla funzione della parola”.

Una torre di Babele o una pluralità di parlanti?
I partecipanti erano giovani studentesse di seconda generazione ed un ragazzo,cit. “un collettivo sospeso di realtà diverse e conflittuali tra culture familiari e mondi adulti”,ognuno ascoltato individualmente prima di iniziare il percorso: Yu YU: ventenne cinese uscita da casa diciottenne, aveva studiato in Spagna dove ha lasciato un fidanzato con cui era in crisi per la lontananza. Amira : si definiva stilista, tunisina abitante nelle Marche con doppia cittadinanza. Fin dall’inizio ha descritto un rapporto difficile con il padre e la madre che preferiva i fratelli.
Yasmin: tunisina-napoletana,o meglio “la signorina cinicamente cattiva” come si definiva nel suo blog,soffriva di una grave forma di obesità e sentiva la perdita per morte di un fratellino autistico. Enzo: un futuro giornalista inquieto, viveva una storia d’amore con una egiziana senza futuro perché non è “religioso ne convertibile”.
Mirna: giovane araba- belga portava il velo moderato per obbligo familiare.
Fatima: studentessa Tunisina abitante a Parigi, attivista femminista islamica.
Anna: milanese madre di 2 bambini convertita all’Islam perché “aveva sentito la Chiamata”; nei colloqui aveva confidato antipatia verso la sinagoga adiacente al Bourguiba.
Naja:studentessa araba che indossava volontariamente l’“hijab”,velo moderato che copre solo i capelli.

Svolgimento
L’esperienza si è svolta in una stanza vuota dell’ultimo piano della pensione-convitto El Zahara, iniziata con fatica e con difficoltà a comunicare in lingue diverse (Italiano,Arabo e Francese), ma i bisogni hanno prevalso sulle differenze. I primi temi sono stati i diritti alla persona, i diritti umani e da parte di Enzo su cosa avesse fatto la psicanalisi per i diritti delle minoranze , sembrava difficile rompere gli stereotipi e presentarsi: “chi sono? perché sono qui? Oltre il velo tra identità e sicurezza “Perché devo portare il velo?” “Perché mi devo nascondere dallo sguardo della mia famiglia se non lo porto?” Con queste due domande Mirna ha aperto il 3° incontro raccontando di essere obbligata a indossare il velo e frequentare ragazzi dell’Islam su volere della famiglia. Sentirsi obbligata a portare il velo è la stessa condizione di Amira la quale dichiara:“per questo voglio fare la stilista: per disegnare una moda diversa”, ma Amira è ostacolata dalla madre, donna dipendente che vuole tenere la figlia in casa impedendole di trovare lavoro. Mentre per la donna araba tradizionalista il velo è un’obbedienza al testo islamico per le nuove generazioni non è considerato sicuro nella società occidentale. Da questi frammenti si inizia a delineare una figura ideale e non ideale di donna con il velo , non unitaria ma con molteplici identità. Le partecipanti iniziano cosi a raccontarsi in prima persona :
Naja: “è mia madre che ha rifiutato il velo, per me non è chiusura ma emancipazione”. Il nuovo potere delle donne arabe, che però è ostacolato dalle famiglie che impongono ai figli di sposare solo credenti musulmani o convertiti all’Islam. Enzo raccontando la sua esperienza dichiara: “io non voglio convertirmi per sposare la mia ragazza”. Dopo diversi incontri in silenzio, chiusa nel suo spazio privato prende per la prima volta la parola  Anna. “Per me la ragazza ha sbagliato a vestirsi, andava in giro troppo scoperta” riferendosi alla molestia oggetto dell’accaduto. Cita il versetto 31 del Corano per cui la donna deve essere casta e coprirsi. A chi le si rivolge chiedendole:”perché porti il velo totale?” Anna si irrigidisce e inizia a raccontare che il chador conferisce rispetto e dignità alla donna e lei è così perché adesso è un’altra donna, non è più Anna , ha un nuovo nome che ha ricevuto dall’Imam. -E come era Anna prima? Anna si descrive prima della conversione “come tutte le altre, andava in discoteca e vestiva provocante e mio padre non voleva”. Viene proposto ad Anna il gioco di ruolo dello psicodramma.

Il Gioco
Anna descrive il Padre come un uomo più anziano della madre,religioso e devoto alla Madonna; E sceglie Enzo nella parte del padre. La scena si svolge nel momento in cui Anna esce di casa per andare in discoteca e il padre la rimprovera per come è vestita. Anna nella prima parte del gioco, interpretando se stessa, di fronte ai rimproveri paterni abbassa lo sguardo e non risponde. Mentre nel posto del padre Anna appare sicura e accanita contro Enzo che interpreta la parte di Anna,ma cambia il proprio nome con il nome della sorella preferita dal padre,perché accondiscendente. I diversi partecipanti in veste di osservatori notano i passaggi del cambio di ruolo,il sentimento di vergogna e paragonano il padre di Anna all’autorità “nominativa” dell’Imam. Il gioco sembra svelare il dispiacere di una figlia non riconosciuta nel proprio nome e che ora velata è in cerca di altre filiazioni e cittadinanze. Sembra che il gioco sia servito a fare emergere un’ altra verità. La parola verità in greco (aletheia) vuol dire svelamento e visione. In ebraico (emet) vuol dire fare,quindi azione. A questo riguardo Lacan attribuiva alla verità una dimensione fondamentale dell’esperienza analitica,in quanto non ha altro fondamento che la parola. Faceva osservare che la verità è spesso rappresentata come un corpo nudo e grazioso mentre esce in parte dal fango svelandosi e allo stesso tempo nascondonsi. La fine della cura dovrebbe giungere ad una verità incurabile,”una verità non senza sapere” Il Gioco non ristabilisce una verità storica, ma è interessato ai detriti e alle fratture della parola. Il gioco ha infranto lo specchio di Anna per portare alla
luce quello che il velo nasconde,ovvero la questione di una figlia non nominata.

Riflessioni
Questa testimonianza rappresenta ciò che non è psicodramma, ma è all’ interno di una formazione analitica ed etica. Alla domanda esposta da Enzo sul contributo della psicanalisi alla causa dei diritti umani le risposte restano aperte. Ma è forse la roccia della castrazione freudiana che può offrire al soggetto l’occasione d essere libero? In Tunisia dopo la rinascita della Primavera Araba hanno seguito gli Inverni Arabi delle confusioni,delle mancanze di leggi e della paura. I libri di Sigmund Freud e di J. Lacan sono esposti nelle librerie ,ma mancano le pratiche di lavoro analitico. Il paese è povero di servizi sociali,sanitari,di comunità e luoghi di “cittadinanza di parola”. E’ un paese dove il processo di separazione tra la parola del profeta e la parola dell’uomo è stata minata da assalti estremisti. Per un proverbio arabo:”ogni parola è un’ uomo”. Per J. Lacan la parola è l’enigma di un soggetto nell’incontro con l’Altro e F. De Saussure ha paragonato il valore di una parola ad una moneta. Una moneta che circola può produrre uno scambio? Uno spazio limitato di ascolto,ma non di un ascolto qualunque,può sciogliere o aprire nuovi legami sociali?   Dott.ssa Silvana Rosita Leali

EUROPA A DUE VELOCITÀ, SPECCHIO DELLE TENSIONI INTERNAZIONALI
Ha riportato in auge un dibattito avviato una decina di anni fa negli ambienti politici europei la recente presa di posizione del cancelliere tedesco Angela Merkel sulla possibilità di “un'Europa a due o più velocità”. Con questa espressione si intende un rimedio alla mancanza di un consenso unanime fra tutti gli Stati membri dell'UE su un progetto, a causa delle difficoltà strutturali che impediscono ad alcuni di essi la partecipazione al conseguimento di un obiettivo comune. Stabilire una diversa velocità significa limitare la partecipazione al progetto agli Stati idonei, evitando che i non idonei frenino i progressi degli altri. Ad esempio, la parziale adesione dei Paesi europei all'unità monetaria o al Trattato di Schengen ha creato un passo diversificato verso il programma di unificazione comunitaria. Se non fosse stata prevista questa possibilità di scelta, sarebbe bastato il dissenso di un Paese membro ad impedire la conclusione di questi accordi. Questi due esempi, Schengen ed Euro, non sono tuttavia casi di Europa a più velocità, poiché questa non si basa sulla libera opzione dello Stato membro circa la sua partecipazione ad un comune traguardo, ma consiste in una esclusione imposta dalla sua incapacità di essere partner dell'iniziativa. La possibilità di un'Europa a più velocità non ha mai trovato molti consensi perché contraddice di fatto il metodo comunitario, su cui si fonda l'Unione Europea. Prima della costituzione dell'UE (con il Trattato di Maastricht, 1992), gli impegni degli Stati europei erano basati sul metodo intergovernativo, ovvero su patti che si limitavano a regolare gli impegni dei contraenti. Il metodo comunitario presuppone invece un accordo attraverso il quale gli Stati per conseguire i loro obiettivi comuni limitano la loro sovranità con l'istituzione di organi sovranazionali ai quali viene trasferito il potere decisionale su determinate materie. Il metodo comunitario è tipico dell'Unione Europea, un ente con personalità giuridica e propri organi distinti da quelli degli Stati membri. Questa caratteristica distingue l'Unione Europea da molte altre organizzazioni internazionali nelle quali gli Stati membri restano pienamente depositari dei propri poteri decisionali. Creare più velocità è un implicito riconoscimento della disomogeneità fra gli Stati dell'Unione Europea: inoltre con questa scelta strategica, anziché promuovere la solidarietà fra i Paesi più forti e quelli più deboli, si creano posizioni differenziate e privilegiate. Al contrario la solidarietà fra gli Stati membri è la premessa per una ritrovata consapevolezza dei cittadini europei di essere parte di un destino comune. RR (pubblicato su 'L'Azione' del 24/2/2017) RR

SCHENGEN, GARANZIE PER TUTTI SE APPLICATO IN MODO UNIFORME (pubblicato su 'L'Azione' del 17/2/2017)
Le recenti misure previste dal governo per contrastare l'immigrazione clandestina si inseriscono idealmente nel quadro più ampio della disciplina della libera circolazione delle persone prevista dal Trattato di Schengen. Vista l'emergenza terroristica, nei media si critica spesso la libertà di circolazione per il timore che soggetti pericolosi possano entrare in Europa e spostarsi a loro piacimento, senza tuttavia precisare che l'Accordo di Schengen prescrive un'ampia gamma di misure compensative finalizzate alla prevenzione e al contrasto del crimine. Oltre a potenziare la collaborazione fra le polizie nazionali (che possono avvalersi di una comune banca dati costantemente aggiornata) e quella fra le autorità giudiziarie degli Stati membri, per rendere più efficaci lo scambio di informazioni e il coordinamento operativo, l'Accordo prevede il rafforzamento delle frontiere europee esterne, che in ogni loro articolazione devono garantire controlli puntuali, efficienti e, soprattutto, uniformi. É proprio infatti l'attuazione difforme o parziale dei dispositivi in alcuni tratti della frontiera a rendere più vulnerabili i confini e a creare il rischio di ingressi illegali. Purtroppo l'obiettivo di una comune strategia nella gestione dei confini esterni dell'Unione Europea è fortemente compromesso dalle iniziative unilaterali di alcuni Paesi che fin dal 2015, per difendersi dall'arrivo massiccio di richiedenti asilo, hanno iniziato a costruire barriere o sono ricorsi al ripristino dei controlli alle frontiere con altri Paesi comunitari, consentito dalla Convenzione di Schengen per temporanee esigenze di sicurezza e di ordine pubblico. Alcuni Stati hanno anche preso in considerazione il ricorso all'art. 26 del Codice Schengen, che prevede la possibilità di attivare i controlli alle frontiere interne per un periodo massimo di due anni. Tali iniziative, sollecitate dalla recrudescenza di nazionalismi ed istanze xenofobe, incidono sulla scelta delle destinazioni delle rotte migratorie, che si concentrano verso Paesi, come l'Italia, ritenuti maggiormente accessibili. È evidente che la gestione dei flussi migratori debba essere affrontata globalmente, attraverso scelte strategiche unitarie, così come previsto dallo spirito dell'Accordo di Schengen. Il recente pacchetto di misure sull'immigrazione varato dal Governo è perfettamente in linea con questo spirito perché riguarda esclusivamente le procedure per accertare le condizioni che consentono la permanenza dei migranti nel nostro territorio, lasciando inalterato il quadro normativo corollario dell'adesione alla Convenzione di Schengen. RR

VELO ISLAMICO, IL CRINALE SOTTILE FRA IDENTITÀ E DIRITTO (pubblicato su 'L'Azione' del 10/2/2017)
Si torna a parlare della compatibilità con le leggi vigenti dell'abbigliamento delle donne musulmane dopo l'approvazione in Austria di una legge che vieta il velo islamico integrale. In Francia, dopo essere entrata in vigore nel 2011 una legge che vietava di coprirsi integralmente il volto in pubblico, un facoltoso imprenditore franco-algerino ha deciso di provvedere al pagamento delle multe applicate alle donne che trasgredivano la prescrizione. Ma in seguito il governo francese, pur di scoraggiare l'uso del velo con le norme sanzionatorie, ha approvato un emendamento che impedisce di farsi carico di sanzioni altrui. C'è da dire che la scelta di indossare il niqab (il velo islamico che occulta completamente il volto) piuttosto che l'hijab (che copre solo i capelli) ha un carattere prevalentemente culturale e non religioso. Il Corano infatti invita le donne solo a vestirsi in modo sobrio e moralmente conveniente. Un dovere che dovrebbe dunque esser declinato dalle consuetudini locali. Perciò l'adozione di un abbigliamento che occulta l'identità è il prodotto di un'interpretazione integralista e particolarmente rigorosa di usi ritenuti di matrice religiosa. L'abbigliamento è anche un mezzo attraverso il quale le donne musulmane rivendicano l’appartenenza a una cultura diversa da quella occidentale, manifestando il rifiuto dell’omologazione occidentale e della sua laicità. L'incompatibilità del velo islamico con le normative vigenti è giustificato dalle esigenze di pubblica sicurezza: oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, esso potrebbe consentire l'occultamento di armi, materiale esplodente, oggetti non consentiti. In Italia manca ancora una legge statale in materia ma l'art. 5 della legge 22/5/1975 vieta l’uso, 'senza giustificato motivo', di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo che impedisca il riconoscimento della persona in pubblico. É opportuno chiedersi se il rispetto di un principio di carattere religioso o culturale possa costituire un 'giustificato motivo' per l'adozione di un abbigliamento che nasconda la propria identità. In passato il Consiglio di Stato ha stabilito che la matrice religiosa può essere un giustificato motivo per l'uso in pubblico di qualsiasi tipo di velo islamico che copra il viso. É un parere tuttavia che alla alla luce dell'attuale livello della minaccia terroristica andrebbe rivisto. Il divieto di indossare il velo islamico integrale in pubblico è oggi in vigore in Belgio, Francia, Olanda e in alcuni cantoni della Svizzera. Nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha precisato che questi provvedimenti non ledono la libertà di religione. Resta sullo sfondo il più generale problema di come conciliare fede, cultura, libertà, diritti individuali e sicurezza collettiva. RR

QUEBEC CITY, SE LA PROPAGANDA PLAGIA MENTI DEBOLI (pubblicato su 'L'Azione' del 3/2/2017)
La sera del 29 gennaio il Centro culturale islamico di Quebec City è stato oggetto di un attacco terroristico che ha avuto un bilancio provvisorio  di sei morti e otto feriti. Per la strage è stato incriminato un cittadino franco-canadese che ha dichiarato di essere un ammiratore di Donald Trump, di Marine Le Pen, delle forze di difesa israeliane. Ad essa è stato attribuito un movente islamofobo. Questo crimine, congiuntamente ad alcuni recenti discussi provvedimenti del neopresidente americano, rende di nuovo attuale il dibattito sull'esistenza o meno di uno scontro fra l'identità culturale del mondo occidentale e quella del blocco delle nazioni islamiche.  La contrapposizione fra i Paesi islamici e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica. Questo attentato e i precedenti di matrice islamica sono stati prevalentemente compiuti da soggetti non appartenenti ad aggregazioni terroristiche: sono stati quindi esclusivamente il prodotto dell'efficacia suggestionante di una propaganda mediatica che ha causato effetti devastanti su menti che per vari motivi erano predisposte a recepirne i contenuti. Gli autori di questi atti, in quanto non strutturati in gruppi terroristici, sono stati definiti cani sciolti. Si tratta di una definizione impropria poiché questi attentatori, pur non essendo incardinati in cellule terroristiche, fanno parte di un sistema virtuale, integrato da una rete ipotetica di soggetti che unilateralmente si dichiarano emissari di un'ideologia di carattere politico o confessionale. Dall'esame delle loro personalità si è rilevato che questi criminali spesso sono afflitti da gravi problemi personali che li confinano ai margini della comunità, oppure sono vittime del disorientamento causato dalla mancanza di valori di riferimento. Pertanto utili strumenti di prevenzione avanzata, accanto alla più mirata azione dell'intelligence, sono le politiche di integrazione, che dovrebbero neutralizzare il  loro risentimento verso una società che sentono ostile o nei confronti della quale si sentono inadeguati. Il carattere isolato e individualistico di queste iniziative criminali contraddice le tesi su un presunto scontro di civiltà nell'attuale conflittualità fra Islam e Occidente. Se il conflitto fosse strutturale, infatti, questi individui dovrebbero essere esponenti di realtà più ampie e complesse. Al contrario la motivazione di questi atti è radicata solo in condizioni o vicende personali, mentre la matrice confessionale o ideologica rimane sullo sfondo. RR

TRUMP E IL MEDIO ORIENTE (29-1-2017)
E' prematuro fare previsioni sulle scelte di politica estera che saranno compiute dal neopresidente USA Donald Trump nello svolgimento del suo mandato. Non possono essere considerate dirimenti le indicazioni fornite durante la campagna elettorale: come è nella logica dell'essenzialità della propaganda, che è strumentale solo ad ottenere il consenso degli elettori, tali indicazioni sono state enfatizzate a prescindere dagli aspetti problematici conseguenti alla pratica attuazione nella specificità dei contesti. Si deve tener presente che le scelte di Donald Trump risentiranno della sua esperienza professionale: il neopresidente americano non proviene dalla politica, né dall'alta amministrazione, ma è esclusivamente un imprenditore di successo: presumibilmente quindi sarà la logica della convenienza economica a guidare le sue opzioni strategiche. Donald Trump, come parte dell'opinione pubblica americana, considera negativamente l'accordo raggiunto con Teheran sul programma nucleare. Questa posizione riflette un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell'Iran, condiviso dallo staff dei suoi collaboratori recentemente nominati. Il dossier iraniano tuttavia va valutato con molta attenzione. L'Iran sta uscendo dall'isolamento nel quale lo avevano relegato l'embargo e l'interruzione delle relazioni commerciali, per tornare ad essere un interlocutore per molti Paesi europei. La Repubblica iraniana potrebbe essere quell'alleato strategico nel mondo islamico di cui l'Occidente ha un bisogno vitale: la sua adesione all'Islam di tipo sciita la rende un partner affidabile per contrastare le derive jihadiste e le ambiguità delle monarchie sunnite del Golfo, che con difficoltà dissimulano la loro pericolosa prossimità ideologica con gli ambienti del fondamentalismi islamico; questa 'contiguità' si concreta in un supporto politico ed economico. È noto che l''Iran è stato in passato una centrale del terrorismo internazionale finanziando gruppi sciiti, in particolare gli Hezbollah, e movimenti sunniti, segnatamente Hamas: l'integrazione nel contesto geopolitico renderà difficile queste pregresse derive. È probabile che l'amministrazione americana subirà pressioni per il mantenimento dell'accordo da parte di multinazionali e colossi industriali, che hanno concluso accordi commerciali con partner iraniani. È comprensibile che anche Israele consideri l'accordo con l'Iran un grave errore. Tuttavia i tempi sono maturi per la stabilizzazione e la normalizzazione delle relazioni di Israele con il mondo arabo attraverso l'implementazione degli accordi di Oslo, per il riconoscimento dello Stato palestinese, e quello di Israele da parte dei Paesi arabi e islamici. Sarebbe auspicabile, anche se appare poco probabile, che gli Stati Uniti, con l'eventuale supporto del neoalleato russo, svolgano una mediazione finalizzata a questa composizione di interessi. Con l'ascesa di Donald Trump Israele tornerà ad essere un alleato fondamentale per la diplomazia statunitense. Se questo però si tradurrà in un appoggio al leader del Likud Netanyhau, si allontanerà la prospettiva di un accordo fra Israeliani e Palestinesi, che sembra avere come unica possibilità la costituzione di due Stati, ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano. In proposito la reiterata attualità del paventato spostamento dell'ambasciata statunitense presso Israele da Tel Aviv a Gerusalemme non è un atto di distensione che va in questa direzione, dal momento che i Palestinesi rivendicano Gerusalemme come loro capitale. La crisi siriana ha un'importanza centrale nell'attuale contesto geopolitico. Trump eredita la gestione poco incisiva, incerta, poco lungimirante del suo predecessore. L'amicizia di Trump con Putin e la prospettiva di una reciproca collaborazione cambia completamente lo scenario consentendo di ipotizzare azioni militari congiunte, soprattutto per contrastare lo Stato Islamico. L'alleanza fra Russia e Usa rafforza Bashar Al Assad e avvicina la prospettiva di una soluzione negoziata del conflitto siriano. Gli Stati Uniti, attraverso l'intesa con la Russia, si ritrovano di fatto ad essere alleati dell'instabile Turchia e dell'Iran, in un contesto, quello del vicino Medio Oriente, caratterizzato da delicati equilibri. Donald Trump, dopo il riavvicinamento degli Usa all'Iran (a seguito dell'accordo sul nucleare) dovrà trovare il modo di rassicurare della sua amicizia le monarchie sunnite del Golfo, che presumibilmente continueranno ad essere strategicamente alleate degli Usa, e che si contendono con l'Iran la leadership nel mondo islamico. L'appoggio alla Siria non inciderà sui rapporti con Israele, che è sempre rimasto fuori dai conflitti di difficile gestione e ad esito incerto, soprattutto se non interessano direttamente la propria integrità territoriale: ricorrono le condizioni che inducono lo Stato ebraico a rimanere estraneo alle vicende belliche siriane. RR

RADICALIZZAZIONE DELL'ISLAMISMO O ISLAMIZZAZIONE DEL RADICALISMO? (18-1-2017)
Si è spesso affermato che gli attentati jihadisti siano supportati da una visione radicale dell'Islam, ovvero da un modello che impone una militanza - che si avvale anche dell'uso della violenza - con l'obiettivo di instaurare una società ispirata  ai principi del Corano interpretati in maniera letterale. Questa tesi viene comunemente sintetizzata con l'espressione radicalizzazione dell'islamismo[i]. Tuttavia, dall'esame delle personalità degli autori delle stragi jihadiste si è rilevato che essi spesso hanno  gravi problemi personali, che li confinano ai margini della società, vittime di un diffuso malessere e di un disorientamento causato dall'assenza di valori di riferimento. Questa condizione, caratterizzata anche da un vuoto ideologico, produce  una visione relativistica in un contesto di diffuso nichilismo, radicalizzando un atteggiamento critico nei confronti della società. Diversamente l'Islam nella sua interpretazione fondamentalista offre un modello che, seppur discutibile, si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il proprio senso di inadeguatezza. Conseguentemente la contestazione radicale della nostra società è esposta ad un processo di islamizzazione. Questa evoluzione può essere descritta come islamizzazione del radicalismo, in parziale contrapposizione alla già menzionata radicalizzazione dell'islamismo. Questa diversa lettura del fenomeno alla base di derive terroristiche individuali indica che la penetrazione della cultura islamica fondamentalista non è il risultato di una preordinata aggressione esterna, ma è la conseguenza di suggestioni che occupano il vuoto etico di una civiltà in decadenza, che vive costantemente contraddizioni interne, e che è passivamente esposta ad ogni tipo di influenza, prostrata da una crisi che si declina nella cultura, privata della capacità di evolversi positivamente a causa della mancanza di una dialettica costruttiva fra le forze politiche. RR


[i] Convenzionalmente con il termine 'islamismo' si intende l'Islam considerato come ideologia politica.

TERRORISMO E SINDROME DI ULISSE (12-1-2017)
Sfogliando per caso una rivista divulgativa di psichiatria, inaspettatamente ho


trovato un articolo che conteneva un interessante contributo al chiarimento della controversa questione dei rapporti fra immigrazione illegale e terrorismo. La questione - come ormai avviene abitualmente in Italia - è oggetto di una visione 'polarizzata', ovvero di opinioni simmetricamente opposte senza soluzioni intermedie. Mentre alcuni sostengono che, mediante i flussi migratori, terroristi di matrice islamica possano facilmente introdursi nel nostro Paese, altri escludono questa possibilità. In realtà è poco probabile che un terrorista addestrato, ovvero oggetto di un sensibile investimento in attività di formazione, possa affidarsi alla lotteria dei viaggi con i barconi impiegati dai clandestini: per raggiungere l'Europa questi individui possono utilizzare rotte più comode, valersi di connivenze, procurarsi senza troppe difficoltà documenti contraffatti. Tuttavia può accadere che un migrante clandestino, giunto in Italia con mezzi di fortuna, trovi nel nostro Paese condizioni favorevoli per la sua radicalizzazione. Così, ad esempio, è avvenuto per Anis Amri, il giovane tunisino responsabile dell'attentato a Berlino del 19 dicembre 2016. Il terrorista, approdato nel febbraio 2011 a Lampedusa insieme ad altri profughi, successivamente fu coinvolto in alcuni disordini, a seguito dei quali venne condannato a quattro anni per minacce aggravate, lesioni personali e incendio doloso, ed espulso nel 2015 (il provvedimento tuttavia non venne attuato). Prima di arrivare in Europa Anis Amri non era un estremista religioso: progressivamente si radicalizzò, prima in Italia durante i quattro anni passati in carcere, poi in Germania a seguito di contatti con una rete di fondamentalisti islamici. La sindrome di Ulisse è caratterizzata da sintomi di natura psicosomatica, che sono la conseguenza del malessere psichico, dello smarrimento, del senso di fallimento e di perdita dell'identità, che può provare chi abbandona il proprio Paese per trasferirsi in una nuova realtà. La condizione di stress conseguente allo scomodo e incerto 'trasferimento' mediante carrette del mare, e alle successive difficoltà di inserimento e alla frustrazione delle aspirazioni 'di normalità', rendono questi individui particolarmente vulnerabili alle suggestioni e al proselitismo della propaganda jihadista, che fornisce loro delle certezze che si surrogano alla situazione di precarietà. Questa tesi suggerisce due conclusioni. Innanzitutto le politiche di integrazione potrebbero essere il più efficace antitodo contro le derive terroristiche che hanno come presupposto il disorientamento e la sensazione di estraneità che consegue alla sindrome di Ulisse. Inoltre, limitatamente a questi casi,  la tesi in questione, che sottolinea l'influenza dei disagi conseguenti alle migrazioni, ridimensiona l'importanza dell'Islam come fattore scatenante quel processo di radicalizzazione di giovani musulmani, che può avere come esito il loro reclutamento alla causa 'jihadista'. Questo processo sarebbe alimentato dall'aspirazione ad una malintesa emancipazione e ad un riscatto che avrebbe natura politica e sociale, ma non religiosa. RR

LA MEZZALUNA E LA SVASTICA (10-1-2017)
Come ogni anno il 27 gennaio sarà celebrato il Giorno della Memoria in commemorazione delle vittime dell'Olocausto; si tratta di una ricorrenza internazionale istituita a seguito di una Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2005 (60/7). In relazione alla recente recrudescenza dei contrasti fra Israeliani e Palestinesi è tornata di attualità la problematica circa le radici storiche dell'antisionismo arabo. Un'ampia letteratura approfondisce l'ufficiosa alleanza fra Nazismo e Islamismo radicale. Il saggio di David G. Dalin e John F. Rothmann dal suggestivo titolo 'La mezzaluna e la svastica', uscito in Italia nel 2009, esamina il ruolo svolto in questo contesto dallo spregiudicato leader islamico Hag Amin Al Husayni, che nel 1921 venne nominato, con il decisivo appoggio delle autorità inglesi[i], Gran Muftì di Gerusalemme, di fatto la suprema autorità politica dei musulmani sunniti. Al Husayni, predicatore dell'Islam wahabita, è considerato il padre del moderno fondamentalismo islamico e della militanza organizzata contro gli Ebrei[ii]. Fu ammiratore di Hitler con il quale ebbe numerosi contatti. Condividendo la  politica nazista antisemita in quanto considerava le aspettative ebraiche un ostacolo all'affermazione del nazionalismo arabo[iii], strinse un accordo con il regime tedesco in virtù del quale 100.000 musulmani avrebbero combattuto come volontari per la causa tedesca. Al Husayni manifestò in varie occasioni un'inclinazione ad offrire un supporto alla politica nazista con l'obiettivo primario di impedire l'esodo ebraico verso la Palestina, preferendo che gli Ebrei venissero avviati ai campi di concentramento nella prospettiva della 'soluzione finale'. Fin dal 1933 si costituirono in medioriente gruppi politici di ispirazione arabo-nazista, come lo 'Young Egypt', guidato da Abdul Gamal Nasser, futuro Presidente dell'Egitto; lo slogan di queste formazioni politiche era 'un popolo, un partito, un leader', lo stesso motto dei nazisti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Al Husayni ebbe intensi rapporti con Sayyid Qutb e con Hasan Al Bannah, rispettivamente teorico e fondatore dei 'Fratelli Musulmani', movimento profondamente antisemita, di cui divenne un membro particolarmente attivo. Fu successivamente mentore di un giovane che diventerà un protagonista delle questione mediorientale, ovvero Yasser Arafat. Di questo idillio storico fra Islam radicale e nazismo residuano tuttora delle inquietanti tracce. Il 'Mein Kampf' di Hitler è un libro diffuso e molto letto nel mondo arabo. Questa circostanza non è casuale, ma riflette un'affinità concettuale: la nozione nazista della superiorità della razza ariana è stata surrogata dal fondamentalismo islamico con la supremazia dei popoli illuminati dall'Islam, che da religione si è trasformato in un'ideologia politica che giustifica la conquista del mondo, i cui presupposti sono l'aggressione e lo sterminio degli infedeli, a cominciare dall'eccidio degli Ebrei già pianificato dai nazisti. Lo scrittore Hermann Hesse riteneva che in generale l'odio contro gli Ebrei fosse un complesso mascherato di inferiorità[iv]. Questa considerazione acuta pur nella sua astrattezza ha valore soprattutto con riferimento all'antisemitismo nazista; quello arabo è invece connotato anche da motivazioni politiche e religiose. La persistente ombra nazista sul radicalismo islamico ha spinto il funzionario arabo (giordano) Zeid Raad Al Hussein, Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, nel febbraio del 2015 a dichiarare che "....tutti noi dobbiamo ricordare quello che hanno fatto i nazisti al popolo ebraico perché lo Stato Islamico vive e si nutre di quella stessa ideologia nazista improntata sullo sterminio". RR




[i] La Palestina era allora sotto il mandato britannico.

[ii] Ebreo o ebraico? Il termine 'ebreo' ha natura sia di sostantivo che di aggettivo. Come aggettivo è specifico dell'etnia. Il termine 'ebraico' ha natura di aggettivo e si usa in tutti i casi eccetto quelli in cui è più corretto e l'uso di 'ebreo'.

[iii] Infatti con la fine del Califfato Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, gli Ebrei della diaspora si sentirono incoraggiati a raggiungere la 'terra promessa' come premessa per la futura costituzione di uno Stato ebraico, che avrebbe tolto alla regione interessata la natura di 'dar al Islam',  territori dell'Islam.

[iv] Più precisamente Hermann Hesse nel 1958 scriveva: "L’uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l’uomo colto è primitivo. Anche l’odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull’insicurezza e sulla paura. L’odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un’altra razza sentono un’invidia che nasce dalla concorrenza e un’inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza."

IL FONDAMENTALISTA ISLAMICO COME PERDENTE RADICALE (7-1-2017) 
Nel 2007 fu pubblicato il libro "Il Perdente Radicale", scritto da Hans Magnus Enzensberger, un raffinato intellettuale tedesco molto attento all'analisi delle  congiunture storiche e all'approfondimento critico delle culture che dialetticamente le caratterizzano. Le riflessioni contenute nel saggio - che già allora destarono molto interesse - sono di particolare attualità in relazione al preoccupante aumento esponenziale di attentati compiuti da elementi suggestionati da una incontenibile acredine nei confronti del consesso sociale. L'intellettuale tedesco  rileva che una costante patologia della società occidentale nelle sue evoluzioni e varianti storiche è stata la presenza di soggetti che, non integrati per diverse contingenze e accumulando una frustrazione resa insostenibile da un disperato nichilismo, si esaltano nel progettare e realizzare delitti per 'punire' indiscriminatamente quella collettività che ritengono scientemente responsabile della loro emarginazione. In una condizione di silenziosa afflizione questi individui sono il sedimento di un incontenibile odio nei confronti della comunità e delle non condivise manifestazioni della cultura dominante. L'esasperazione della loro avversione nei confronti della società, unita all'isolamento e all'incapacità di affrontare le contraddizioni e le sfide della vita  ordinaria rendono tali individui dei 'perdenti'; questo sentimento negativo si radicalizza integrando il presupposto per crimini abnormi, nei quali distruzione e autodistruzione si compenetrano per perseguire l'obiettivo estremo dell'apocalittica fine dell'intera civiltà. Le iniziative di questi terroristi consistono principalmente nell'assassinio individuale o di massa anche al prezzo della propria vita. Premesse queste considerazioni, la tipologia del perdente radicale è particolarmente varia. Con efficace sintesi sulla copertina del libro si legge: "....Il perdente radicale ha mille volti. È qui. È il padre che stermina la famiglia. È il soldato nazista. È il kamikaze islamista che progetta il suicidio di un'intera civiltà...".  Il saggio fornisce un apprezzabile contributo alla comprensione delle iniziative terroristiche di matrice islamica, e soprattutto all'analisi dei presupposti delle azioni dei cosiddetti 'lupi solitari' o 'cani sciolti'. In proposito, la definizione di 'lupi solitari', ormai convenzionalmente entrata nell'uso corrente, è concettualmente errata. Il 'lupo solitario', pur non essendo incardinato nell'organico di un gruppo terroristico, fa parte di un sistema, i cui pilastri sono la propaganda fondamentalista - che si articola sfruttando accuratamente le potenzialità multimediatiche e quelle della Rete - e la diffusione di un appello alla 'jihad' contro l'Occidente diretto a tutti i musulmani. Prima della strage di Nizza, Abu Muhammad Al Adnani, morto il 30 agosto 2016, già portavoce del sedicente Califfo Al Baghdadi, aveva detto: "Preparatevi, siate pronti: portate disastro ovunque per gli apostati. Loro non fanno distinzione tra civili e soldati, ricordatelo!".  RR

LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE DEL 23 DICEMBRE 2016 (30-12-2016)
Il 23 dicembre scorso (2016) il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una Risoluzione, sollecitata dalla Nuova Zelanda, dalla Malesia, dal Senegal e dal Venezuela,  che chiede al Governo di Israele di 'interrompere ogni attività' di incremento di insediamenti nei cosiddetti 'territori occupati' e a Gerusalemme est, giudicando l’occupazione 'senza validità legale' e dannosa per l'auspicato processo di pace. A favore della Risoluzione hanno votato 14 Paesi su 15 (Membri del Consiglio), mentre gli Stati Uniti hanno deciso di astenersi. In proposito, la Rappresentante Permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha precisato che è contraddittorio promuovere iniziative per un accordo fra le due etnie e nello stesso tempo tollerare la politica di ampliamento degli insediamenti. La Risoluzione, anche se ha creato molto rumore soprattutto per la dura reazione israeliana, ribadisce semplicemente quanto già in passato questo  consesso internazionale aveva  affermato, ovvero l'illiceità della politica espansionistica israeliana. L'astensione statunitense è stata fortemente criticata dall'attuale Primo Ministro israeliano Netanyahu che ha definito 'vergognosa' la Risoluzione, precisando che non osserverà la richiesta contenuta nella determinazione del Consiglio 'di interrompere ogni attività'.  Il leader israeliano ha inoltre aggiunto di confidare nell'imminente inizio del mandato presidenziale USA di Donald Trump, che si insedierà a fine gennaio. Le preannunciate posizioni di Trump, a cominciare dall'amicizia con Putin e dal sostegno alla Siria di Assad, determineranno grandi cambiamenti negli equilibri mediorientali. Il carattere aggressivo della reazione di Benjamin Netanyahu probabilmente fa affidamento sul possibile appoggio del prossimo presidente americano, come peraltro si evince indirettamente dalle sue stesse parole. Tuttavia, se è certo che Trump rafforzerà l'amicizia americana con Israele, non è altrettanto sicuro che questo atteggiamento si spingerà fino a condividere la desueta e anacronistica linea politica del Likud al momento al potere nello Stato Ebraico, considerato anche il carattere molto volubile delle esternazioni del neopresidente USA. Il Segretario di Stato USA John Kerry in un discorso  dai toni forti tenuto il successivo 28 dicembre, pur confermando l'amicizia nei confronti di Israele, ha fortemente censurato gli insediamenti israeliani nei territori occupati precisando che queste iniziative, alimentando  tensioni fra Israele e l'Autorità Palestinese, ostacolano gravemente il processo di pace in Medio Oriente, che sembra avere come unico possibile obiettivo finale la costituzione di due Stati (ovvero quello palestinese accanto a quello israeliano). RR

L'IRAQ E L'ARTE BELLICA (16-12-2016)
Recentemente Al Jazeera, la tv satellitare del Qatar, ha trasmesso un interessante servizio, l'Iraq e l'arte della guerra, su due noti artisti iracheni, le cui opere al momento sono esposte a Doha. Si tratta di Dia Al Azzawi e di Mahmoud Obaidi. I loro lavori si propongono come interpretazioni, da un punto di vista creativo, dei recenti tragici avvenimenti mediorientali. Nell'intervista resa all'emittente araba Dia Al Azzawi e Mahmoud Obaidi si soffermano in  particolare sui massacri e sulle distruzioni che dilaniano l'Iraq, sede 7000 anni fa di una delle più antiche civiltà. La difficile condizione del Paese, sconvolto da una decennale guerra, è vissuta dagli iracheni con un senso di rassegnazione e approssimativa neutralità rispetto alle parti in conflitto, quasi essi fossero assuefatti e indifferenti al degrado in atto. L'Arte, con il suo linguaggio non convenzionale, pertanto ha la responsabilità di risvegliare in quel popolo un senso di consapevolezza che stimoli una reazione che contrasti la tentazione di sentirsi parte di un cosmo che non ha futuro. I movimenti artistici, sebbene traggano ispirazione da questa realtà, sono entità esterne, quasi estranee, perchè nascono e si sviluppano all'estero, dal momento che gli artisti mediorientali ormai vivono quasi tutti in Paesi occidentali.  Mahmoud Obaidi è un apprezzato scultore concettuale: con la sua mostra 'Frammenti' ha esplorato la distruzione e il saccheggio del suo Paese, producendo opere che ripetono manufatti, presenze, dettagli che evocano una Baghdad parcellizzata e violentata dalla drammatica aggressione bellica; utilizza superfici e materiali ricoperti di ruggine, perchè è così - dice - che vede l'Iraq ora. Obaidi cita una sua opera che raffigura la statua della libertà appesa con una corda al soffitto che sembra manovrata in maniera sinistra e incombente, che è metafora dell'invasione subita dai territori iracheni. Con una scultura composta da una testa di Bush, circondata da  scarpe, ha invece celebrato un noto episodio: quando, durante un discorso del ex Presidente americano, un giornalista iracheno gli scagliò contro le sue scarpe. Dia Al Azzawi ha avuto invece una formazione culturale profonda e globale, che comprende anche studi di archeologia, grazie ai quali ha potuto lavorare per due anni per il museo archeologico di Mosul. La distruzione sistematica nel 2015 da parte dell'Isis dei reperti ivi esposti, molti dei quali provenienti dalle rovine della città assira di Hatra, ha cancellato  una parte fondamentale della memoria degli iracheni. E il popolo di un Paese senza memoria è disorientato e più debole, perchè è compromessa e resa incerta la sua identità: questo probabilmente, oltre alla lotta all'idolatria, è il vero fine delle scelleratezze dello Stato Islamico.  Con le sue opere Dia Al Azzawi realizza una  ricognizione dei momenti fondamentali della storia irachena, che dice radicata nel profondo della sua anima. Le sue grandi superfici, talvolta monocromatiche, con intense raffigurazioni che si avvalgono di un linguaggio tenacemente simbolico, suscitano profonde suggestioni. Dal servizio di Al Jazeera emerge l'importanza dell'impegno morale dell'Arte e della Cultura nella ricostruzione dell'identità di un popolo travagliato dalle vessazioni della storia. La prima vittima della guerra è sempre la verità. RR

Iraq e Art of War (video) - https://vimeo.com/195265238

Al Jazeera (sito) - http://www.aljazeera.com/

Dia Al Azzawi (opere) - http://www.azzawiart.com/

Mahmoud Obaidi (opere) - http://www.obaidiart.com/

AUTISMO: NORMALITA' NON CONVENZIONALE (11-12-2016)
Ieri, 10 dicembre 2016, su invito e organizzazione dell'Accademia Rousseau, si è svolto a Terni un incontro con Valentina Rapaccini, specializzanda in Neuropsichiatria Infantile, su 'Autismo: Normalità non convenzionale', alla presenza di un pubblico qualificato e numeroso. L'evento si inserisce in un trend di manifestazioni culturali molto interessanti che si sono tenute recentemente nella città umbra. In particolare mi riferisco alla mostra dell'artista Grazia Cucco presso l'Accademia Rousseau e a quella del giovane, bravissimo Giosuè Quadrini presso la Galleria Forzani, nonchè alla Conferenza sui conflitti moderni e la minaccia jihadista, a quella sull'etica dei nuovi media rispettivamente organizzate dai Lions, e dal G.O.I. Valentina ha trattato il tema in maniera globale, ovvero, con ampi riferimenti storici, umanistici e culturali. Personalmente ho particolarmente apprezzato il concetto, elaborato da Valentina, di autismo come 'normalità non convenzionale', e non come malattia, dal momento che questi disturbi concernono soggetti che talvolta hanno un quoziente intellettivo superiore alla media, ma, mentre in essi alcune qualità possono essere esaltate, altre manifestano un deficit. In altri termini si tratta di bambini che non si conformano a quei parametri che consideriamo la norma solo perché sono espressione dei comportamenti della maggioranza dei loro coetanei. Questo concetto richiama le battaglie dell'antipsichiatria nella seconda metà degli anni '70 ai tempi della 'legge 180', detta anche legge Basaglia, lo psichiatra che ebbe il coraggio di affermare che i manicomi non rispondevano ad esigenze terapeutiche, ma solo ad egoistiche necessità di difesa sociale. Valentina ha anche trattato ampiamente e da un punto di vista storico l'evoluzione del concetto di malattia mentale. Nel corso dell'incontro sono stati proiettati brani del film indiano Stelle sulla terra, che racconta la storia di un bambino dai tratti geniali, affetto da dislessia e disturbi dello spettro autistico, e il piccolo capolavoro di animazione “Mon petit frère de la lune”, che rappresenta la descrizione di un bambino autistico da parte della sorella: un fratellino che guarda sempre la luna, perché secondo lei forse è da lì che proviene. Fa cose strane, che però nella narrazione della sorellina non hanno nulla di inquietante o problematico: sono semplicemente bizzarre, curiose, divertenti. Al termine della presentazione i presenti hanno formulato molte domande che hanno riguardato soprattutto risvolti pratici ed esperienze personali e professionali, per lo più concrete, con bambini affetti da questi disturbi. I quesiti sono venuti per lo più da insegnanti, che anche nell'occasione hanno mostrato la loro sensibilità per queste problematiche, come ha anche sottolineato Valentina. È emerso che l'autismo è ancora un mondo tutto da esplorare. Come dice lo scrittore francese Daniel Pennac, è proprio quando si crede che sia tutto finito, che tutto comincia. RR.

ISRAELE NELL'ATTUALE CRISI MEDIORIENTALE (1-12-2016)
Domenica 27 novembre sulle Alture del Golan, al confine con la Siria, c'è stato il primo scontro fra esercito israeliano e combattenti di Daesh; in particolare alcuni terroristi sono stati uccisi dopo aver  attaccato  una pattuglia di militari. Gerusalemme ha risposto bombardando alcune postazioni dello Stato Islamico, uccidendo i miliziani fondamentalisti. Il raid aereo ha avuto come obiettivo un edificio originariamente appartenente alle Nazioni Unite, ma successivamente passato sotto il controllo di forze jihadiste. L'aggressione ai soldati israeliani probabilmente è stata decisa in autonomia da appartenenti del gruppo 'Shuhada al Yarmouk', che ha giurato fedeltà all'Isis e che opera in una stretta fascia di territorio al confine tra Siria e Israele. Come è noto, Israele si è impossessato nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, delle Alture del Golan, che allora erano in territorio siriano. Nonostante la reciproca ostilità fra Israele e Stato Islamico, il recente scontro del 27 novembre deve essere considerato un caso isolato e non un cambiamento di strategia del sedicente neocaliffato, in quanto sia Israele e sia lo Stato Islamico non hanno mai ritenuto  opportuno aprire un fronte l'uno contro l'altro. Israele inoltre ha sempre accuratamente evitato il proprio coinvolgimento nella guerra siriana: questa opzione  presumibilmente ha una duplice motivazione. Innanzitutto il governo di Gerusalemme ha sempre apprezzato i buoni rapporti con l'asse sunnita al fine di controllare la minaccia siriana, conservando tuttavia nello stesso tempo una posizione neutra ed equidistante nella contesa fra sciiti e sunniti. Inoltre Israele, per tenere elevata la sua deterrenza militare nei confronti dei nemici storici, evita iniziative che possano incidere negativamente sulla sua reputazione di rivale temibile, lucido e determinato nel contrastare qualsiasi aggressione alla sua esistenza. Per supportare questa dissuasività strumentale alla propria autodifesa, Israele è sempre rimasto fuori dai conflitti di difficile gestione ed esito incerto (ovvero che esulano dal suo controllo nonostante il proprio potenziale militare), soprattutto se non interessano direttamente l'integrità territoriale. In relazione a quanto premesso ricorrono le condizioni che inducono lo Stato ebraico a rimanere estraneo alle vicende belliche siriane, che tuttavia creano una pericolosa instabilità nella regione mediorientale. Per quanto riguarda il rapporto con i Palestinesi si è recentemente tenuto il Congresso Nazionale di Fatha, il partito che rappresenta la maggioranza del movimento palestinese (l'ultima assise risale al 2014). Al riguardo non è emersa una leadership diversa ed è stato confermato al vertice il plenipotenziario ottantenne Abu Mazen, che cumula su di sé anche le attribuzioni di dirigente dell'Olp e di capo dell'Autorità palestinese. La sua linea è sempre stata finalizzata con scarso successo ad ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese da parte delle Nazioni Unite (a seguito di una risoluzione del 2012 la Palestina è "Stato osservatore non membro dell’Onu"); tuttavia Abu Mazen si è in concreto dimostrato incapace di contrastare la politica di 'occupazione' della 'destra' governativa israeliana. In altri termini, le aspirazioni dei palestinesi con molta probabilità continueranno ancora a subire l'immobilismo e la politica sterile e improduttiva dei vertici palestinesi. RR

I CONFLITTI MODERNI, LA MINACCIA JIHADISTA E IL RUOLO DEI MEDIA (18-11-2016) 
Si è svolto ieri (17 novembre) a Terni un incontro sui conflitti moderni, la minaccia jihadista e il ruolo dei media, organizzato dal Lions Club Host. Nell'occasione sono state svolte relazioni da Matteo Bressan, Alessandra Robatto e Domitilla Savignoni. L'evento si inserisce in una serie di altre preziose iniziative che recentemente si sono tenute nella nostra città solo per iniziativa di organizzazioni culturali private. Matteo Bressan, noto analista, ha fornito un quadro molto obiettivo ed esaustivo della minaccia jihadista ad un anno dai tragici fatti terroristici che hanno sconvolto alcune Capitali nel cuore dell'Europa, integrato da un articolato riferimento al complesso fenomeno dei  foreign fighters. Particolarmente apprezzabile la chiarezza sistematica espositiva del dott. Bressan: in questo  momento in cui le banalizzazioni - che sono esiti di un'informazione carente e di parte - generano pregiudizi, è un grande valore aggiunto poter disporre di contributi selezionati per orientarci correttamente nel sovraccarico cognitivo (information overloading) di cui ci fa destinatari la Rete; questo approccio inoltre è un validissimo supporto per contrastare la dilagante ignoranza e un inquietante pressapochismo. Esaminando queste difficili realtà infatti è necessario evitare l'emotività del primo impatto ed essere quanto più possibile obiettivi, ancorando ogni riflessione a fatti concreti; senza forzare conclusioni gli esperti devono fornire elementi che consentano a ognuno di maturare una propria convinzione. È stata molto interessante la prospettiva dalla quale ha esaminato questi conflitti Alessandra Robatto, Docente di Diritto Internazionale Umanitario. Alessandra ha svolto un'articolata trattazione dei risvolti applicativi ai conflitti bellici delle vigenti Convenzioni Internazionali. Così l'approccio operativo di Bressan è risultato integrato da una chiara e puntuale collocazione delle problematiche relative alla minaccia jihadista nel quadro giuridico internazionale vigente. Resta impregiudicata - ma non era la sede per affrontare questa problematica - la questione a monte, ovvero se sotto il profilo dell'effettività giuridica internazionale possa riconoscersi a Daesh la valenza di Stato. Ha concluso i lavori Domitilla Savignoni, giornalista del Tg 5, che si è soffermata in particolare sulla trattazione mediatica e sulla scelta da parte degli organi di informazione del materiale propagandistico diffuso dall'Isis da divulgare mediante i Tg, da selezionare attentamente non solo per motivi di opportunità, ma anche al fine di evitare reazioni alla spettacolarizzazione dell'odio fondamentalista che possano favorire il proselitismo islamista. Si è anche accennato a quel territorio virtuale senza regole costituito dal Deep Web. I lavori dei tre relatori, perfettamente integrati e complementari, hanno fornito un validissimo quadro di riferimento della minaccia jihadista attuale, un contributo su cui riflettere attentamente.  RR 

L'ELEZIONE DI DONALD TRUMP 1. IL TRIONFO DEL POLITICAMENTE SCORRETTO (14-11-2016) 
Con l'espressione, ormai ampiamente abusata, di 'politicamente corretto' (dall'inglese politically correct) si indica un atteggiamento, soprattutto esteriore, di estremo e formale rispetto nei confronti di principi di consolidata acquisizione sociale, che in concreto si traduce soprattutto in una specifica attenzione per i diritti di determinate categorie di persone. La correttezza politica implica il rigetto di qualsiasi tipo  di pregiudizio. Talvolta il politicamente corretto si avvale di espedienti terminologici  per risolvere una problematica senza intervenire nella sostanza della questione: ad esempio, chiamare 'afroamericani' e 'diversamente abili' i negri e i disabili, né combatte il razzismo, né rimuove le barriere architettoniche; si tratta solo di una soluzione ipocrita che non incide sui contenuti della penalizzazione che deriva da una condizione in concreto potenzialmente svantaggiata; sono mere sublimazioni verso risposte  esclusivamente linguistiche. Allo stesso modo non apporta vantaggi la trasformazione dei ciechi in 'non vedenti' o dei sordi in 'non udenti'. Le condotte che derogano da questo indirizzo vengono invece definite 'politicamente scorrette' (politically incorrect); si tratta di opzioni che si traducono in concreto in una provocazione che evidenzia come di fronte a problemi emergenti, il politicamente corretto si sia trasformato in una forma di 'conformismo' benpensante, in un pensiero unico istituzionalizzato che limita il libero dibattito sui risvolti  sostanziali di una data problematica, ovvero che impedisce una discussione critica quando verte su idee consolidate. Il Corriere della Sera in un articolo dello scorso agosto (6/8/2016 - 'Il politicamente scorretto e la moda del pistolero') fece notare che in passato insospettabili interpreti dell'anticonformismo del politically incorrect furono Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci: il primo evidenziò l'umanità dei poliziotti e la loro origine proletaria - segnatamente nella poesia scritta dopo gli incidenti a Valle Giulia nel marzo del 1968 - smantellando il luogo comune per il quale 'essere dalla parte della polizia' significava essere un reazionario; la seconda, suscitando accese reazioni, affermava la matrice islamica delle degenerazioni terroristiche del fondamentalismo musulmano. Da più di un decennio le società dei Paesi occidentali, Stati Uniti compresi, stanno attraversando una grave crisi finanziaria che si riflette sul sistema politico e sul tessuto sociale, con sensibili fenomeni indotti come l'aumento della criminalità interna e la riduzione delle risorse economiche disponibili. A torto o a ragione questi cambiamenti inducono parte dell'opinione pubblica a ritenere che certi principi, come l'accoglienza di individui che fuggono dal 'sud del mondo' vadano in vario modo riconsiderati e rinegoziati. Qualcuno vede anche un legame (improbabile) fra fenomeni migratori e terrorismo. Hilary Clinton e Donald Trump sono stati l'una espressione di un approccio che ribadisce l'opportunità di confermare i contenuti del  politically correct, mentrel'altro con modalità forti e apparentemente impopolari, al contrario ha investito su quel sentimento sociale, variamente distribuito nella popolazione, che avverte la necessità, che sia giusta o no, di riconsiderare il nucleo dei principi che definiscono  il politicamente corretto.  La sollecitazione di Trump è stata recepita da una parte consistente degli elettori molti dei quali possono essere definiti 'silenziosi'  (tecnicamente detti 'timidi') in quanto, in relazione carattere 'imperante' del pensiero unico rigidamente improntato all'intangibilità di alcuni diritti considerati una irrinunciabile conquista della nostra civiltà occidentale, non hanno avuto il coraggio di rivelare all'esterno le loro perplessità, che hanno invece espresso solo nel segreto dell'urna. Questo meccanismo probabilmente spiega il fallimento delle previsioni dei sondaggisti, tutte, tranne qualche isolata eccezione, in favore di Hilary Clinton: molti cittadini americani infatti presumibilmente non hanno dichiarato alle agenzie di sondaggi le loro reali intenzioni di voto. Credo che, a prescindere dal merito dell'opportunità della scelta compiuta dal popolo americano, quanto esposto possa essere una fondata prima immediata chiave di lettura del successo del candidato repubblicano. Restano tante altre questioni che saranno esposte in successivi post. Va detto che complessivamente i voti conseguiti da Hilary Clinton sono stati di più di quelli di Donald Trump, che tuttavia ha potuto giovarsi del  discusso sistema dei così detti 'grandi elettori'. Secondo questa procedura ogni quattro anni vengono scelti 538 grandi elettori. Si tratta di delegati che si riuniscono per eleggere il Presidente; sono individuati su base statale e il loro numero è pari alla somma dei senatori e dei deputati dello Stato stesso. Per diventare Presidente serve ottenere la maggioranza assoluta dei loro voti, ovvero 270. Ora si moltiplicano manifestazioni, anche violente, di chi  non riconosce in Trump il proprio Presidente. Questo sentimento può essere comprensibile, viste le peculiarità del personaggio, della sua storia professionale e l'asprezza del suo messaggio politico, ma non si deve dimenticare che Donald Trump ha vinto libere elezioni a seguito delle quali è necessario che la minoranza, pur rimanendo libera di manifestare e di esercitare pressioni pacificamente, debba rispettare e sottomettersi al volere della maggioranza. Comunque da queste elezioni caratterizzate dalla radicale lontananza delle posizioni politiche dei due candidati unita ad una differenza di voti non particolarmente rilevante, esce un Paese diviso radicalmente e in maniera preoccupante. RR 

I FAKE ('BUFALE') DELLA RETE (7-11-2016) 
In questi giorni sulle pagine di accreditati quotidiani nazionali sono comparse notizie su una particolare  disponibilità del leader russo Putin ad inviare ingenti aiuti in Italia per affrontare le emergenze del dopo-terremoto. Queste informazioni, che avevano finalità propagandistiche in quanto finalizzate a dare un rilievo positivo alle iniziative internazionali del leader russo, sono risultate infondate. Ormai ci siamo abituati ai fake che girano in Rete. Tuttavia in questo caso 'la bufala', anziché circolare su canali paralleli rispetto a quelli dell’informazione tradizionale, ha impiegato stimate testate nazionali. Normalmente le notizie diffuse da quotidiani nazionali hanno un alto livello di attendibilità. Il terreno tipico della propaganda fondata su false notizie è invece la Rete.  Di fronte alle informazioni fornite da un sito la prima rilevante questione è quella dell’attendibilità. Per i mass media tradizionali (televisione e giornali, in particolare) questo problema si pone in maniera molto ridotta, in quanto essi sovente dispongono di una soggettività dai tratti definiti (ad esempio, è nota la proprietà dell’organo di informazione, e può quindi essere presumibile l'orientamento politico e ideologico). Al contrario, in mancanza di indici di credibilità, l’atteggiamento del fruitore dei contenuti di un sito può oscillare fra due poli opposti: chi è orientato a credere a tutto quello che viene pubblicato, è indotto a ritenere vere anche informazioni improbabili o poco verosimili. Chi invece è tendenzialmente scettico, è portato a non credere aprioristicamente a tutto ciò che appare scarsamente verosimile, ma che tuttavia potrebbe risultare vero. In proposito, rimane ancora attuale, sebbene siano passati alcuni anni, lo studio compiuto dal Persuasive Technology Lab dell’Università di Stanford (USA). L’esame di una grande quantità di materiale consentì ai ricercatori di formulare alcune regole per elaborare gli indici di credibilità. Uno degli indici è costituito dalla verificabilità delle informazioni, che richiede senz’altro l’indicazione fonti. Anche la disponibilità di materiale multimediale, come foto, video, scritti vari, può contribuire a conferire veridicità a una asserzione. Naturalmente le specifiche conoscenze del lettore sono un parametro di riferimento per valutare il valore dei contenuti online; un medico, ad esempio, dispone di elementi per giudicare un sito di contenuto sanitario. La facilità attraverso la quale si può avere un contatto (ad esempio, via mail) con lo staff, il blogger, il webmaster o il titolare delle pagine web, è sicuramente un positivo segnale di trasparenza. Il sito veicola l’immagine di se stesso: l’accuratezza, l’assenza di errori anche di ortografia, il continuo aggiornamento, i link funzionanti, l’informazione anche trasversale della competenza di chi o di coloro che lo gestiscono, sono sicuri rivelatori di professionalità. Anche l’usabilità, cioè l’aspetto semplice che ne faciliti l’uso, incide sulla sua positiva valutazione; i siti complicati, sofisticati e con effetti speciali generano diffidenza. Recentemente è nata una scienza, la captologia tecnologia persuasiva, che studia come i siti, per accrescere la propria credibilità, possano manipolare l’attenzione dei lettori; la credibilità è il mezzo attraverso il quale si conquista la fiducia dell’utente. L’informazione è in ogni tempo verificabile nei media tradizionali: infatti nei giornali scripta manent, nelle trasmissioni radiotelevisive si conservano per un periodo di tempo le registrazioni. L’informazione sul Web è invece facilmente rimovibile o manipolabile. La propaganda scorretta  può essere alimentata anche da informazioni vere. Nel 1984 la Corte di Cassazione con una discussa sentenza della Prima Sezione Civile cercò di disciplinare la libertà di stampa. La libertà di stampa è un ambito molto delicato perché se da una parte si deve garantire il diritto di cronaca e la libertà di pensiero, nello stesso tempo si deve evitare che le facoltà connesse a questi diritti possano tracimare i loro limiti legittimi e degenerare in licenza di diffamare. Anche se stampa e Web sono contesti del tutto diversi, la pronuncia della Corte, definita dai giornali Decalogo della stampa per la meticolosità delle prescrizioni, può fornire utili elementi di riflessione anche su quanto circola in Rete. Per i giudici della Cassazione anche notizie vere, riportate con segnate modalità (ad esempio, con enfatizzazioni), possono originare travisamenti. Per evitare fraintendimenti la Suprema Corte nella pronuncia precisò che la diffusione di notizie e commenti a mezzo stampa è legittima se rispettano tre condizioni: a) l’utilità sociale dell’informazione; b) la verità dei fatti esposti; c) la forma civile. Si tralascia il primo punto, di evidente significato e non applicabile per analogia agli spazi virtuali in considerazione della libertà di fatto di caricare qualsiasi contenuto sul Web a prescindere dall’utilità sociale. Per quanto riguarda il secondo punto i giudici precisarono che la verità dei fatti esposti è equiparata a quella solo putativa, cioè a quella incolpevolmente ritenuta vera. Inoltre, una verità incompleta, cioè esposta sottacendo intenzionalmente o colposamente alcuni fatti, è da assimilarsi alla notizia falsa. Un sito può sicuramente ricorrere a mezze verità, cioè a verità incomplete, per promuovere un proprio punto di vista. Per la Cassazione la critica non è civile quando eccede lo scopo informativo, difetta di serenità e/o di obiettività, calpesta la dignità umana, e non è improntata (intenzionalmente) a leale chiarezza. Per quanto riguarda la leale chiarezza, il principio sarebbe violato quando si ricorre a subdoli espedienti come il sottinteso sapiente, gliaccostamenti suggestionanti, il tono sproporzionatamente scandalizzato sdegnato, le insinuazioni. Il sottinteso sapiente consiste nell’uso di espressioni che, per il contesto nel quale sono inserite o per l’uso di espedienti linguistici (come il racchiudere parole tra virgolette), possono essere interpretate in maniera differente o addirittura opposta rispetto al loro significato letterale. Mettere una frase fra virgolette può infatti sottilmente suggerire il convincimento che l’espressione sia un eufemismo o, in ogni caso, debba intendersi in senso diverso da quello testuale. Gli accostamenti suggestionanti sono invece caratterizzati dalla sequenza di proposizioni spesso autonome, cioè non legate da alcun esplicito vincolo sintattico e che si riferiscono a fatti indipendenti fra loro. Il lettore, a causa della loro medesima contestualizzazione, tende anche inconsciamente ad associare queste proposizioni e i fatti in esse contenuti, con conseguenze talvolta diffamatorie o che, in ogni caso, alterano la verità. Ad esempio, nel narrare un fatto se ne possono citare altri che si riferiscono ad ambiti diversi creando così delle connessioni implicite ma inesistenti in concreto, che suggestionano il lettore inducendolo ad associare fatti che sono invece distinti fra loro. Anche il tono eccessivamente sdegnato o scandalizzato con il quale si espone un accadimento vero è in grado di influenzare il lettore. Poi ci sono le insinuazioni, cioè le accuse velate, anche celate dietro apparenti smentite, o le allusioni volte a insinuare malignamente un sospetto. I difetti di chiarezza, di cui parla la Cassazione a proposito della stampa (il Web nel 1984 naturalmente non esisteva), integrano espedienti ai quali può ricorrere anche un sito per generare o rafforzare un assunto su cui fondare una mirata propaganda. In ogni caso il difetto di chiarezza sempre incide negativamente sull’indice di credibilità del sito. RR 

I GUARDIANI DI ISRAELE - LO SHIN BET. SEGUITO. (29-10-2016) 
Di seguito al precedente post, chi volesse vedere il film-documentario The Gatekeepers - I guardiani di Israele in lingua italiana può clikkare qui -https://archive.org/details/IGuardianiDiIsraele  Il documentario di Dror Moreh racconta la storia dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano per la sicurezza interna, attraverso approfondite interviste a sei ex dirigenti, protagonisti delle azioni governative compiute nella Guerra dei Sei Giorni dal 1967 a oggi. il film è stato nominato agli Oscar nel 2013 come miglior documentario. Si trascrive un breve profilo dei sei ex dirigenti dello Shin Bet, pubblicato dal sito www.cineblog.it

Avraham Shalom (1980 – 1986) - Cominciò la sua carriera militare prima che lo stato di Israele fosse fondato. Combatté nel Palmach, un gruppo paramilitare clandestino che formò le basi dell’ IDF, si spostò poi nello Shin Bet proprio nel momento in cui venne fondato. Dal 1959 al 1960 fece parte del team del Mossad e dello Shin Bet che rintracciò e rapì un cittadino argentino, Riccardo Klement, meglio noto come, Adolf Eichmann, conducendolo in giudizio in Israele. In seguito al massacro degli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco del 1972 Shalom fu nominato capo del servizio di sicurezza dello Shin Bet. Nel 1980 diventò capo dello Shin Bet. Il turbolento mandato di Shalom fu scosso dal terrorismo Palestinese e, ancor di più, dai fondamentalisti Ebrei che si opponevano a qualsiasi concessione e o dialogo con la Palestina. La “Jewish Underground” composta da coloni radicali del West Bank aprì il fuoco sul Collegio Islamico di Hebron, uccidendo tre studenti, e piazzò bombe nelle macchine di alti funzionari palestinesi, mutilando in modo permanente i sindaci di Ramallah e Nablus. Quando Shalom catturò i membri di questa organizzazione scoprì un complotto per far saltare in aria uno dei più grandi simboli islamici, la” cupola della roccia” un’azione che avrebbe scatenato la rabbia dell’intero mondo arabo contro lo stato di Israele. Nei primi anni ottanta Shalom fu una delle più importanti figure di garanzia della pace in Israele, ma gli costò la carriera. Nel 1984 ordinò l’esecuzione sommaria di due terroristi che avevano dirottato’ autobus 300 in viaggio da Tel Aviv a Ashkelon. L’immagine di uno di questi terroristi portato fuori dall’autobus in manette ancora vivo fece il giro del mondo e condusse ad un’inchiesta ufficiale. Shalom non rispose mai delle sue azioni alla stampa e rimase fu sempre reticente sull’accaduto.
Yaakov Peri (1988 -1995) - Sarebbe stato perfetto per un romanzo di John Le Carré come contrasto per l’enigmatico Smiley. Affascinante e affabile, un vero gentiluomo, avrebbe facilmente potuto seguire una carriera in campo musicale ( suonava la tromba per l’orchestra di Gerusalemme La Voce di Israele) Nato a Tel Aviv nel 1944, Peri entrò nell’Università Ebraica dopo la sua uscita dall’IDF. Completò i suoi studi all’università di Tel Aviv con un’ulteriore laurea in Studi sul Medio Oriente e Storia Ebraica. Fu reclutato nello Shin Bet nel 1966, e fu addestrato come ufficiale di campo nel settore Arabo. Nel 1987, in seguito all’incidente dell’ autobus 300, fu nominato vice direttore dello Shin Bet, e l’anno seguente il Primo Ministro Yitchakz Shamir lo scelse come suo capo. La crisi che lo Shin Bet dovette sostenere allora fu enorme. Era scoppiata l’Intifada, una sollevazione di massa senza precedenti nei Territori Occupati. Perì, che aveva trascorso anni studiando e lavorando nei territori, era stato fondamentale nella creazione di una vasta rete di informatori e collaboratori nei primi anni dell’occupazione Israeliana. Nonostante ciò, l’improvvisa eruzione dell’Intifada arrivò inaspettata sia per lui che per gli altri membri dello Shin Bet. Durante il suo mandato, furono fatte accuse sulle pratiche eccezionali usate negli interrogatori dello Shin Bet di Gaza City.
Carmi Gillon (1994-1996) - Successe a Perì come capo dello Shin Bet. Suo nonno fu l’unico giudice ebreo a servire nella Supreme Court of the British Mandate of Palestine, suo padre fu un avvocato dello stato e sua madre un Vice Procuratore Generale. Fu uno dei meno preparati a condurre lo Shin Bet, e il suo breve mandato fu segnato dalla più grande sconfitta dell’organizzazione – il fallimento nel proteggere il primo ministro Rabin dall’agguato che gli costò la vita. Dopo aver completato il suo servizio militare ha studiato Scienze Politiche all’università Ebraica. Fu reclutato dallo Shin Bet dove trascorse la prima parte del suo servizio lavorando per il Security Desk con l’incarico speciale di proteggere le installazioni Israeliane oltremare, incluse le ambasciate e altre organizzazioni governative. Nominato capo del Jewish Desk fu subito coinvolto nella cattura dei membri del “Jewish Underground” e di Yonah Avrishmi, l’uomo che aveva lanciato una granata durante la manifestazione di Peace Now a Gerusalemme nel 1983, l’attentato più grave commesso da Ebrei contro altri Ebrei nella storia moderna di Israele. Nel 1994 fu selezionato con cura da Yaakov Perì per succedergli nella direzione dello Shin Bet. Durante il suo breve mandato spostò l’attenzione dell’organizzazione al terrorismo Ebraico, specialmente di destra. Questa nuova direzione fu una seria sfida per Gillon. Richiedeva di sorvegliare Israeliani che non avevano mai commesso un crimine, ma che lui sospettava stessero preparando il più grave attacco contro lo stato e i suoi leaders. Ciò che esacerbava il problema era il fatto che queste persone, la maggior parte delle quali, coloni fanatici ma con una formazione militare, erano sostenuti da molti politici importanti. Nonostante i molti successi nella guerra contro il terrorismo ebraico, perse la battagli più importante. Aveva da lungo tempo messo in guardia sul fatto che i terroristi avrebbero tentato di uccidere il primo ministro Rabin per ostacolare il processo di pace, ma Israele non aveva mai affrontato prima assassinii politici e questo fu un errore. Il 4 Novembre de 1995 un assassino riuscì ad avvicinarsi al primo ministro e sparargli a distanza ravvicinata. Gillon si assunse immediatamente la responsabilità del fallimento e rassegnò le sue dimissioni.
Amy Ayalon (1996 – 2003) - E' stato un outsider, destinato a riabilitare lo Shin Bet all’indomani del suo più triste fallimento, l’ incapacità nel proteggere il Primo Ministro Rabin dalla pallottola di un assassino. Da ragazzo Ayalon era cresciuto in un kibbutz, dove eccelleva nel calcio, sebbene fosse ritenuto troppo basso. Gli amici a volte dicono che proprio perché era troppo basso sentiva la necessità di compensare questo limite con una perfetta forma fisica. Diversamente dai suoi predecessori Ayalon arrivò allo Shin Bet direttamente dall’esercito dove era stato decorato ufficiale. Come giovane commando nel 1969, fu insignito della più alta onorificenza IDF, Medaglia al Valore, per il suo impegno nel leggendario “Green Island Raid” contro una installazione militare egiziana. Durante gli ultimi anni 70 e i primi anni 80 condusse personalmente delle squadre di subacquei in numerose incursioni contro installazioni palestinesi lungo le coste libanesi. Nel 1992 fu nominato capo della Marina Militare con il grado di Maggiore Generale. La reputazione dello Shin Bet era allo sfascio dopo l’assassinio di Rabin, cosi il Primo Ministro Peres decise di introdurre un outsider per ristabilire la fiducia pubblica. Ayalon fu la sua scelta migliore per quell’incarico. Non solo,era un amato eroe di guerra; era anche un comandante resistente e testardo, con la reputazione di essere uno diretto. Schietto e persino tagliente, avrebbe raccontato le cose “così come stavano.” Il più importante traguardo come capo dello Shin Bet fu aumentare la sicurezza del capo del paese. Durante i cinque anni di mandato, Ayalon condusse un’implacabile battaglia contro il terrore sotto tre Primi Ministri molto diversi tra loro: Shimon Peres, Benjamin Netanyahu e Ehud Barak. Pur considerato il capo più a sinistra dello Shin Bet, fu proprio al ministro laburista Ehud Barak che lui riservò le sue critiche più taglienti. Quando nel 2000 fallirono i colloqui di Camp David, il criterio comune ritenne che Barak avesse offerto ogni cosa ad Arafat e che fosse stata solo l’intransigenza del leader palestinese ad aver impedito un trattato di pace. Ayalon frantumò questo mito sostenendo che Barak era arrivato impreparato e che avesse arrogantemente prevaricato Arafat, invece di negoziare con lui. Ayalon sostenne inoltre che l’intifada non opera da Arafat ma che fosse un sollevamento popolare dovuto alla prolungata frustrazione del popolo palestinese.
Dichter (2003 – 2005) - Un camaleonte a suo agio sia nella società palestinese che in quella israeliana. Dopo aver completato la sua formazione militare nella Sayeret Matkal, leggendario Commando Israeliano, Dichter si unì allo Shin Bet e fu di stanza nel Comando Sud come responsabile della striscia di Gaza. Dal 1992 fu a capo del Comando Sud e sovrintese alcune delle più ardite operazioni dello Shin Bet,. Servì per un breve periodo come capo dello Shin Bet’s Security Desk a seguito dell’assassinio di Yitzchak Rabin. Nel Maggio del 2003 il suo precedente capo nello Sayeret Matkal, ora Primo Ministro Ehud Barak, promosse Dichter nella posizione di capo dello Shin Bet e successore di Ami Ayalon. Quando scoppiò la sanguinosa al-Aqsa intifada, a Dichter fu molto utile il suo addestramento militare. Fu uomo di successo con Barak e si distinse anche sotto Ariel Sharon. Lui e Sharon erano due pragmatici. Sebbene Israele avesse subito molte vittime, ne furono risparmiate molte di più grazie alle tecniche sofisticate che Dichter adottò per combattere i terroristi e arginare il terrorismo, come la controversa tecnica dell’assassinio mirato. Dopo il successo dell’attacco a Yahya Ayyash, fu largamente utilizzata sotto Dichter con il pieno supporto del governo di Sharon. Dichter fece crescere il ruolo dell’intelligence e l’utilizzo dello spionaggio informatico per prevenire gli attacchi e fu uno degli ideatori del tristemente noto Muro di Separazione.
Yuval Diskin (2005 – 2011) - Si unì allo Shin Bet nel Maggio del 1978 e fu nominato coordinatore per il Nablus Disrtict. Nei campi dei rifugiati si rese conto della dura realtà della guerra Israelo-Palestinese. Durante le operazioni di Pace per la Galilea servì a Beirut 1982 e a Sidon 1983. Nell’Agosto del 1990 fu nominato Direttore del Dipartimento Antiterrorismo e Antispionaggio per “l’Affairs desk” Arabo- Israeliano. Nel Maggio del 97 fu nominato direttore del Comando Centrale dello Shin Bet (Gerusalemme e West Bank Region), posizione che tenne fino a Giugno del 2000. Durante questi anni turbolenti l’ala militare di Hamas effettuò una serie di attacchi suicidi intesi a sventare il processo di pace. Deskin capeggiò l’operazione che distrusse le infrastrutture militari di Hamas in tutta la Giudea e la Samaria. Nel Luglio del 2000 fu nominato Vice Direttore dello Shin Bet. Divenne capo dello Shin Bet nel Maggio del 2005. Mentre serviva come Vice Direttore dello Shin Bet lavorò con l’IDF (Forze di difesa Israeliane) per creare un protocollo antiterrorismo atto a contrastare gli attacchi terroristici, ed in particolare gli attacchi kamikaze conosciuti come “Ticking Time Bombs” (bombe ad orologeria). Si crede sia l’inventore e profeta della dottrina del ”Targeted Assassination” (Assassinio Mirato). Una volta in pensione dallo Shin Bet nel maggio del 2011 ha attirato l’attenzione dei media Israeliani e Internazionali per la sua dura critica alla politica del governo verso i Palestinesi." RR

I GUARDIANI DI ISRAELE - LO SHIN BET. (27-10-2016)
Nel 2012 il regista gerosolimitano Dror Moreh ha realizzato un documentario particolarmente interessante, The  GatekeepersI guardiani di Israele,  che esamina le vicende belliche israeliane con segnato riferimento al conflitto con i palestinesi. Il titolo allude al ruolo forte e di primo piano che hanno svolto i membri dello  Shin Bet nelle più importanti scelte politiche dello Stato ebraico nel settore della sicurezza. Questa organizzazione è la potente agenzia diintelligence che si occupa degli affari interni del Paese. Collaterali organismi nazionali sono l'Aman, il controspionaggio militare strutturato all'interno delle Forze Armate, e il Mossad, che segue le stesse problematiche ma relativamente all'analisi della minaccia esterna. Le agenzie di informazioni israeliane sono state spesso oggetto di approfondimenti giornalistici. Tuttavia il lavoro del regista  Dror Moreh conferisce un importante valore aggiunto alla conoscenza della questione rispetto ad altre analoghe iniziative mediatiche. Infatti, la storia e le attribuzioni dello Shin Bet sono descritte dall'interno, ovvero attraverso le testimonianze di sei ex suoi capi - Avraham Shalom (1980 – 1986), Yaakov Peri (1988-1995), Carmi Gillon (1994-1996), Amy Ayalon (1996 – 2003), Avi Dichter (2003 – 2005), Yuval Diskin (2005 – 2011) - e quindi dal loro personale punto di vista. Nell'ombra l'organizzazione è stata il consigliere occulto di molte strategie vincenti, ma spregiudicate e violente, attuate in alcuni momenti decisivi per la storia dell'autodifesa e della sopravvivenza della nazione ebraica, dalla Guerra dei Sei Giorni - che ha consentito ad Israele il controllo di una vasta area nella quale viveva un'ampia parte di popolazione ostile, e che gli impose conseguentemente fin da allora la  gestione del difficile rapporto di convivenza con gli arabi - ad oggi. Si tratta di una documentazione assolutamente unica, che deve essere visionata da chi è interessato a queste realtà; è una narrazione inedita, accompagnata da immagini, filmati, ricostruzioni, efficaci animazioni elaborate su fotografie raccolte durante le operazioni. La guerra non è mai una cosa nobile; non solo ferisce i corpi, ma nella migliore delle ipotesi affligge e condiziona le menti attraverso ricordi indelebili. Il conflitto arabo-israeliano ha toccato altissimi e insoliti livelli di degrado, ed è stato anche caratterizzato da atti di terrorismo reciproco. Come si dice nel documentario, la definizione di terrorista in alcuni contesti come questo è molto relativa: chi per uno è un terrorista, visto da un'altra angolazione potrebbe essere un combattente per la libertà. Accanto ai gravi atti di terrorismo palestinese, vengono segnalate le attività belliciste e guerrafondaie della Jewish Underground, integrata da fondamentalisti ebrei che, dopo aver compiuto attentati contro gente comune e alti funzionari arabi, pianificarono di distruggere la 'Cupola della Roccia', uno dei più grandi simboli della religione islamica; questa azione avrebbe scatenato la rabbia dell’intero mondo musulmano nei confronti di Israele. Questo avvenne nei primi anni ottanta: allora pertanto fu necessario fronteggiare non solo il terrorismo 'esterno', ma anche quello 'interno', praticato da integralisti che si opponevano a qualsiasi forma di dialogo con i rappresentanti della Palestina, sostenuti di fatto anche da esponenti politici. Gli eventi bellici continuano ad essere inquinati dall'odio etnico e dall'acredine religiosa. Si accenna anche a modalità poco ortodosse utilizzate per contrastare l'Intifada. Un momento drammatico e una svolta cruciale della recente storia di Israele è stato l'assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin, sostenitore della necessità di un dialogo e  di negoziati con i Palestinesi: il leader moderato, dopo aver partecipato a ad una manifestazione in difesa della pace, venne ucciso a Tel Aviv la sera del 4 novembre 1995 da un colono ebreo estremista. Ai suoi funerali che si svolsero a Gerusalemme parteciparono circa un milione di israeliani e molti esponenti di rilievo della politica mondiale. Furono presenti anche alcuni leader arabi i quali per la prima volta entrarono in territorio israeliano. Dalle testimonianze degli uomini che furono  dirigenti dello Shin Bet si evince che l'organismo non fu un docile strumento nelle mani della politica di governo, ma fu una sorta di coscienza critica della nazione ebraica:  nonostante l'apparente rigidità monolitica della politica israeliana, questi uomini manifestarono dubbi sulle opzioni  strategiche nella gestione della questione palestinese, di cui percepirono tutta la complessità che si declinava in tanti settori sensibili. Queste perplessità hanno anticipato le contraddizioni che oggi dividono l'opinione pubblica israeliana. Forse si è persa  allora la possibilità di un dibattito a tutti i livelli, che, a prescindere dagli esiti, sarebbe stato il presupposto per la formazione di una solida coscienza morale. RR 

DOCUMENTI VARI SU ISRAELE E PALESTINA (20-10-2016) 
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RIFLESSIONI A MARGINE DEL CONVEGNO SULL'ETICA DEI NUOVI MEDIA (15-10-2016) 
Si è svolto a Terni il 14 ottobre 2016 un convegno (organizzato dal G.O.I). sull'etica dei nuovi media, nel corso del quale sono state svolte relazioni da esperti del settore di varia estrazione professionale. L'impostazione dell'evento è stata già significativa dell'approccio alla problematica, che è stato globale e non limitatamente specialistico. Le prime presentazioni  infatti hanno trattato in generale il rapporto fra morale e media, o, segnatamente, la funzione educativa e di orientamento che gli strumenti di comunicazione possono svolgere.  Il rapporto fra la morale e  gli strumenti che sono corollario della rivoluzione telematica si colloca nel più ampio solco dei cambiamenti determinati dalle invenzioni di dispositivi per la trasmissione del pensiero e delle idee, a cominciare dalle innovazioni conseguenti all'introduzione nel XV secolo della tecnica a stampa con caratteri mobili. Le successive relazioni sono state più specifiche, concentrandosi sulle applicazioni telematiche in ambiti  particolarmente sensibili quali la scuola (Fausto Dominici) e il giornalismo (Arturo Diaconale). Anche se può sembrare un'affermazione banale, deve essere preliminarmente ribadito il carattere neutro del Web, che, come tutti i mass media,   si qualifica positivamente o negativamente solo attraverso l'uso che se ne fa (Leopoldo Di Girolamo). Mi viene in mente il ruolo drammatico che hanno avuto i giornali, la televisione e in particolare la radio nel genocidio di oltre 800.000 persone in Rwanda, nella primavera del 1994. I fatti furono esposti in un libro, La radio e il machete, che evidenziò le responsabilità oggettive dei media nel veicolare e strumentalizzare idee estremiste; le colpe per queste condotte in sede giudiziaria furono equiparate a quelle degli organizzatori materiali delle stragi. La Rete promuove un sapere orizzontale, diffuso e vagamente superficiale, perché vuole massimizzare la conoscenza nei tempi brevi e serrati imposti dai ritmi della vita moderna. Per questi suoi caratteri il Web ha un ruolo di primo piano nella globalizzazione dell'apprendimento; da questo punto di vista la medialità telematica può considerarsi il correlato attuale dell'omologazione - suo antecedente storico - di cui parlava Pasolini. Tuttavia, mentre l’omologazione aveva creato un’uniformità culturale seppure di un eclettismo di dubbio valore, la globalizzazione ha distrutto le peculiarità delle diverse culture senza crearne una nuova. Le particolarità della conoscenza promossa da Internet sembrano ripudiare la riflessività e sacrificare la speculazione spirituale propria delle letture classiche. Come è stato acutamente evidenziato  (Sergio Rosso) questa asserzione è solo un consolidato luogo comune, come si evince anche dalla formazione di Zuckemberg, il fondatore di Facebook, che conosce il latino, ed è un appassionato cultore della storia e dell'arte dell'Antica Roma. Con il Web disponiamo di una mole illimitata di dati, e la fatica di cercare informazioni è stata surrogata da quella di selezionare, filtrare, organizzare: in questo aggiornato contesto saper leggere non basta, serve un nuovo tipo di competenza; da una pregressa situazione di carenza di cognizioni, siamo passati alla disponibilità di una loro grande quantità. Da questo punto di vista Internet ci ha emancipato, perché ci ha consentito  di interagire, di scegliere, di decidere; tuttavia esplorando la Rete dobbiamo essere consapevoli che navighiamo in un mare aperto e sconfinato  nel quale c'è di tutto, dai beni preziosi ai  rifiuti. In proposito, l'intellettuale svizzero Starobinski ha felicemente enunciato questa realtà dicendo che la Rete può essere metaforicamente associata  ad una sintesi fra la Biblioteca di Alessandria e la Cloaca Massima. Come è stato suggerito in più occasioni si apre oggi un nuovo fronte su cui riflettere: la disponibilità di più notizie equivale a più cultura (Giancarlo Seri)? La Rete non si è sostituita a libri, giornali, radio e televisione, ma ha introdotto solo un nuovo modo di educare, puntando sui tempi e sulla sintesi. Il suo modo di informare scarno e immediato deve essere complementare all'approfondimento che assicurano  i mezzi tradizionali attraverso modalità più articolate. Nell'apprendimento dell'era digitale tra i primi a subire un pregiudizio sono stati gli insegnanti. Le spiegazioni di un docente ora possono essere sottoposte ad un'immediata verifica su Internet; il sapere dei precettori è pertanto in concorrenza con quello enciclopedico condiviso in Rete (ad esempio, su Wikipedia).Tuttavia, ai custodi del sapere, così chiama gli insegnanti il filosofo polacco Zygmunt Bauman, è rimasta l'esclusività dell'istruzione individualizzata e della formazione personalizzata della mente e del carattere dei ragazzi. Al contrario, attraverso un'ossessione connettiva (Raffaele Federici), la Rete, per una malintesa onnipotenza cognitiva, sta monopolizzando l'accesso al sapere e all'informazione, al punto che senza connessione ci sentiamo isolati dalla vita sociale. Nell'immaginario collettivo le potenzialità telematiche sono il simbolo di una civiltà tecnologica che sta creando un nuovo modello umano (Paolo Bellini), in parte mutuato anche da visioni fantastiche e avveniristiche. Come è stato magistralmente sottolineato (Michel Maffesoli) l'individuo tradizionale, che era caratterizzato da una razionalità che gli consentiva di padroneggiare il mondo, sta perdendo le sue connotazioni soggettive assorbito da nuove micro-aggregazioni che sono il presupposto di un nuovo tribalismo, di un passaggio dall'ordine sistematico della verticalità alla confusione anarchica dell'orizzontalità. Anche i concetti di spazio e di tempo nella Rete hanno subito una revisione perdendo attribuzioni che consideravamo naturali. La nozione di spazio non è stata cancellata ma è stata messa in crisi dal carattere delocalizzato degli utenti; le distanze fisiche fra le persone continuano a sussistere, ma si perdono nell'irrilevanza delle posizioni delle postazioni virtuali. Anche il tempo subisce la stessa sorte: l'immediatezza della virtualità rende non numerabile la percezione del tempo. Lo spazio e il tempo costituiscono due termini strettamente correlati, al punto da poter integrare un'unica dimensione, quella di spazio-tempo.  A causa della relatività dei concetti di spazio e di tempo introdotta dal Web esiste sempre di più solo l'oggi: con Internet c'è esclusivamente l'immediatezza. L'acceso dibattito che segue lo sviluppo dei nuovi media divide studiosi, intellettuali, operatori e opinione pubblica fra apologeti dell'era digitale e detrattori nostalgici di una dimensione perduta (Renato Carnevali). È presto per trarre conclusioni: ogni rivoluzione deve essere metabolizzata per essere compresa. Ma ogni serio approfondimento congiunto è particolarmente prezioso. RR

IL CARATTERE IRRISOLTO DEL CONFLITTO FRA ISRAELIANI E PALESTINESI (13-10-2016)
Come sostiene il professor Daniel Bar-Tal[1], i contrasti fra ebrei e palestinesi appartengono alla categoria dei conflitti irrisolti. Questa tipologia è integrata da contrapposizioni che hanno un carattere radicale in quanto le parti percepiscono i relativi interessi del tutto incompatibili e inconciliabili fra di loro; conseguentemente le rispettive soggettività politiche che sono referenti delle collettività contrapposte non sono disponibili a compromessi. Queste premesse spiegano il carattere permanente di certi scontri e l'oggettiva difficoltà di trovare soluzioni che possano essere accettate dalle rispettive comunità. Spesso i conflitti irrisolti per il loro carattere politico travalicano i confini locali e possono esercitare effetti destabilizzanti a livello internazionale. Il confronto fra israeliani e palestinesi non può essere ricondotto solo ad un contrasto fra diverse confessioni, cioè fra ebrei e musulmani, né a una guerra fra due popoli. Questo conflitto al contrario ha una natura estremamente composita e complessa, in quanto in esso, oltre a componenti di carattere religioso ed etnico, confluiscono elementi che incidono su equilibri geopolitici, mondiali e regionali, o che sono mutuati da aspetti umani, storici e culturali. Per le implicazioni transnazionali la soluzione di questo conflitto va oltre la mera riconciliazione tra i due popoli. Le trattative fra israeliani e palestinesi hanno sempre avuto le peculiarità di un dialogo fra sordi. Per Hamas, l'organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, gli attacchi terroristici contro Israele sarebbero una modalità necessaria per difendere i propri territori dall'aggressione sionista. Al contrario Israele rivendica il diritto di occupare nuovi territori per insediare comunità; questi intenti espansionistici sarebbero motivati anche da una carenza abitativa. Analogamente israeliani e palestinesi rivendicano per opposti motivi la legittimità delle loro pretese di sovranità su Gerusalemme. Quest'ultima ambizione ha anche una matrice religiosa: Gerusalemme infatti è la terza città sacra dell'Islam dopo La Mecca e Medina, mentre il nome della metropoli in ebraico significa letteralmente il luogo dove apparirà il Messia. Le scelte strategiche di israeliani e palestinesi, oltre ad avere margini di illegalità, si traducono in concreti ostacoli a prospettive di pace. C'è una chiara asimmetria fra gli attori dei negoziati: Israele è uno Stato moderno e solido; il popolo palestinese non ha invece una chiara soggettività politica, né un esercito regolare, e con difficoltà individua una leadership pienamente rappresentativa e plenipotenziaria. La rispettiva propaganda interna delle due parti, già a cominciare dai testi scolastici, demonizza il 'nemico' descrivendolo come un interlocutore crudele, sanguinario, e soprattutto disinteressato ad una composizione pacifica della vertenza. A causa di quest'ottica negativa e deviata, nell'immaginario collettivo degli israeliani tutti i palestinesi sono terroristi, mentre in quello dei palestinesi tutti gli israeliani sono oppressori e usurpatori. Fortunatamente non mancano su entrambi i fronti personalità moderate che auspicano la tolleranza e l'accettazione dell'altro. Sia la società israeliana che quella palestinese hanno molti problemi interni che rendono difficile la definizione di una propria condivisa identità: l'esistenza di un nemico esterno, come avviene frequentemente in casi analoghi, distoglie da questi problemi e unifica il sentimento nazionale. C'è ancora una lunga strada da fare. Gli approfondimenti e le analisi  del Prof. Daniel Bar-Tal e di altri studiosi israeliani sugli aspetti che rendono irrisolto (o intractable, come dicono gli inglesi con un'espressione più pragmatica) il conflitto fra israeliani e palestinesi, non sono una mera speculazione o un contributo intellettuale alla democrazia israeliana, ma hanno importanti risvolti pratici, in quanto sono finalizzati all'individuazione delle barriere socio-psicologiche che impediscono ad Israele di intraprendere un cammino di pace. Essere consapevoli di questi ostacoli è il presupposto per il loro superamento e per l'individuazione di azioni concrete la cui attuazione potrà essere congiuntamente concertata in un eventuale tavolo negoziale. In proposito, Shimon Peres amava dire: "...non è vero che non c'è luce in fondo al tunnel in Medio Oriente. Tutt'altro, la luce c'è. Il problema è che non c'è il tunnel....". RR


[1] Il prof.  Daniel Bar-Tal è docente emerito di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv. Dal 2000 al 2005 è stato direttore dell’Istituto di ricerca Walter Lebachper la coesistenza tra arabi e ebrei attraverso l’educazione; dal 2001 al 2005 è stato condirettore del Palestine Israel Journal; dal 1999 al 2000 è stato Presidente della Società Internazionale di Psicologia della Politica.

ISRAELE: IL PROGETTO POLITICO DELL'ORGANIZZAZIONE SISO (7-10-2016)  
SISO (Save Israel - Stop the Occupation) è un movimento di recente costituzione, segnatamente è stato fondato nel 2015, che intende favorire con mirate iniziative  una soluzione negoziata del conflitto in Israele fra ebrei  e palestinesi.  SISO afferma il carattere prioritario del ritiro di Israele dai territori occupati ed auspica la costituzione di uno Stato palestinese. Questa posizione è ancora minoritaria nell'ambito dell'opinione pubblica israeliana, in quanto superficialmente e a prima vista potrebbe sembrare il corollario di un'opzione filo-araba o filo-palestinese. Al contrario, gli obiettivi del movimento non sono motivati da scelte di carattere politico, ma esclusivamente da una visione pragmatica della situazione. I tempi sono sicuramente  maturi per il generale riconoscimento di Israele da parte di tutta la comunità internazionale. Tuttavia la piena legittimità di Israele è condizionata dalle evoluzioni della questione palestinese, che influiscono di fatto anche sulla normalizzazione della società civile israeliana. In proposito, l'unica soluzione concreta in grado di porre fine alla controversia interetnica e territoriale sembra essere la costituzione di uno Stato indipendente che assicuri l'autodeterminazione del popolo palestinese. Questa prospettiva - sottolinea l'associazione - è nell'interesse sia dei palestinesi, sia degli ebrei, che finalmente potranno aspirare ad  un futuro di pace in un contesto di sicurezza, democrazia e prosperità; inoltre questo nuovo assetto politico e territoriale influirebbe positivamente sulla considerazione di Israele in ambito internazionale, che con il ritiro dai territori palestinesi sarebbe meno controversa. Il movimento - che si avvale del supporto anche di molte personalità israeliane, dal mondo scientifico a quello della cultura - intende articolare la propria azione su due direttive:  oltre a promuovere proprie iniziative mediante tutte le potenzialità mediatiche, si propone come centro di coordinamento e di raccordo delle attività dei gruppi che operano per gli stessi obiettivi, ovvero per una svolta pacifica del   conflitto israelo - palestinese. Recentemente il movimento SISO ha diffuso un appello di 500 personalità israeliane (intellettuali, politici, diplomatici, scienziati, attivisti per la pace). Fra di essi vi sono gli scrittori David Grossmann, Amos Oz e Orly Castel Bloom,  la cantante Noa, il regista Amos Gitai,  gli intellettuali Naomi Chazan e Daniel Bar Tal, l'ex-leader laburista ed ex-generale Amram Mitzna, l'ex-deputata ed ex-vicesindaco di Tel Aviv Yael Dayan, il Premio Nobel Daniel Kahneman. L'appello si rivolge agli ebrei di tutto il mondo affinché, solidarizzando con gli israeliani, intraprendano un'azione coordinata che ponga fine alla politica dell'occupazione dei Territori. L'appello va nella direzione opposta dei piani rigidi e intransigenti dell'attuale governo israeliano. Tuttavia l'approccio governativo alla questione palestinese non coincide con il comune sentire della base popolare: dai sondaggi e dalle analisi della stampa che hanno preceduto le ultime elezioni nel Paese si evince infatti che l'inaspettato successo del leader Netanyahu si giustifica maggiormente con il timore degli israeliani per le incertezze di un eventuale cambiamento che inauguri una nuova linea politica, piuttosto che con un reale  convincimento circa l'opportunità di sostenere i desueti propositi del conservatore Likud. Naturalmente la realizzazione delle prospettive di pace richiede la cooperazione dei palestinesi, che devono uscire dal tunnel dell'odio indiscriminato nei confronti di Israele. Le iniziative di SISO, a prescindere dal fatto che siano condivise o meno,  come importante corollario stimolano un dibattito, libero da posizioni preconcette, sul futuro di Israele. In proposito, nell'incipit dell'appello di cui si è detto si legge: "Se ti interessa Israele, il silenzio non è più un'opzione".  Secondo il punto di vista del movimento SISO, come in passato la solidarietà degli Ebrei ha consentito la nascita e lo sviluppo di uno Stato ebraico, oggi l'alleanza fra gli ebrei israeliani e quelli della diaspora dovrà costituire uno strumento che consenta ad Israele di ritrovare la sua anima democratica, di riaffermare con coerenza i suoi fondamenti morali, di combattere con efficacia i pregiudizi della comunità internazionale e l'impatto negativo sull'opinione pubblica alimentato dal perdurare del conflitto con i palestinesi. RR 

RIFLESSIONI A MARGINE DELLA MORTE DI SHIMON PERES (30 settembre 2016)
La recente morte di Shimon Peres ha richiamato l'attenzione sulla centralità storica e politica di Israele, e sull'importanza della questione palestinese nel contesto degli equilibri mediorientali. Siamo ormai abituati a convivere con la convinzione che non sia possibile un accordo che ponga fine alla contesa fra israeliani e palestinesi, una patologia geopolitica ormai diventata fisiologica. Le attività di mediazione di Paesi terzi o di organizzazioni internazionali si sono scontrate in concreto con la difficoltà di trovare soluzioni che fossero legittime, ovvero che avessero le potenzialità per assicurare un assetto equo degli interessi contrapposti. Infatti, da un punto di vista politicamente neutro e imparziale le motivazioni addotte dalle parti appaiono ugualmente meritevoli di considerazione: da una parte gli ebrei rivendicano la regione dalla quale sono stati storicamente cacciati, dall'altra i palestinesi reclamano i territori che hanno perso a seguito della nascita di Israele. L'assetto stabilito dalla Risoluzione dell'Onu 181 del 1947, denominata 'Piano di partizione della Palestina', ebbe un'attuazione solo parziale in quanto determinò esclusivamente la nascita di Israele, i cui confini sono stati  poi modificati dalle successive note vicende belliche, che hanno generato una escalation senza ritorno: come disse Shimon Peres con un'efficace metafora, con le uova si può fare una frittata ma dalla frittata non si può tornare alle uova. Si evince da quanto premesso che questo conflitto non ha natura religiosa come in qualche occasione è stato erroneamente ritenuto, ma si fonda solo su pretese territoriali che in concreto hanno (e continuano ad avere) come corollario la  gestione della difficile convivenza fra arabi e israeliani. Segnatamente vi è incertezza sulle frontiere che dovrebbero delimitare i territori sotto la giurisdizione di Israele e sullo status da conferire alla Palestina. Gli israeliani cercano di far prevalere le loro mire espansionistiche attraverso l'occupazione di territori (militare o mediante insediamenti), mentre la resistenza palestinese si avvale, come strumento di intimidazione, dell'azione terroristica di gruppi armati. In proposito le opzioni strategiche dei leader palestinesi sono state sempre più impegnate a danneggiare Israele piuttosto che a porre positivamente le premesse per una reale indipendenza.  La comune aspirazione ad una pace giusta sembra pertanto insidiata dalla difficoltà di fissare i contenuti di una composizione degli interessi contrapposti ritenuta equa da entrambe le etnie. Ragionando in termini pragmatici, che sia ritenuta giusta o meno l'unica soluzione possibile consiste esclusivamente nella coesistenza di due Stati, ovvero nella creazione di uno Stato palestinese accanto a quello a maggioranza ebraica: tuttavia,  l'istituzione dello Stato palestinese impone ad Israele la rinuncia ai territori occupati e a parte della giurisdizione su Gerusalemme (in particolare sulla città vecchia e sulla spianata delle moschee). Non si tratta di richieste che possono essere facilmente accettata dalle frange più nazionaliste e conservatrici della società israeliana. La costituzione di uno Stato palestinese - che ha come presupposto il ritiro dai territori occupati - dovrebbe essere perseguita anche nell'interesse dei cittadini israeliani, stanchi di vivere perennemente sotto assedio e desiderosi di offrire un sereno futuro di pace ai propri figli. Come è stato già detto in precedenza, non è possibile valutare se la creazione dello Stato palestinese possa essere obiettivamente  la soluzione giusta, in quanto i punti di vista delle due etnie sono - com'è noto - molto distanti. Tuttavia questa è sicuramente in concreto è l'unica alternativa possibile ad una condizione di eterna belligeranza. Ovviamente, intrapresa questa opzione, non sarà facile fissare i contenuti dell'accordo. Come spesso accade in queste occasioni, uno degli ostacoli con il quale devono misurarsi le rispettive diplomazie consiste nel far accettare i sacrifici imposti dalla composizione della vertenza alla propria base popolare, sempre particolarmente attenta e sensibile, anche in maniera irrazionale, a qualsiasi rinuncia di sovranità imposta al proprio Stato. In altri termini in questo tipo di  contingenze diplomatiche può essere più difficile trovare un'intesa con la propria base popolare, piuttosto che con la controparte. La realtà israeliana non è monoliticamente e aprioristicamente antiaraba, come erroneamente si è tentati di ritenere, ma è caratterizzata da diversificate componenti che si contrappongono in un animato, vivace e articolato  dibattito democratico, anche  in ambiti istituzionali. In proposito, attualmente si nota una frattura fra le istituzioni governative e la gente comune. Mentre alcune componenti politiche persistono nel mantenere una linea rigida che rifiuta compromessi, la maggior parte degli israeliani è provata dalla precarietà. Inoltre, come corollario, si percepiscono segnali, che provengono dalla società civile, che sono espressione del desiderio di una pacifica convivenza interetnica e interreligiosa. Alcuni esempi. A pochi chilometri da Abu Gosh, ritenuto il luogo nel quale 6000 anni fa venne depositata l'Arca dell'Alleanza, e sulla via per Emmaus, il villaggio in cui Cristo si rivelò dopo la resurrezione, sta sorgendo Saxum,  un centro residenziale e multimediale, nel quale saranno ospitati fedeli di tutte le religioni per una comune esperienza spirituale. E' particolarmente significativo che all'edificazione del centro partecipino, lavorando operosamente e in armonia fianco a fianco, ebrei e arabi, musulmani e cristiani. A pochi chilometri dal muro che divide Gerusalemme da Betlemme si trova l'ospedale pediatrico Caritas Baby, che ha accettato la sfida e l’impegno di curare tutti i bambini, senza differenze fra ebrei e palestinesi. Potrebbe sembrare normale prestare assistenza a malati non tenendo conto dell'appartenenza etnica o religiosa, ma non lo è in questa terra dilaniata dall'odio. Le attività sanitarie dell'ospedale, compreso il pagamento mensile dei salari, sono sostenute dalla generosità di singoli cittadini e da associazioni e organizzazioni, anche di altri Paesi. In questa prospettiva di pace sta assumendo un'importanza centrale l'Associazione SISO (Save Israel - Stop the Occupation), che sarà oggetto di un successivo specifico post. RR  

LA TURCHIA DOPO IL FALLITO GOLPE (6-8-2016) 
Nei mesi che hanno preceduto il fallito golpe, in Turchia era cresciuta l'opposizione interna nei confronti di Erdogan, che, per mantenere il controllo dello Stato, era ricorso all'adozione di misure che, motivate da esigenze di sicurezza, avevano inciso negativamente sulla vita democratica e sulle libertà individuali.  Il tentato colpo di Stato pertanto non deve considerarsi un evento eccezionale e imprevedibile,  ma il prodotto di queste tensioni, che avevano avuto pesanti ricadute sulla coesione politica e sociale del Paese. Tuttavia i moti insurrezionali della sera del 15 luglio hanno consolidato  il leader turco, che, rafforzato anche dalle manifestazioni popolari a suo sostegno, ha avuto il pretesto per reprimere ogni forma di dissenso interno. La Turchia resta destinataria di un duplice attacco terroristico, sia da parte del PKK, sia da parte del radicalismo jihadista nonostante le spregiudicate e ambigue relazioni con l'Isis. Da un punto di vista internazionale il Paese è in una situazione di isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo espressione di un islamismo dai tratti ambigui e palesemente animato solo da  una volontà egemonica, quella di prevalere sugli altri. Il regime turco sta cercando in di uscire da questa condizione di isolamento attraverso alcuni tentativi di normalizzazione dei rapporti bilaterali con alcuni Stati, innanzitutto con la Russia, con la quale le relazioni erano state gravemente compromesse dal noto abbattimento di un jet russo al confine con la Siria il 24 novembre scorso (2015). È stato avviato anche un processo di pacificazione con Israele. Sono in crisi i rapporti con gli Usa, sia per le divergenze sulla questione curda, sia per i sopravvenuti contrasti relativi all'estradizione di Gulen. Sono incerte e fluttuanti i contatti con l'Unione Europea, motivati solo dalla convenienza reciproca, come è provato  dall'accordo sui migranti. L'ingresso nel consesso europeo al momento è improbabile, nonostante la preziosa posizione strategica della penisola anatolica, in quanto la nazione turca non soddisfa gli standard richiesti per l'ammissione. Il PKK, che da tre decenni combatte con ogni mezzo per l'autonomia curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo. La Turchia da un punto di vista sociale al suo interno è profondamente divisa: c'è una borghesia urbana - integrata dalle classi benestanti e dagli studenti impegnati politicamente - che, seppur non omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale delle due anime a lungo termine prevarrà sull'altra. RR

IL FALLITO GOLPE IN TURCHIA (5-8-2016)
A distanza di più di una quindicina di giorni, il fallito golpe in Turchia può essere valutato con maggiore obiettività. Com'è noto, la sera del 15 luglio una parte dell'esercito turco ha tentato di impadronirsi del potere e di destituire il presidente Erdogan. Il colpo di Stato è fallito dopo qualche ora di scontri e di incertezze. Il presidente turco nell'immediatezza ha cercato con un aereo privato di fuggire dal Paese, e, mediante messaggi inviati via smarthphone  all'emittente televisiva Cnn Turkey che li ha diramati, ha invitato la popolazione a scendere in piazza per manifestare pubblicamente il sostegno al governo. Avendo  acquisito la certezza del fallimento dell'insurrezione, Erdogan è tornato ad Istanbul. Gli scontri sono proseguiti fino all'alba, soprattutto ad Ankara, nelle adiacenze del palazzo presidenziale. Alla fine si è registrato un bilancio particolarmente pesante: fra militari, poliziotti e civili più di 260 persone hanno perso la vita, mentre almeno 1500 militari sono stati arrestati. Sono state inoltre minacciate pene particolarmente severe per gli autori della rivolta, prospettando la possibilità di un ripristino della pena di morte. Dopo aver ripreso il controllo del Paese, Erdogan ha immediatamente dato inizio ad una massiccia e capillare epurazione degli ufficiali golpisti. Nei giorni successivi la destituzione dalle funzioni è stata estesa ad altri militari, a poliziotti, a giornalisti, a docenti e insegnanti, e a chiunque altro avesse manifestato in passato critiche o anche solo una tiepida opposizione nei confronti del regime. Barak Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno con prudenza subito manifestato il loro sostegno alla leadership turca democraticamente eletta. Erdogan ha attribuito a Fetullah Gulen la responsabilità di aver organizzato l'insurrezione dalla sua dimora negli Stati Uniti. L'imam turco Fetullah Gulen, che ha negato fermamente ogni addebito, è uno stimato studioso, ed è ideologo e leader del movimento politico di ispirazione islamista Hizmet, che, attraverso una fitta rete di contatti, influenza molte istituzioni sociali turche.  In passato Fetullah Gulen era amico e alleato di Erdogan. I suoi rapporti con il leader turco si raffreddarono nel 1999, quando il predicatore decise di 'auto esiliarsi' negli Stati Uniti. La definitiva rottura avvenne nel dicembre 2013, quando Gulen iniziò a criticare apertamente il governo turco per le sue scelte e per il coinvolgimento in alcune inchieste giudiziarie. Dopo il fallito golpe Erdogan con insistenza ha richiesto agli Stati Uniti l'estradizione di Gulen come presunto responsabile dell'iniziativa. La questione è attualmente motivo di attrito fra i due Paesi, in quanto gli Stati Uniti stanno valutando con molta prudenza l'istanza turca e sembrano orientati a non ritenere sufficienti le motivazioni addotte a sostegno della domanda.  In concreto, il fallito colpo di Stato ha rafforzato Erdogan, che  ha avuto la possibilità sia di liberarsi di oppositori, sia di distribuire ufficiali e funzionari fedeli in tutti i vertici istituzionali e negli uffici di particolare importanza strategica dell'amministrazione. È stato anche detto che già da alcuni mesi il Presidente avesse elaborato una lunga lista di funzionari da allontanare in quanto ritenuti 'non affidabili'. Inoltre, l'iniziativa golpista ha avuto come reazione grandi manifestazioni popolari a sostegno del leader turco, che hanno ulteriormente legittimato il suo attuale potere. Queste considerazioni hanno alimentato alcune illazioni circa il possibile  carattere fittizio dell'insurrezione, ovvero hanno generato il sospetto che il tentato colpo di Stato fosse stato architettato dallo stesso Erdogan. In realtà si è trattato di un vero atto di insubordinazione al regime.  Lo dimostrano soprattutto le ricostruzioni dei fatti sulla base di dati e dettagli  forniti da fonti attendibili, che hanno evidenziato che si è trattato di un golpe particolarmente ben organizzato, che ha di poco fallito i suoi obiettivi per una serie di imprevisti, come quelli che hanno impedito l'arresto del ministro dell'interno e l'abbattimento dell'aereo su cui viaggiava Erdogan, che i golpisti avevano anche programmato di catturare nella località dove stava trascorrendo un periodo di vacanza senza tuttavia considerare la pronta ed efficace reazione della guardia presidenziale. Anche le manifestazioni di piazza hanno contribuito ad impedire il successo dell'iniziativa. Gli insorti per qualche ora hanno avuto il controllo di alcuni centri vitali del Paese (a cominciare dalle comunicazioni). Quindi si è trattato di un vero e proprio tentativo di golpe. Probabilmente per la riuscita del progetto eversivo sarebbe stato necessario che i rivoltosi avessero potuto avere, come concreto e solido riferimento, una personalità particolarmente carismatica e influente che potesse integrare una valida alternativa ad Erdogan. Forse solo un personaggio del calibro di Gulen poteva soddisfare questi requisiti, e da qui  si sono probabilmente originati i sospetti del leader turco. Probabilmente è stata anche sottovalutata dai rivoltosi la popolarità di Erdogan, dovuta soprattutto ai successi economici che hanno consentito un apprezzabile incremento del reddito pro capite medio dei cittadini. RR

LE POLEMICHE SULLE MISURE DI SICUREZZA DISPOSTE A NIZZA (26-7-2016)
In questi giorni continuano in Francia le polemiche sull'adeguatezza e sull'efficienza dei dispositivi di sicurezza predisposti a Nizza sul lungomare per le celebrazioni dell'anniversario della Festa della Bastiglia, in occasione delle quali è avvenuto il noto fatto criminale. È opportuno che sia una Commissione di esperti a stabilire se ci siano stati errori, carenze o leggerezze che hanno reso possibile o facilitato la commissione del folle gesto. Molte  delle critiche, pur sembrando fondate a prima vista sulla base del senso comune, non tengono conto delle consolidate modalità di pianificazione delle misure di sicurezza per eventi di questo genere, e delle problematiche concrete che ne condizionano i tratti distintivi. La censura maggiore riguarda la destinazione di una sola autovettura e relativo equipaggio a sbarrare l'accesso alla strada teatro dei noti fatti. In realtà questa è la normalità. Come si chiude al traffico una strada? È un dispositivo sufficiente destinare a questo fine un'auto e alcuni operatori, oltre alle transenne. Credo che nessuno abbia mai visto in Italia in analoghe contingenze strade interdette al traffico mediante mezzi blindati o attraverso lo schieramento di decine di agenti o militari. È accaduto in Turchia in occasione del fallito golpe, ma si trattava di tutt'altro. Qualora per la chiusura al traffico si sia impiegato personale della polizia municipale, questa scelta non deve essere censurata. Innanzitutto il blocco della strada è una delle articolazioni dei servizi di sicurezza predisposti sotto il coordinamento e la direzione di autorità di polizia (e quindi non si tratta di un dispositivo che opera isolatamente al di fuori di un generale coordinamento). Inoltre il concorso degli operatori della Polizia Municipale è una circostanza ordinaria: infatti in occasioni di questa importanza si deve ricorrere a tutte le forze disponibili sul territorio. Sarebbe ottimale poter impiegare solo agenti della Polizia Nazionale, magari super specializzati nell'antiterrorismo e dotati di mezzi efficientissimi, ma le risorse sono limitate, e per questo è fisiologico che si impieghino tutti i corpi  'territoriali', di cui fanno parte anche i dipendenti della polizia municipale, che sono a tutti gli effetti agenti armati di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria. Tuttavia, nei limiti delle possibilità, si cerca di 'usare' gli operatori in base alle specifiche peculiarità del corpo di appartenenza. Così generalmente la 'municipale' è destinata alla cura della viabilità. Si deve anche considerare che i servizi di ordine e sicurezza durano molte ore, in quanto si ritiene che l'esposizione al rischio di atti criminosi inizi ben prima dell'afflusso della gente e si estenda alla completa evacuazione dei partecipanti alla manifestazione. Poiché ci sono prescrizioni da rispettare che stabiliscono i limiti temporali di impiego dei singoli operatori, è normale la turnazione fra elementi delle forze dell'ordine anche appartenenti a corpi diversi. Le misure di ordine e sicurezza pubblica in situazioni importanti come questa non sono garantite solo dalle forze locali: anche in Francia ci si avvale del concorso di rinforzi di uomini e mezzi che provengono da altre città. Pertanto, piuttosto che concentrarsi sulla presunta insufficienza delle modalità di chiusura al traffico della Promenade, sarebbe più sensato verificare la sufficienza dei rinforzi assegnati dal Ministero dell'Interno francese alla polizia di Nizza per la serata del 14 luglio, ed esaminare in che modo sono stati utilizzati dalle autorità locali. Queste considerazioni non equivalgono ad un giudizio positivo sulle iniziative di sicurezza in questione, ma intendono solo sottolineare che il giudizio sulle responsabilità per l'accaduto è molto complesso e non può prescindere da conoscenze tecniche. Pertanto, se non si vuole fare facile demagogia, sarebbe meglio astenersi da critiche banali e superficiali. Sullo sfondo della polemica c'è la cattiva abitudine - evidentemente non solo italiana - di voler sempre trovare un colpevole, che non di rado viene individuato nell'ultimo esecutore della catena di comando. Ammettere che non ci siano responsabili, non significa ridimensionare l'accaduto e non dare valore alle perdite umane, ma equivale a constatare che il nostro sistema sociale non è perfetto, e  che quindi sia possibile che si producano patologie anche quando ognuno fa il proprio dovere. In alcuni casi la ricerca di un capro espiatorio è una deprecabile pratica giacobina per contenere e dare soddisfazione  all'indignazione della gente. In altri casi questo atteggiamento ipocritamente intransigente è cinicamente alimentato dai vertici politici, che, scaricando colpe su tecnici incolpevoli o sulle  amministrazioni, vogliono implicitamente rivendicare che tutto sarebbe perfetto se non ci fossero errori umani. Un altro aspetto oggetto di controverse valutazioni riguarda l'eventuale esistenza di complici del franco tunisino autore della strage, ed il loro eventuale ruolo nella triste vicenda. Si è cercato  subito di chiarire se l'attentatore fosse un 'cane sciolto' - cioè una persona che aveva operato al di fuori di gruppi terroristici - o fosse 'semplicemente' un balordo. In genere si tira un sospiro di sollievo se si accerta che si versi nel secondo caso. Premesso che si possa essere balordi e 'cani sciolti' nello stesso tempo, questa distinzione ha uno scarsissimo rilievo. In entrambi i casi opera lo stesso meccanismo: l'evento criminoso è il prodotto della nostra esposizione alle conseguenze che l'efficacia suggestionante della propaganda jihadistaesercita su menti deboli (siano esse di emarginati, di gente psichicamente instabile, di aspiranti terroristi). Al contrario il vero elemento che rileva nella ricostruzione dei fatti per tutte le relative conseguenti implicazioni, è rappresentato dalla necessità di chiarire se l'atto terroristico sia il frutto dell'azione di un individuo strutturato in un'organizzazione o si tratti di iniziative estemporanee. RR

LA STRAGE DI NIZZA E LA SICUREZZA FRANCESE (17-7-2016)
Come è noto, la sera del 14 luglio intorno alle 22.30 a Nizza (in Francia) un camion ha investito decine di persone che sul lungomare la 'Promenade des Anglais'  assistevano allo spettacolo pirotecnico con il quale si stavano concludendo le celebrazioni per l’anniversario della presa della Bastiglia, la festa nazionale francese. Nell’occasione sono state uccise 84 persone, mentre più di un centinaio sono rimaste ferite; tra di esse una ventina versano in condizioni gravi. Le modalità dell'incidente  hanno subito indicato che si è trattato  di  un atto terroristico premeditato: il camion è proceduto alla velocità di circa 80 Km l'ora, zigzagando con il chiaro intento di travolgere quante più persone potesse. Sembra inoltre che nel frattempo l'autista  sparasse sui passanti. La folle corsa è terminata dopo due chilometri, quando il conducente, un cittadino francese trentunenne di origini tunisine, è stato attinto dai colpi sparati dalla polizia.  A 36 ore dai drammatici fatti è giunta una blanda rivendicazione: l'agenzia Amaq, vicina allo Stato Islamico, con un breve comunicato  ha precisato che l'attacco è stato portato a termine da un  soldato del Califfato in risposta all'appello di colpire i Paesi della coalizione. Sembrerebbe quindi trovare conferma che l'atto è il risultato di un'iniziativa autonoma in adesione alla lotta 'jihadista' proclamata dallo Stato Islamico, e non costituisce pertanto l'attuazione di un ordine specifico. Fin dal giorno successivo si è discusso nei media, spesso con una competenza inversamente proporzionale alla presunzione, circa eventuali responsabilità delle forze dell'ordine francesi, che con una maggiore attenzione forse avrebbero potuto impedire il fatto o contrastarne le gravi conseguenze. Le attività di prevenzione di atti terroristici si articolano attraverso due fasi: nella prima ha un ruolo prioritario l'intelligence, che dovrebbe essere mirata a conoscere in anticipo le pianificazioni delinquenziali, cosicché possano essere intraprese tutte le iniziative operative finalizzate ad impedirne la realizzazione. La seconda fase si occupa di tutte quelle situazioni - come le celebrazioni per la festa nazionale francese - che possono costituire occasione per la commissione di atti che mettano in pericolo l'incolumità collettiva ed individuale. In questi casi le autorità elaborano delle ordinanze (ormai 'standardizzate') che contengono le necessarie prescrizioni - di cui principalmente sono destinatari gli appartenenti alle forze di polizia - necessarie a garantire la sicurezza dell'evento. Quest'ultima attività di prevenzione globale si realizza mediante specifiche tipologie di dispositivi, come posti di blocco, controlli di vario genere, presidi, che hanno soprattutto un'efficacia dissuasiva; prevalentemente  costituiscono un deterrente, perché rendono difficoltosa l'attuazione di un eventuale progetto criminale. Naturalmente, il proposito di un attentato, se non viene scoperto dall'intelligence, arriva alla fase esecutiva; la sua realizzazione in questo caso può essere impedita solo da queste generali predisposizioni di sicurezza, che tuttavia, non essendo specificamente mirate, possono essere aggirate. Naturalmente più puntuali sono queste misure, più è difficoltoso portare a termine un disegno delittuoso. Come si può ben comprendere, non esistono dispositivi che garantiscono in maniera assoluta. Ciò premesso, tornando ai fatti di Nizza, se l'autore della strage è solo un 'cane sciolto' non strutturato in una cellula terroristica, può essere comprensibile la mancata previsione della sua iniziativa da parte dell'intelligence. L'attenzione deve essere allora rivolta alle modalità dell'ingresso del camion nell'area pedonale riservata ai festeggiamenti. In proposito, le possibilità sono due: o sono state lacunose le prescrizioni di sicurezza emesse dall'autorità per l'occasione, o ci sono state leggerezze da parte degli operatori. Se è vera la tesi della Polizia francese, ovvero che  il camion avrebbe aggirato la barriera che chiudeva la strada salendo improvvisamente sul marciapiede, è possibile che in concreto non ci siano responsabilità. Anche se l'attentato è il risultato di una grave patologia non è detto che necessariamente ci debba essere un responsabile, come viene sostenuto con il solito giacobinismo. Se invece il franco-tunisino aveva dei complici e il proposito criminoso è stato oggetto di una preventiva pianificazione, in questo caso si dovrebbe prendere atto dell'ennesimo insuccesso delle capacità dell'intelligence francese, ovvero dell'inefficacia della sua azione informativa e di controllo. A bordo del camion sono state rinvenute copie 'giocattolo' di alcuni kalashnikov e qualche granate disinnescata. Questa circostanza poco spiegabile potrebbe indurre a considerare anche la possibilità che il piano originario dell'attentato fosse un altro e che potesse prevedere la partecipazione di complici. La personalità dell'autore della strage, che aveva gravi problemi personali che lo avevano confinato ai margini della società, conferma la tesi, autorevolmente sostenuta, che le iniziative 'jihadiste' sono il risultato di un 'islamizzazione del radicalismo', anziché di 'radicalizzazione dell'islamismo'. Infatti, nella società occidentale, che versa in una fase di diffuso malessere, non esistono più valori oggetto di riferimento, e tutto sembra dominato dalla mancanza di un'etica comune, da un vuoto ideologico, da una generale visione relativistica in un contesto di diffuso nichilismo. Questo clima nelle frange dell'emarginazione, nei giovani che hanno difficoltà ad orientarsi radicalizza un atteggiamento critico nei confronti della società. Al contrario l'Islam offre un modello che, seppur discutibile, si basa su valori definiti e solidi, e che pertanto possono esercitare una qualche seduzione su chi è alla ricerca di una identità definita per arginare il senso di insicurezza.  Così la contestazione radicale della nostra società può subire un processo di islamizzazione. Pertanto la penetrazione della cultura islamica fondamentalista non sarebbe il risultato di un'aggressione esterna, ma è resa possibile dal nostro vuoto etico, dal clima di costante contraddizione, da una generale crisi che si declina nella cultura, nelle connotazioni  sociali, in una dialettica che con difficoltà produce convincenti esiti politici.  Anche se - come appare probabile - l'autore dell'attentato non era un militante dello Stato Islamico, è improcrastinabile un'azione efficace da parte della coalizione occidentale che annienti il Neocaliffato troncando innanzitutto i flussi finanziari che ne consentono l'esistenza. Lo Stato Islamico, anche se la presenza del radicalismo in Europa è ormai capillare ed endemica e perciò non cesserebbe con la sua fine, per i cosiddetti 'cani sciolti', è un riferimento concreto e ideale; la sua presenza incoraggia un potenziale terrorista ad agire per auto accreditarsi come suo emissario. Come dimostrano i fatti di Nizza, le azioni dei cosidetti 'cani sciolti' sono particolarmente imprevedibili e insidiose, perché oltre a colpire i 'soft target', sono poste in atto da islamici non  conosciuti dalla polizia in quanto non  strutturati in una organizzazione. E il potere dello Stato Islamico trova fondamento nella nostra insicurezza. RR

LE MADRASE. (9-7-2016)
Anche se il commando che la sera del primo luglio ha assaltato un locale di Dacca uccidendo 26 persone tra civili e poliziotti era composto da giovani benestanti che avevano frequentato noti atenei all'estero, è tornato attuale il tema dell'educazione nelle madrase. Infatti, il clima fondamentalista che in questi ultimi anni ha caratterizzato il Bangladesh, Paese tradizionalmente tollerante, è particolarmente influenzato dalla formazione che si riceve nelle scuole coraniche, spesso parzialmente finanziate con fondi e donazioni provenienti dagli Stati del Golfo Persico. Le scuole islamiche, note come madrase, presenti principalmente in Medio Oriente, Asia Centrale e Sud-Est asiatico, fin dall'11 settembre del 2001 sono state destinatarie di una crescente attenzione da parte delle agenzie di intelligence occidentali. Allora risultò che nelle madrase - soprattutto in Pakistan - numerosi leader talebani e membri di Al Qaeda avevano sviluppato le loro idee politiche radicali. Madrasa in arabo significa 'scuola'; tuttavia nel linguaggio comune convenzionalmente al termine si attribuisce un significato più ristretto in quanto con esso si intendono gli istituti che propongono un percorso educativo orientato e focalizzato all’apprendimento dei fondamenti dell’Islam e della lingua araba, all'approfondimento delle scienze giuridico-religiose islamiche, e quindi, complessivamente, alla formazione di una cultura che ha un'esclusiva impronta musulmana. Infatti, anche in quelle madrase nelle quali si insegnano materie secolari, l'educazione ha sempre come riferimento lo studio del Corano e degli Hadith (cioè le gesta del Profeta). In alcuni Paesi, come l’Egitto e il Libano, prevale il significato generico del termine, ovvero quello di istituzione scolastica, privata o finanziata dallo Stato, laica o religiosa. In altri Stati, come il Pakistan e il Bangladesh, per 'madrase' si intendono invece le scuole religiose islamiche, soprattutto di livello primario e secondario. Dal XIX secolo alcune di esse hanno assunto la configurazione di università, organizzandosi in facoltà e insegnando anche dottrine non teologiche; ne è un esempio l'Università di Al Azhar (con sede al Cairo), principale centro della cultura islamica, fondata nel 970-972 proprio come semplice madrasa. Le madrase spesso sono associate a moschee ed a luoghi di residenza per studenti e insegnanti: in questo caso l'istituto di istruzione diviene il centro di una comunità confessionale e il processo educativo si articola all’interno di una dimensione di vita nella quale esiste solo l’Islam, che convive con l’incapacità di guardare in maniera obiettiva le altre culture. Si sviluppa così un approccio alla vita di tipo fondamentalista, nel quale ogni problema trova soluzione nella religione presentata in maniera acritica e dogmatica, mentre il resto del mondo è considerato infedele poiché adotta una visione laica della fede religiosa che, confinata nella sfera individuale, non può imporsi come modello socio-politico. L’Occidente, per questo approccio laico, è considerato in generale l’origine di ogni male e, da un punto di vista economico e sociale, la causa di ogni disfunzione. La conoscenza della storia è limitata agli avvenimenti che riguardano esclusivamente il mondo arabo, considerato una monade impermeabile a qualsiasi influsso esterno, mentre lo studio delle religioni è solo in funzione di una difesa dell’Islam; in questo modo si favorisce lo sviluppo di un attivismo politico guidato da una concezione teoretica modellata esclusivamente su principi confessionali. Si consolida così un'incapacità di svolgere un’analisi obiettiva delle altre culture o delle realtà politiche nelle quali la fede musulmana non sia espressione di una maggioranza. Nelle madrase l’insegnamento è affidato a imam e mufti. L’imam è un musulmano che, essendo particolarmente esperto nelle prescrizioni relative ai riti del 'salat' (la preghiera obbligatoria professata in forma collettiva), si pone davanti ai fedeli guidando l’orazione. L’Islam di confessione sunnita non ha una gerarchia religiosa e pertanto l’imam, pur avendo una leadership spirituale, non è un chierico, né è destinatario di una designazione formale superiore, ma acquisisce questo titolo per attribuzione da parte della comunità o per auto-proclamazione. Nell’Islam sciita il titolo di imam ha un significato religioso e politico di maggior rilievo: gli imam sono i successori legittimi di Maometto; in quanto tali, sono ispirati da Dio e hanno l’autorità per fornire commenti e interpretazioni del Corano e per guidare politicamente la comunità. Il muftì è invece un giurisperito. Anche se risulta difficile provare una diretta correlazione fra l’insegnamento nelle madrase e il terrorismo, è tuttavia innegabile che in esse si consolidi una cultura anti-occidentale, che, a seguito di inclinazioni personali o condizionamenti esterni, può incoraggiare azioni violente, che maturano individualmente o in un contesto organizzato. Il tema dell'insegnamento nelle madrase ripropone la più ampia questione delle relazioni fra Islam e terrorismo. In proposito, com'è noto, si contrappongono due tesi estreme: quella di chi vede nel terrorismo di matrice islamica un normale precipitato della religione musulmana, e quella simmetricamente opposta di chi nega qualsiasi rapporto fra l'Islam e il jihadismo violento. Come dimostra l'influsso che l'educazione fondamentalista che si riceve nelle madrase ha esercitato sullo sviluppo delle personalità di talebani e di futuri appartenenti ad Al Qaeda, non si può negare che esista una relazione fra una malintesa interpretazione della religione musulmana e alcune degenerazioni violente. In altri termini, obiettivamente esistono perversi legami fra Islam e degenerazioni violente, anche se non si tratta di è un fenomeno fisiologico in quanto non tutti i musulmani sono violenti, ma di una inquietante patologia. RR

L'ISLANDA AD EURO 2016. (7-7-2016)  
I vincitori morali di questi Campionati Europei sono i calciatori islandesi, con il loro robusto ma corretto impegno, costante a prescindere dal risultato fino all'ultimo minuto di gioco, e i loro tifosi, con il loro incitamento colorato e festoso, e i loro rituali a metà strada fra una sana e disinvolta goliardia sportiva e le reminiscenze di una cultura millenaria e ancestrale, celebrati con la leggerezza ingenua di chi prende sul serio ogni cosa, e condivisi al termine della gara con i giocatori come se fossero un tributo di gloria che si deve a chi ha difeso con onore la propria patria. Non so molto dell'Islanda. Nel corso di riunioni all'estero ho spesso incontrato e conosciuto colleghi islandesi. Questo Stato insulare non fa parte dell'Unione Europea, ma ha tuttavia aderito all'accordo di Schengen: conseguentemente i collaterali colleghi di quel Paese partecipavano, soprattutto in qualità di osservatori, a gruppi di lavoro pertinenti alle materie relative alla cooperazione di polizia. Non ho familiarizzato molto con loro; parlavano tutti un inglese molto più fluente del mio, ma con un accento un po' spigoloso simile a quello degli irlandesi - forse a causa di qualche antenato celtico in comune - e con qualche costruzione sintattica un po' troppo elaborata, improbabile per la semplicità apparente della lingua inglese. Tuttavia, il mio eloquio 'friendly' non era frenato da queste difficoltà tecniche di comunicazione, ma dalla loro scoraggiante riservatezza, che mi faceva sembrare invasiva qualsiasi iniziativa che cercasse di coinvolgerli maggiormente. In realtà ora so che quell'atteggiamento non era frutto di timidezza. Era il disagio di chi, venendo da uno splendido contesto naturale, si trovava fisicamente ristretto nei grigi e artificiosi ambienti sigillati degli edifici dell'Unione Europea, nei quali si respira un'aria secca e viziata. Era l'imbarazzo di chi, sensibile alla priorità di stabilire le premesse che potessero rendere la reciproca convivenza più piacevole e semplificata, si trovava immerso nella logica, qualche volta perversa, dei burocratismi comunitari. Ho letto che un po' di mesi fa in occasione di un incontro di calcio in casa con la nazionale italiana, un noto calciatore islandese qualche ora prima del match si è recato in un negozio sportivo di Reykjavík per comprarsi un paio di scarpini da calcio nuovi. Assurdo. Che cosa ha in comune  quel mondo con il nostro, nel quale, mentre i giocatori affermati vivono sotto volte dorate e guadagnano milioni, il sacrificio di uno studioso o di un ricercatore viene compensato con  uno stipendio da fame? Secondo un sondaggio mondiale sulla qualità della vita, l’Islanda è uno dei Paesi con gli abitanti più felici. Noi siamo diversi, viviamo nel pieno del progresso, e non in un isola nella quale le pecore sono più degli esseri umani, che in media sono solo quattro per kilometro quadrato. Perciò  nelle nostre città sovraffollate abbiamo un gran numero di scontenti, di disadattati, di malati di mente, e un'alta percentuale di suicidi, come è normale che sia. L'Islanda è il Paese con più  libri pubblicati 'pro capite': in concreto, un islandese su dieci ne ha scritto e pubblicato almeno uno. Noi ci comportiamo in un altro modo. In Italia siamo molto presi da impegni, come trastullarci con le effimere suggestioni della tecnologia digitale, per cui, secondo un sondaggio dell'Istat, nel 2015 solo il 42% degli italiani ha potuto leggere almeno un libro.  In Islanda i crimini violenti sono praticamente inesistenti e la gente si sente così sicura da lasciare che i propri figli giochino da soli all'aperto o rimangano incustoditi in carrozzina. Non esistono i cognomi, ma solo il patronimico, cioè i bambini aggiungono al nome di battesimo del padre un suffisso che significa 'figlio di' o 'figlia di'. Come se io, anziché Roberto Rapaccini, mi chiamassi Roberto figlio di Delfo (Delfo è il nome di mio padre). Che Paese strano! In Islanda non ci sono nemmeno le zanzare. E questo non dipende dall'escursione climatica, ma dall'ambiente inospitale per la sopravvivenza delle larve. In Islanda non esistono tensioni sociali. Alcuni studi hanno rivelato che  solo l'1% circa degli islandesi si sente appartenente ad una classe superiore, e solo il 1% a quella  inferiore. Il rimanente 98% circa, si percepisce come classe media. Noi invece siamo rassegnati all'idea che il 48% della ricchezza mondiale sia in mano a un'ottantina di persone. Speriamo che i nativi islandesi sopravvivano alla maligna penetrazione della nostra cultura. Long live Iceland! RR

BREXIT: LA PROCEDURA (2-7-2016)
Rientra nei poteri di ogni Stato membro decidere unilateralmente di ritirarsi  dall'Unione Europea. L'ipotesi è disciplinata dalla norma contenuta nell'articolo 50[1] della versione consolidata del Trattato sull'Unione Europea[2] (introdotta con gli accordi di Lisbona, entrati in vigore il I dicembre 2009[3]). La previsione di una specifica disposizione  esclude che per la procedura di recesso dall'Unione Europea ci si possa avvalere di altre azioni sebbene mutuate dai principi generali del diritto internazionale. Conseguentemente, nell'attuale caso britannico, il  naturale seguito del referendum sull'uscita dall'Europa politica dovrebbe essere il ricorso a questa causola, che  può attivarsi solo su iniziativa formale del Regno Unito. Con la presentazione  della relativa istanza la  procedura di uscita avrà inizio ufficialmente; come corollario comincerà anche la negoziazione di intese finalizzate a definire le modalità della 'separazione', e a delineare il quadro di riferimento per i reciproci futuri rapporti fra lo Stato recedente, nel caso di specie il Regno Unito, e l'Unione Europea. In proposito,  l'articolo 50 prevede che le prescrizioni dei trattati comunitari cessino di essere applicabili al Paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore delle intese sopra menzionate propedeutiche al recesso; in mancanza di tali accordi, gli effetti dell'uscita si produrranno automaticamente due anni dopo la notifica dell'istanza di recesso, salvo che il Consiglio Europeo, d'intesa con lo Stato membro, decida all'unanimità di prorogare tale termine. Generalmente, considerata la loro complessità si ritiene  che negoziati propedeutici all'uscita impegnino un arco di tempo di almeno due anni; nell'attuale specifico caso della 'Brexit', si prevede che i tempi saranno più lunghi[4]. L’organo del Paese recedente competente a proporre validamente l'istanza si dovrà desumere dal suo ordinamento costituzionale. Nella specifica ipotesi del Regno Unito la semplice notifica dell'esito del referendum non può essere sufficiente a questo fine: peraltro il referendum indetto dal governo di Londra è un atto consultivo  interno non vincolante, seppure di grande rilievo; quindi in linea teorica è possibile che il Parlamento, che ne dovrà ratificare gli esiti, si pronunci per l'opportunità di non dare seguito ai suoi risultati (ad esempio, per prioritari interessi nazionali superiori). È un'ipotesi improbabile e paradossale, che ignorerebbe la volontà popolare, ma teoricamente e tecnicamente possibile dal momento che ogni parlamentare con il suo voto sarà chiamato a esprimere il suo punto di vista. L'uscita dall'UE non preclude la successiva candidatura per una nuova adesione. In linea di massima, fino alla data della sua uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito dovrebbe essere soggetto a tutte le regole e alle procedure comunitarie. Successivamente si applicheranno le disposizioni dell’accordo di recesso, eventualmente integrato dal ricorso ai principi generali di diritto, ove necessario. L'esito del referendum produrrà già un effetto, ovvero l'implicita dichiarazione di inesistenza dell'accordo che venne raggiunto il 19 febbraio u.s. (2016) fra i leader dell'Unione Europea al fine rafforzare lo speciale 'status' del Regno Unito. Poichè lo scopo dell'accordo era di evitare l'esito separatista della consultazione referendaria, venne  convenuto, come risulta dalle Conclusioni del Consiglio Europeo[5], che, nel caso di esito referendario favorevole all’uscita, l’accordo in questione sarebbe 'cessato di esistere', cioè sarebbe divenuto inesistente. Il concetto di inesistenza è molto più forte di quelli di invalidità e di inefficacia: un accordo inefficace o invalido, rimane esistente seppur viziato o privo di effetti, e quindi in peculiari circostanze potrebbe produrre esiti; un accordo inesistente è come se non fosse mai esistito e quindi non è mai suscettibile di conseguenze giuridiche. Forse siamo alla vigilia di cambiamenti epocali. L'Europa non si caratterizza solo per la sua dimensione territoriale, ma anche come teatro di vicende che si articolano in un comune contesto storico, culturale e politico. La 'Brexit' apre scenari mai esplorati, dagli esiti incerti, imprevedibili, inquietanti. Attraverso molte chiavi di lettura si sta cercando di approfondire e di interpretare questa congiuntura. A prescindere dai  risultati specifici di  queste analisi, appare evidente che l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea sia il prodotto di aspettative deluse, di un malessere diffuso, di insuccessi imprevedibili, sui quali i 27 Paesi dovranno al più presto riflettere congiuntamente. RR

[1] Il testo dell'articolo 50: "1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.    2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.  3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine.   4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano.   Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento  dell'Unione europea.  5. Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49.".

[2] È la versione del Trattato comprensiva di tutte le successive integrazioni.

[3] In precedenza l'ipotesi del recesso  di uno Stato dall'Unione non era disciplinata.

[4] Infatti al Governo britannico servirà altro tempo (secondo alcuni almeno otto anni), per rinegoziare le relazioni con ogni singolo Stato dell'Unione sui temi più vari come l'immigrazione o questioni economiche e bancarie, o come la  materia dell'approvvigionamento energetico. Il vuoto lasciato dalla perdita dello 'status' di Paese membro dell'Unione Europea dovrà essere colmato da specifiche pattuizioni bilaterali o multilaterali.

[5] Dalle Conclusioni del Consiglio Europeo del 18-19 febbraio 20.16:"....Resta inteso che, qualora il risultato del referendum nel Regno Unito fosse favorevole all'uscita di quest'ultimo dall'Unione europea, l'insieme di disposizioni di cui al punto 2 cesserà di esistere...."